Nel frattempo tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1920 si svolge a Mosca e Pietrogrado il secondo congresso dell’Internazionale Comunista. Rispetto al congresso precedente le condizioni sono decisamente cambiate. La Russia sta ormai uscendo vittoriosa dalla guerra civile, le potenze straniere che avevano supportato le Armate Bianche si sono ritirate.

Monumento III Internazionale

Anche i numeri sono differenti. Vengono accreditati 169 delegati, membri di 64 partiti provenienti da una cinquantina di paesi. Il tema centrale del congresso è la costituzione di partiti comunisti in grado di guidare i lavoratori e i contadini lottando allo stesso tempo contro il riformismo e contro il settarismo (ciascun delegato riceve una copia dell’ultima pubblicazione di Lenin “L’estremismo”).

Vengono qui elaborate le 21 condizioni per l’adesione all’Internazionale. La lotta ai riformisti, con la richiesta di espulsione di questi ultimi, e il cambio di nome da socialista (o socialdemocratico) in comunista dominano il dibattito. Non si tratta di questioni riconducibili a una sorta di purezza programmatica, ma di questioni ancor più importanti alla luce dei movimenti nei principali paesi europei.

Si discute molto del PSI e della situazione rivoluzionaria in Italia. E’ passato qualche mese dallo “sciopero delle lancette” e siamo alla vigilia delle occupazioni delle fabbriche di settembre. Se in passato l’Internazionale aveva riposto una certa fiducia nel partito italiano, anche per le scarse informazioni che arrivavano all’epoca, durante questo congresso i tentennamenti dei socialisti italiani vengono messi sotto esame.

La Direzione infatti è già stata messa alla prova una prima volta, dimostrando un atteggiamento esitante. Lenin inoltre loda pubblicamente Gramsci e il suo gruppo:

“Per quanto riguarda il PSI, il II Congresso ritiene sostanzialmente giuste la critica al partito e le proposte pratiche, pubblicate come proposte al Consiglio Nazionale del PSI, a nome della sezione torinese del partito stesso, nella rivista ‘L’Ordine Nuovo’ dell’8 Maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale.”1

E’ una posizione che non convince né Serrati né Bordiga, tuttavia il motivo del contendere rimane un altro: l’atteggiamento dei massimalisti nei confronti di riformisti.

Così risponde Lenin a Serrati, il quale si rifiutava di espellere Turati, D’Aragona e tutta la loro corrente:

“Si afferma che essi [i riformisti] vogliono difendere il proletariato contro la reazione. Cernov, i menscevichi e molti altri in Russia difendono anche loro il proletariato contro la reazione, ma questo non è ancora una ragione per accoglierli tra noi. Perciò dobbiamo dire ai compagni italiani e a tutti i partiti che hanno un’ala destra: la tendenza riformista non ha niente in comune con il comunismo.”2

In quanto a Bordiga, la sua posizione astensionista viene nettamente bocciata nella commissione sul parlamentarismo.

Il II Congresso dell’Internazionale Comunista e soprattutto il fallimento dell’occupazione delle fabbriche delineano così le tre posizioni in campo, che si scontreranno di lì a qualche mese nel XVII Congresso del PSI a Livorno, previsto per il gennaio del 1921.

L’area “Concentrazione socialista” di Turati, del gruppo dirigente della CGL e dei parlamentari; l’area massimalista di Serrati ed infine l’area comunista di Bordiga e Gramsci costituiscono i raggruppamenti che si confrontano al congresso.

Se i compagni de “L’Ordine Nuovo” si sono orientati giustamente ai Consigli di fabbrica, relegando erroneamente in secondo piano la battaglia di opposizione nel partito (Bordiga aveva criticato l’appoggio di Gramsci e compagni ai massimalisti un anno prima al XVI Congresso a Bologna), “Il Soviet” fa invece l’errore opposto, concentrando le proprie forze esclusivamente nella lotta interna al PSI, ritenendo invece inutile la battaglia degli ordinovisti.

In ogni caso il gruppo di Bordiga fa un passo indietro sulla questione dell’astensionismo, anche considerando le posizioni emerse al Congresso dell’Internazionale. Nel corso del mese di ottobre vengono formalizzate le aree del PSI. L’Internazionale considera l’area comunista l’unica rappresentante della rivoluzione in Italia e spinge per la costituzione del partito comunista. Entrambi sono inoltre convinti che la schiacciante maggioranza dei lavoratori appoggerà il nuovo partito:

“Il Partito socialista, di giorno in giorno, con una rapidità fulminea, si decompone e va in sfacelo; le tendenze in un brevissimo giro di tempo, hanno già acquistato una nuova configurazione; messi di fronte alle responsabilità dell’azione storica e agli impegni assunti nell’aderire all’Internazionale comunista, gli uomini e i gruppi si sono scompigliati, si sono spostati; l’equivoco centrista e opportunista ha guadagnato una parte della direzione del Partito, ha gettato il turbamento e la confusione nelle sezioni. 

Dovere dei comunisti, in questo generale venir meno delle coscienze, delle fedi, della volontà, in questo imperversare di bassezze, di viltà, di disfattismi è quello di stringersi fortemente in gruppi, di affiatarsi, di tenersi pronti alle parole d’ordine che verranno lanciate.

I comunisti sinceri e disinteressati, sulla base delle tesi approvate dal II Congresso della III Internazionale, sulla base della leale disciplina alla suprema autorità del movimento operaio mondiale, devono svolgere il lavoro necessario perché, nel più breve tempo possibile, sia costituita la frazione comunista del Partito socialista italiano, che, per il buon nome del proletariato italiano, deve, nel Congresso di Firenze, diventare, di nome e di fatto, Partito comunista italiano, sezione della III Internazionale comunista; perché la frazione comunista si costituisca con un apparecchio direttivo organico e fortemente centralizzato, con proprie articolazioni disciplinate in tutti gli ambienti dove lavora, si riunisce e lotta la classe operaia, con un complesso di servizi e di strumenti per il controllo, per l’azione, per la propaganda che la pongano in condizioni di funzionare e di svilupparsi fin da oggi come un vero e proprio partito. 

I comunisti, che nella lotta metallurgica hanno, con la loro energia e il loro spirito di iniziativa, salvato da un disastro la classe operaia, devono giungere fino alle ultime conclusioni del loro atteggiamento e della loro azione: salvare la compagine primordiale (ricostruendola) del partito della classe operaia, dare al proletariato italiano il Partito comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e le condizioni per l’avvento della società comunista.”3

Zinov’ev nell’Esecutivo dell’Internazionale tenutosi il 3 Novembre 1920 dichiara:

“I comunisti capeggiati da Bombacci, Bordiga e Terracini…affermano di avere con sé il 75 – 90 per cento del partito…io ritengo che nell’attuale situazione politica italiana qualsiasi compromesso con Serrati e i ‘comunisti unitari’ , sarebbe oltremodo dannoso.”4

Restano quindi le ragioni della lotta al riformismo e al massimalismo, oltre alla difesa incondizionata dell’Internazionale. I calcoli però si rivelano sbagliati.

Congresso Livorno

 Il 15 gennaio 1921 si apre il congresso di Livorno. Le posizioni sono ben distinte. Il vecchio leader riformista Filippo Turati concentra il suo intervento su una critica all’uso della violenza rivoluzionaria, a cui contrappone il pacifico gradualismo come unico mezzo per la conquista del potere:

“Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista, la questione dei fini, e neppure quella dei mezzi, ma una pura e semplice valutazione della maturità delle cose e del proletariato a prendere determinate posizioni in un dato momento; è unicamente la valutazione della convenienza di determinati mezzi episodici della lotta. 

La violenza, che per noi non è un programma, non può e non deve essere un programma, che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare – i cosiddetti comunisti puri, chiamateli come volete – che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere  in sé, noi, come programma, la rifiutiamo.

La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana.

[…]

Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti!

Soltanto noi siamo i figli di quel Manifesto, che accettiamo come una cosa che non si accetta come un dogma religioso, ma nel suo spirito, ponendolo nel suo tempo, integrandolo colle revisioni, i perfezionamenti, gli sviluppi   che i tempi consigliano e che gli stessi autori e i più autorizzati interpreti del loro pensiero hanno solennemente consacrato nella dottrina.

Io citai a Bologna la celebre prefazione alle «Lotte di classe in Francia» di Marx,   prefazione del suo continuatore più autorizzato, del suo, non dico braccio destro, ma cervello destro, di Federico Engels, in cui, dopo quasi mezzo secolo dal «Manifesto dei comunisti», se ne faceva dai più autentici interpreti la revisione confessando come, non per gioventù di uomini, ma per la giovinezza del Partito nel tempo essi avessero sopravalutata la possibilità insurrezionale, avessero creduto a ciò che non volevano più.

E la potete vedere, questa citazione, negli opuscoli che l’hanno diffusa: è una vera sconfessione del culto della violenza; ed essi confessano  che si erano ingannati, che la storia li ha completamente smentiti, e che essa dimostra come le classi che detengono il potere hanno più paura dell’azione legale del proletariato che dell’azione illegale e dellʼinsurrezione. La légalité  nous tue. Per cui essi ci provocano sulle piazze, dove sanno che saremo sconfitti, mentre sanno che nell’esercizio  dei mezzi legali essi stessi dovranno rompere la legalità, non noi, la legalità che li uccide, veramente,   definitivamente. E si potrebbero, se volessi farvi un lungo discorso, ma non ne ho lʼintenzione, e passo subito al secondo punto della mia breve concione, si potrebbero citare altri punti.

Non guardiamo una frase di un discorso, di un opuscolo, dobbiamo studiare, e i giovani anche, dobbiamo guardare lʼinsieme del pensiero marxista, cercare   nelle sue monografie, ed allora, leggiamo nella «Guerra civile in Francia», scritta dopo il 1870, leggiamo cosa egli dice quando dichiara che i lavoratori della Comune sapevano che, per raggiungere la loro emancipazione, per raggiungere le forme superiori della società cui tendevano dovevano sostenere delle lunghe lotte ed attraversare   una serie di fasi storiche successive che avrebbero trasformato a poco a poco le circostanze e gli uomini, dovevano liberare gli elementi che la vecchia società tiene nel suo seno, per concludere con la derisione delle congiure, col beffeggiare questa borghesia di allora – forse ancora di oggi – che immagina lʼInternazionale dei lavoratori come  una società segreta di congiure e di complotti, mentre è lʼassociazione di tutti quanti i grandi interessi umani che si uniscono per la storia nuova.”5

Friedrich Engels

Turati utilizza qui Engels, per giustificare la propria posizione. Eppure lo stesso Engels, poco prima di morire nel 1895, aveva contestato la pubblicazione parziale di quella introduzione a cui si riferisce Turati:

“Con mia grande sorpresa trovo oggi nel Volwarts un estratto della mia Introduzione, pubblicato senza che io lo sapessi e così sconciato che io vi appaio come un pacifico fautore della legalità quand meme (a tutti i costi). Tanto più che vorrei che la Introduzione apparisse integra in Die Neue Zeit perché venisse distrutta questa vergognosa impressione. Dirò molto chiaramente ciò che penso a questo proposito a Liebknecht e anche a coloro, chiunque essi siano, che gli hanno offerto questa possibilità di deformare il mio pensiero.”6

E ancora:

“X mi ha fatto un brutto scherzo. Dalla mia Introduzione agli articoli di Marx sulla Francia del 1848-50 egli ha estratto tutto ciò che poteva servirgli in difesa della tattica ad ogni costo pacifica e contraria alla violenza, che gli fa comodo predicare da un po’ di tempo, soprattutto ora che a Berlino si preparano le leggi eccezionali. Ma io raccomando questa tattica solo per la Germania d’oggi e anche qui con riserve di carattere essenziale. In Francia, Belgio, Italia e Austria non è possibile seguire questa tattica nella sua interezza e in Germania può diventare inadatta domani.”7

I massimalisti, per difendersi dagli attacchi dell’Internazionale presente al congresso, finiscono per coprire i riformisti. Ricorda Spriano:

“Del resto, l’oratore ufficiale dei massimalisti, Baratono non ha forse impostato il suo discorso sulla contestazione più radicale del concetto di rivoluzione, quale è acquisito ai comunisti? Adelchi Baratono afferma appunto che se i socialisti italiani hanno acconsentito, durante l’occupazione delle fabbriche, ai miti consigli degli organizzatori sindacali (‘abituati per loro natura ad essere molto cauti e prevedere tutti i pericoli’) ciò è stato giusto e logico. Quegli organizzatori conoscevano la psicologia delle masse meglio di tutti, sapevano che la rivoluzione non poteva essere vittoriosa in Italia.

‘La presenza e l’autorità che si dice avere nel Partito Socialista questa nostra destra non è una causa della mancata rivoluzione, ma è, se mai, un effetto: dimostra appunto che le condizioni dell’Italia sono tali che questi destri sono ancora oggi compatibili, o erano ancora ieri compatibili nelle nostre file.’ ”8

Bordiga riassume invece a nome della frazione comunista le due ragioni che giustificano la scissione:

“Voi, o compagni, ci obiettate: “Ve ne andrete, abbiamo visto altri andarsene, i sindacalisti, gli anarchici, abbiamo visto altre sfrondature…. Ve ne andrete come altri se ne sono andati…”. Ristabiliamo i pronomi al loro posto e vi calmerete. Voi dite a noi “secessionisti”, voi ci dite: “Ve ne andrete e finirete dove altri hanno finito perché la bandiera della lotta di classe è rimasta a questo vecchio tradizionale Partito Socialista che attraverso ai suoi urti di tendenza è rimasto finora all’avanguardia dell’azione del proletariato italiano, voi siete piccoli gruppi di gente, di illusi, di arrabbiati o maniaci della violenza che andate e che subirete la stessa sorte degli altri…”  

Se questo avverrà, ebbene, noi, o compagni, vi diciamo che vi sono due ragioni che ci differenziano da tutte le scissioni che sono fino ad oggi avvenute. Vi è la ragione che noi rivendichiamo, e voi avete ancora la possibilità di venire a confutare questi argomenti di dottrina e di metodo, noi rivendichiamo la nostra linea di principio, la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti.

Noi ci sentiamo eredi di quell’insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni! 

[…]

E vi è un’altra ragione, o compagni. lo ringrazio tutta l’assemblea di avermi fatto esporre concetti anche aspri senza interrompermi; mentre io forse ho interrotto gli altri. Dunque, o compagni, vi è un’altra ragione che dobbiamo invocare per difenderci da questa previsione, che mi auguro da tutti sia fatta con dolore, ed è quella che è stata già detta (non è certo un motivo demagogico che porto qui perché a me pare di non avere parlato nel modo con cui si parla quando si vuole acchiappare dei voti incerti) ed è quella che noi andiamo con la Terza Internazionale.

La Terza Internazionale non è la cosa perfetta che si dice, la Terza Internazionale si può criticare nei suoi comitati, nei suoi congressi, poiché ovunque si possono trovare debolezze e miserie, ma voi compagni non dovete dimenticare che vi è qualche cosa che resta al di sopra di qualunque critica che possa colpire un dettaglio di questa organizzazione formidabile, di questa conclusione colossale che si aderge all’orizzonte della storia e dinanzi alla quale tremano, condannate alla decisiva sconfitta, tutte le forze del passato.

Vi sarà dell’autoritarismo, del difetto tecnico di funzione, degli esecutori che mancano, tutto voglio concedere, ma credete proprio voi che queste piccole cose possano svalutare questo fatto storico grandioso? Quelle parole che allora piovvero come fredde ed inascoltate tesi teoriche, quell’affermazione della unione del proletariato di tutti i paesi per la sua rivoluzione e per la sua dittatura e non solo per la tesi fredda della semplice socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, comune persino ai rinnegati di Amsterdam, sono la base di una dottrina che è stata sparsa da pochi illuminati oggi in ogni paese del mondo.

Uomini proletari, lavoratori sfruttati di tutte le razze, di tutti quanti i colori, si organizzano e si costituiscono con mille difetti, ma con una idea che sicuramente ci dice che si tratta di una costruzione definitiva della storia. Essi costituiscono così questo ingranaggio di lotta, questo esercito della rivoluzione mondiale. Credete voi che dinanzi ad una cosa così grande vi siano i piccoli errori che possano fare ritrarre chicchessia che non sia un avversario di principio?

Che possa fare esitare chicchessia quando si deve scegliere se stare con la Terza Internazionale, il che vuole dire nella Terza Internazionale, come vuole la Terza Internazionale, per andarsene invece, purtroppo per allontanarsi, purtroppo per rimanere estraneo a questo sommovimento di pensiero, di critica, di discussione, di azione, di sacrificio e di battaglia?”9

I risultati finali vedranno prevalere i massimalisti con 98028 voti, i comunisti otterranno 58783 voti, infine i riformisti con 14695 voti.

L’ordine nuovo

 La mattina del 21 gennaio 1921 i delegati comunisti abbandonano il Teatro Goldoni per trasferirsi al Teatro San Marco: nasceva così il Partito Comunista d’Italia, unica sezione della Terza Internazionale. Bordiga e Gramsci, che al congresso non è intervenuto, non riescono ad ottenere la maggioranza di cui sono sicuri. Tuttavia l’organizzazione giovanile del PSI aderisce in blocco al nuovo partito.

Pochi mesi dopo si svolge il Congresso dell’Internazionale, che ratifica la scissione comunista:

“Serrati e il suo gruppo presentarono al Congresso una mozione proponendo che il Partito si chiamasse d’ora innanzi Partito Socialista-Comunista, accettasse le 21 condizioni ma conservasse le mani libere. Non vi era detto verbo di scissione. Turati, il solo che abbia pronunciato un discorso di principio, fu accolto con ovazioni.

Egli è la vera anima del Partito. Dichiarò apertamente di essere contro la violenza e che tutto doveva essere conseguito con mezzi pacifici. Oggi si cerca di gettare la colpa della scissione sull’Esecutivo. Ma che scelta poteva fare l’Esecutivo? È perfettamente chiaro che si trattava del « primo urto fra l’Internazionale Comunista e gli elementi riformisti » ; era la prima prova delle forze.

Se l’Internazionale Comunista avesse ceduto su questo punto, oggi non esisterebbe più. Lo dichiaro francamente. Noi non possederemmo più alcuna forza morale o politica. Se avessimo ceduto in questa questione ciò avrebbe significato che l’Internazionale Comunista s’era inchinata davanti a Turati e agli altri riformisti. L’Internazionale non avrebbe più potuto sussistere oppure avrebbe forse ancora continuato a vivere e a mantenere dei grandi partiti nelle sue file, moralmente però sarebbe putrefatta.

Era la prima prova e noi affermiamo che è cagione di orgoglio per l’Internazionale Comunista di non aver esitato in quel momento e di aver detto con fermezza: « Se le cose stanno così, se noi dobbiamo perdere per un certo tempo una grande massa di operai italiani, ebbene, sia!» Noi la riconquisteremo più tardi.”10

In queste parole di Zinov’ev sembra che l’avallo della scissione sia dovuto più ad una mancanza di alternativa praticabile che a una reale convinzione. Come abbiamo già scritto, la scissione non è preparata. Certo nè i mezzi di comunicazione di inizio secolo nè le comunicazioni per un paese in piena guerra civile sono perentorie.

Lo stesso Zinov’ev apre il discorso sopracitato ammettendo l’errore dell’Internazionale che aveva riposto la propria fiducia nei massimalisti italiani.

Ci sembra d’altra parte che l’intervento di Clara Zetkin, del Partito Comunista tedesco, approfondisca una questione centrale, ovvero la gestione della scissione:

“Per questo ho sempre approvato apertamente la decisione dell’Esecutivo che il Partito dovesse, se voleva essere membro della III Internazionale, separarsi immediatamente e apertamente dai turatiani. Sottolineo queste ultime parole: apertamente e immediatamente, perchè desidero che non ci siano malintesi e che non mi venga imputata la opinione che si poteva continuare a fare la politica turatiana e riformista dei sedicenti « unitaristi », politica nascosta sotto una fraseologia comunista.

L’esistenza di questo partito centrista era appunto l’ostacolo a questa separazione, quantunque vi fossero senza dubbio delle masse di proletari che avevano provato tanto col loro passato che col presente, che cercavano onestamente la via che conduce al comunismo e alla III Internazionale. La strada, esse, si sforzavano di trovarla, non solo teoricamente, ma erano pronte a passare ai fatti. Io ritengo che sarebbe stato necessario di guadagnare queste masse al Partito Comunista d’Italia.

E perchè? Non certo — come vi si è fatta allusione qui — perchè io avessi qualche inclinazione per una politica centrista o a metà centrista, ma per altre ragioni. Io sapevo che fra queste masse vi erano degli operai organizzati in Sindacati e in Unioni, che appunto potevano e dovevano essere i campioni della lotta contro ogni politica e tattica riformista e opportunista. E per un’altra ragione ancora che dovrà mostrarvi quanto io sia lontana da ogni tendenza a metà centrista e pacifista.

Mi avevano detto — non so se sia giusto, e prego i nostri amici italiani di correggermi se non lo è — che le autorità municipali, i sindaci e i consiglieri comunali in Italia erano in grado di controllare e di esercitare il loro potere sulla politica. Ho considerato come un vero aumento di potere dei comunisti il fatto che durante la guerra civile, in Italia, la forza armata o almeno la polizia fosse loro sottomessa in migliaia di comuni — naturalmente, non allo scopo di far marciare questa polizia armata come guardia d’onore durante le dimostrazioni, ma per lanciarla nei combattimenti rivoluzionari.

Ecco quali considerazioni mi hanno spinta a insistere che non bisognava soltanto affrettarsi a operare la scissione dei turatiani, ma che si doveva tentare ovunque fosse possibile di condurre al partito una grande parte dei così detti comunisti « unitaristi ». Io vi dico francamente che bisognava farlo senza Serrati se fosse stato possibile, se no anche con lui, perchè, come sapete, in mancanza di tordi, il diavolo politico bisogna pure che mangi dei merli.

Ero persuasa che lo sviluppo che continuerebbe ad avvenire in seno ad un potente Partito comunista forzerebbe Serrati a mostrare la sua vera faccia, e lo costringerebbe a fare una politica onesta in questo partito o a smascherarsi talmente che l’ultimo degli operai fosse chiarito sul conto suo. Ecco perchè ho divisa l’opinione che l’Esecutivo aveva ben ragione di domandare l’espulsione dei turatiani come condizione sine qua non alla quale non c’era nulla da cambiare; ma che, d’altra parte, dopo aver già esitato per tanto tempo, e ciò evidentemente non per simpatia per Serrati, ma per considerazioni che toccano le masse, a fare la scissione, si doveva cercare di attrarre a sé una gran parte di queste masse.

Per questo io avevo creduto che i rappresentanti dell’Esecutivo a Livorno si sforzerebbero di intendersi coi nostri amici della sinistra e coi serratiani circa i mezzi che avrebbero permesso di attirare al cuore del partito migliaia e decine di migliaia di operai. Mi sembra che il progetto di Graziadei, che era stato proposto non sarebbe stato il buono, ma avrebbe forse ben potuto servire di base per aiutare a trovare una formula che permettesse di attirare al Partito comunista unificato gli operai davvero comunisti ; così la scissione non si sarebbe prodotta così facilmente e direttamente come è il caso oggi, ma avrebbe rivestito il carattere di una scissione nel seno stesso del centro del partito.

La mozione che ho proposta alla centrale corrispondeva a questo punto di vista ed era, tutto sommato, d’accordo con quella del rappresentante dell’Esecutivo. Io non l’avevo cambiata che in un punto solo, per dire che si doveva lasciare la porta aperta a una gran parte di operai serratiani, se essi volevano trovare la strada che li condurrebbe al Partito Comunista. E che diceva questa mozione? Essa si dichiarava senza alcuna riserva per la domanda dell’Esecutivo che i turatiani dovevano essere immediatamente espulsi senza possibile ricorso in loro favore.

In secondo luogo, la mozione constatava che bisognava rimproverare a Serrati due grandi errori di cui si era reso colpevole, e cioè: prima di tutto non aveva fatta una sola proposta, durante i sei mesi che avevano seguito il II Congresso, che avesse potuto contribuire a produrre la scissione in altro modo, e che in secondo luogo aveva preferito a Livorno la fusione con 14.000 turatiani a quella col Partito Comunista che contava 58.000 proletari. La mozione dichiarava, inoltre che, senza dubbio, c’erano dietro Serrati degli elementi proletari che desideravano onestamente il comunismo, e ai quali bisognava perciò lasciare la porta aperta per intendersi col Partito Comunista e unirsi in un solo partito.

La mozione reclamava ancora che l’Esecutivo dimostrasse che non c’era nulla da fare in quella direzione. Poi la mozione dichiarava che bisognava evidentemente che non ci fosse che un solo Partito Comunista in Italia che esistesse legittimamente, ossia il Partito Comunista d’Italia.

Questo partito deve essere aiutato da tutti gli altri partiti. Compagni, il fatto che l’Esecutivo accettò all’unanimità, in una delle sue ulteriori sedute, una risoluzione simile alla mia prova che questa non rivelava inclinazione centrista. Se dunque mi si accusa di tendenze centriste a causa di questa mozione, ebbene, io mi trovo allora nella migliore compagnia.”11


Note:

1 Cfr. Paolo Spriano, op. cit. ,pagg. 72 – 73

2 Intervento di Lenin “Discorso sulle condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista”, 30 Luglio 1920

4 Cfr. Paolo Spriano, op. cit., pag. 98

6 F. Engels, lettera a Kautsky 1 Aprile 1895

7 F.Engels, lettera a Lafargue 3 Aprile 1895

8 Cfr. Paolo Spriano, op. cit. , pag.113

10 Relazione di Zinov’ev sul PSI in “La questione italiana al Terzo congresso dell’Internazionale Comunista”, pag. 15

11 Discorso di Clara Zetkin in “La questione italiana al Terzo congresso dell’Internazionale Comunista”, pagg, 41 – 44