La storiografia ufficiale e la sua degna compagnia, la fiction televisiva, hanno ampiamente rovistato nei cassetti della storia della resistenza alla ricerca di preti, carabinieri, imprenditori, professori universitari che in un modo o nell’altro si siano dissociati o opposti al regime fascista. I singoli casi vengono poi analizzati al microscopio in maniera tale che un granello di polvere possa sembrare un massiccio montuoso. Il tutto è funzionale a occultare dalla vista la valanga operaia che nel 1944 si abbatté su nazismo e fascismo annunciandone la fine. La stessa storiografia di sinistra nella migliore delle ipotesi ci ha tramandato in toni epici storie di mitragliatrici sui monti, scontri a fuoco tra la neve, sabotaggi e attentati partigiani. Un lato effettivamente eroico della resistenza ma che, considerato a sé stante, finisce per rimuovere le radici di classe dell’antifascismo, riducendolo a sollevazione militare “italiana” contro l’occupante straniero. La verità storica è in questo caso talmente schiacciante da essere statistica: quando nel novembre e dicembre 1943 si registrano i grandi scioperi operai contro il caro-vita, le formazioni partigiane contano tra i 4000 e i 6000 uomini in tutto il paese.

La loro operatività è ancora estremamente ridotta e si limita al reperimento delle armi. Toccheranno i 50.000 uomini nel giugno 1944, dopo che nel marzo 1944 almeno 500mila lavoratori hanno dato vita allo sciopero generale antifascista. La lotta partigiana fu preceduta, alimentata, sospinta dalla lotta operaia. Ciò che continuò in montagna con la mitraglia iniziò in fabbrica incrociando le braccia. La lotta in montagna avrebbe dovuto concludersi dando il potere in fabbrica alle stesse braccia che l’avevano cominciata. Così non fu, ma questo non è il centro di quest’articolo.

Iniziamo perciò a ricordare questo: con i mezzi corazzati nazisti a presidiare le fabbriche, fronteggiando le serrate e i licenziamenti degli industriali italiani, sotto la minaccia di essere deportati in Germania, con il pensiero di famiglie denutrite a casa, con le bombe alleate sulla testa, in piena sfida ai manganelli dei repubblichini ipocriti e cialtroni, a Genova, Torino, Savona, Milano, Sesto San Giovanni, Firenze, Prato, furono i manovali, i metalmeccanici, gli elettricisti, i facchini, i tranvieri, gli analfabeti, gli ultimi della società, a prendere sulle proprie spalle la responsabilità, i rischi, la necessità della rivolta e dell’insurrezione antifascista. Nel fare questo la nostra classe non rispose a nessun eroismo particolare ma solo alla dinamica stessa dello scontro di classe: il fascismo si era affermato come strumento per atomizzare, opprimere, frantumare la classe operaia e le sue organizzazioni. Gli scioperi del biennio 1943-1944 annunciarono che questo strumento era stato battuto, che il conflitto operaio non poteva più essere contenuto.

 

Gli scioperi del novembre-dicembre 1943

Da quando i grandi scioperi del marzo 1943 hanno scosso le fondamenta del regime di Mussolini, costringendo la classe dominante a rimuovere il Duce per prevenire una maggiore esplosione sociale con la congiura di palazzo del 25 luglio 1943, lo scenario è mutato. I nazisti hanno invaso il paese, gli Alleati sono sbarcati a sud e a nord Mussolini è a capo del regime fantoccio della Repubblica di Salò. E’ arrivato l’8 settembre 1943, lo sbandamento dell’esercito italiano, si sono accesi i primi focolai della guerriglia partigiana.

Eppure in fabbrica il filo con gli scioperi del marzo ’43 non si è mai completamente rotto. Nemmeno l’occupazione nazista è riuscita a ristabilire lo status quo ante. I repubblichini hanno dovuto riabilitare lo strumento della commissione interna, pur ovviamente in maniera falsa e mutilata. Le elezioni per le commissioni interne “officiali” vedono infatti una scarsa affluenza quasi ovunque.

Ma è il segnale che in fabbrica un’azione sindacale è ormai stata ricreata e non può più essere azzerata. I comitati di agitazione clandestini ne sono i principali centri di aggregazione. E’ un processo per lo più ancora spontaneo. La rete di attivisti comunisti in fabbrica è ancora troppo debole per dirigerlo. Esso si nutre e si alimenta delle condizioni economiche insopportabili in cui versa la classe:

“lo scarto tra il costo della vita in estate e in novembre e dicembre del 1943 è il più alto dei tempi di guerra. A Genova il pesce è aumentato dell’80% (…). Complessivamente a Torino l’indice del costo della vita nelle spese per l’alimentazione è tre volte superiore a quello del 1941. (…) In dicembre i prezzi sembrano impazziti”[1]

Quando il 15 di novembre la Fiat annuncia un ritardo di dodici giorni nel pagamento dei salari, l’officina 17 di Mirafiori reagisce subito con una fermata. Il giorno dopo si ferma l’intero stabilimento torinese. Il 18 novembre ci sono 50mila operai Fiat in sciopero. Il 22 novembre i giornali fascisti annunciano concessioni: 30% di aumento salariali contro il 100% chiesto dalla stessa commissione interna ufficiale. Troppo poco; lo stesso giorno lo sciopero torna a divampare. Il suo carattere assume contorni sempre più politici: non si tratta solo di maggiori rivendicazioni economiche, ma di sconfessare le trattative portate avanti dai sindacati fascisti. Lo sciopero si esaurisce il primo di dicembre, sia per l’assenza di una sufficiente organizzazione sia per i continui bombardamenti aerei che svuotano le fabbriche.

L’onda di scioperi economici si è tuttavia già propagata in altre zone del paese: tra il 20 e il 24 novembre è la volta di Genova. A Milano la situazione è leggermente diversa e lo sciopero appare già una prima anticipazione di quanto accadrà nel marzo successivo. Pur alimentato in gran parte da una spinta spontanea, l’inizio dello sciopero è lanciato dal Comitato Federale Comunista il 12 dicembre:

“Lo sciopero comincia effettivamente con grande slancio il 13 mattina, nella zona di Sesto San Giovanni. Si fermano la Breda, la Innocenti, la Magnaghi, la Marelli Ettore e Magneti, l’Olap, la Pirelli (…). Il 14 e 15 lo sciopero si allarga a macchia d’olio, alla Falck, alla Caproni, all’Alfa Romeo (…) il 16 tocca la zona di Legnano (in particolare la Franco Tosi) e in genere tutta Milano Nord”[2].

Il 18 lo sciopero è generale. Ci sono arresti, scontri con i fascisti, azioni di massa per liberare gli operai fermati dai nazisti. Lunedì 20 la mobilitazione cessa: autorità naziste e fasciste hanno dovuto fare concessioni economiche parziali con aumenti salariali del 30% come a Torino. A gennaio si segnalano ancora scioperi soprattutto a Genova.

 

La zavorra della collaborazione di classe

È sulla base di questa spinta e nel fuoco di questi avvenimenti che la direzione del Pci inizia a pensare all’ipotesi di uno sciopero generale antifascista:

“Le direttive possono essere riassunte rapidamente. I comitati d’agitazione debbono preparare il nuovo sciopero politico, da attuare contemporaneamente nelle tre regioni industriali appoggiandosi anche sui CLN[3] regionali perché si tratta di coinvolgere anche le masse non proletarie (…)”.

La teoria staliniana del fronte popolare, del blocco tra proletariato e borghesia “democratica”, è così inizialmente coniugata dalla direzione clandestina del Pci: lo sciopero politico antifascista è rivolto contro fascisti, nazisti e il solo settore di industriali “collaborazionisti”, mentre i Cln possono “fare pressione sugli industriali onde farli recedere dalla loro cocciuta opposizione alle rivendicazioni economiche”[4]. Il Cln è quindi considerato come una sorta di cerniera con cui stringere la solidarietà degli “industriali”attorno al conflitto operaio, un laboratorio in cui costruire un elemento chimico che mai è esistito e mai esisterà: il sacro interesse generale che convinca la borghesia a mettere da parte i propri interessi di classe. La freddezza con cui il resto delle forze del Cln ha accolto l’ondata di scioperi dell’inverno è sintomatica del terrore con cui il grande capitale guarda ad ogni manifestazione autonoma del movimento operaio. Ricorda Secchia, allora dirigente del Pci:

“I rappresentanti di taluni partiti in seno ai CLN sostenevano che gli scioperi, toccando e ferendo determinati interessi, avrebbero indebolito l’unità nazionale e allontanato dai CLN determinate forze capitalistiche che in quel momento erano disposte ad aiutare la guerra di liberazione nazionale”.

I dirigenti del Pci invitavano la borghesia a solidarizzare con gli scioperi in nome dell’unità nazionale, ma risultava molto più logico alla borghesia rimproverare agli scioperi di rompere l’unità nazionale ferendo i propri interessi di classe. Lungi dal diventare organi per l’egemonia del proletariato sugli industriali, i Cln esercitavano il ruolo esattamente contrario. Mentre pubblicamente i dirigenti del Pci invitano ogni militante ad adoperarsi perché essi diventassero “l’organo dirigente della guerra di liberazione e di tutto il movimento di direzione nazionale”, nelle comunicazioni interne lasciavano emergere il reale stato dell’arte:

“come si spiega che queste tendenze dei grandi industriali possono esercitare la loro influenza anche in seno ai CLN? Come si spiega che proprio nell’Italia settentrionale, dove la classe operaia è più forte, dove cioè dovrebbe farsi sentire maggiormente sentire l’influenza delle masse lavoratrici, delle correnti più a sinistra, i Comitati di Liberazione nazionale siano invece orientati più a destra che altrove? All’infuori del nostro partito, non vi sono altri partiti aderenti al Cln che siano oggi dei Partiti di massa, che abbiano delle stesse organizzazioni funzionanti. (…) non sentono la pressione e l’influenza della base (…) sono invece più sensibili ai legami ed alle influenze personali, ai legami, talvolta diretti, che essi hanno con elementi della grande borghesia industriale”[5].

Come mai si sarebbe potuto spiegare? Con un certo imbarazzo si sarebbe dovuto stringere le spalle e rispondere: Capitolo 1 del Manifesto di Marx: Borghesi e proletari. In verità non mancano critiche alla linea dell’ “unità nazionale” in chiave antifascista. Una lettera aperta inviata dai comunisti di Legnano al Comitato Centrale del partito si chiede:

“Vorrà il partito, per malinteso desiderio di unità nazionale, fare da paraurti tra le giuste aspirazioni operaie e il cieco conservatorismo borghese?”[6]

I critici non possono immaginare quanto ancora si debba spostare a destra la linea del partito. Pur piegata alla linea staliniana di blocco con la borghesia democratica, nel marzo 1944 la direzione interna del Pci la declina ancora con un certo grado di pudore. La parola d’ordine è quella di scalzare l’ “imbelle” Governo Badoglio, parte della polemica è rivolta contro gli spazi concessi dagli altri partiti del Cln al personale politico e militare che ha avuto un passato coinvolgimento con il regime e sul piano dello scontro sociale si prepara e si promuove lo sciopero generale antifascista.

 

I fatti del marzo 1944

A differenza di tutti i moti dei 12 mesi precedenti, lo sciopero del marzo 1944 risponde a una convocazione organizzata. La parola d’ordine lanciata dal Pci attraverso i comitati di agitazione clandestini è di iniziare lo sciopero generale il 21 febbraio. Ma la data viene rinviata e finisce per cadere nel primo anniversario degli scioperi del marzo ’43.

La preparazione clandestina non può impedire che fascisti e nazisti ne siano informati. Un’azione di massa non può essere carbonara. I nazi-fascisti provano per questo a ritardare l’apertura delle aziende con le scuse più diverse. Ma il capitalismo non può tenere a casa l’intera classe operaia in maniera indefinita più di quanto un uomo non possa decidere di soffocarsi smettendo volontariamente di respirare. Nel pomeriggio del 1° marzo a Torino gli scioperanti sono già 50mila. Come avvenuto a dicembre, la spinta organizzata ha maggiore successo a Milano: 300mila scioperanti il primo giorno. Alle “solite” aziende come Breda, Falck, Pirelli, si sommano i tipografi del Corriere della Sera e nei giorni successivi anche i tranvieri Quando si esaurisce la prima ondata che ha avuto come centro Milano, Torino e l’Emilia, ne inizia una seconda che coinvolge anche Genova e la Toscana. Il 3 marzo a Firenze scioperano la Pignone e la Ginori e una particolare combattività si registra nel distretto tessile di Prato.

Le trasmissioni di Radio Londra devono pagare un tributo di retorica a una simile impresa:

“La reazione della classe operaia non si è fatta attendere e le sue manifestazioni sono più vaste di quante sinora non si siano verificate in Europa. Evidentemente venti anni di fascismo, anziché deprimere i lavoratori italiani hanno conferito loro maggiore consapevolezza della propria forza nonché capacità organizzativa nella lotta sotterranea….”[7]

Che il commentatore di Radio Londra sia in buona o in cattiva fede poco importa. È sicuramente in mala fede la linea complessiva degli Alleati. A febbraio Churchill ha ribadito il proprio appoggio al Governo Badoglio. Più di un operaio comunista ha poi constatato come i bombardamenti alleati non siano mai cessati durante lo sciopero e anzi abbiano colpito in maniera più che sospetta proprio i quartieri industriali e popolari.

Va detto, poi, che Radio Londra esalta lo sciopero italiano come un caso quasi unico nel panorama europeo. Una percezione che si è trasmessa a noi nel corso di questi decenni. Segnando i punti di conflitto sociale e antifascista sulla mappa dell’Europa, dal 1941 in poi, si registra invece un clima di risveglio su scala internazionale: febbraio 1941 scioperi nei Paesi Bassi, maggio 1941 in Belgio, 100mila minatori in sciopero in Francia alla fine di maggio del 1941. Il 22 dicembre del 1942 quarantamila operai entrano in sciopero ad Atene. Nel febbraio del 1943 la capitale greca insorge contro la “mobilitazione civile” annunciata dai tedeschi. Tra il 23 e la fine del mese, gli occupanti nazi-fascisti devono rinchiudersi nelle caserme e sono tenuti in scacco da una guerriglia urbana di massa, con scioperi delle aziende e dei trasporti. Nel marzo 1943, mentre in Italia iniziano i primi scioperi, ad Atene sono in sciopero impiegati pubblici e trasporti. Dopo gli scioperi italiani del marzo 1944, sarà la volta della Danimarca con lo sciopero del giugno 1944 a Copenaghen.

Un’ondata di lotta di classe con cui gli Alleati si preparano a fare i conti a vari livelli. In Grecia necessiteranno della guerra civile per piegare la spinta rivoluzionaria ma quasi ovunque l’arma principale su cui potranno contare sarà l’accordo con Stalin e la conseguente collaborazione dei partiti comunisti ad una “controrivoluzione democratica” capace di frenare ogni sviluppo rivoluzionario. Non a caso la preparazione del ritorno di Togliatti in Italia per dare l’ulteriore virata a destra alla linea del Pci è pianificata in via definitiva proprio a Mosca tra il 3 e il 4 marzo 1944. Così mentre in Italia il movimento operaio mette in gioco la vita, a Mosca si prepara l’abbraccio con il Governo Badoglio.

Gli scioperi del marzo 1944 si infrangono sugli scogli delle contraddizioni della linea del Pci. Così commenta la federazione comunista di Milano la fine della mobilitazione:

“Lo sciopero iniziato bene e con grande entusiasmo ebbe subito il lato negativo. (…) [Le masse] volevano farla finita [con gli hitlero-fascisti] ma non avevano ancora coscienza del come questo doveva avvenire e cioè che questo doveva avvenire con la loro lotta e non come essere speravano che ciò avvenisse, con l’intervento dei partigiani”.

Erano le masse che avrebbero dovuto sapere con quali mezzi farla finita o che avevano riposto tutta la speranza nell’insurrezione nazionale guidata dal Cln o forse chi le aveva invitate a scioperare? Uno sciopero generale politico in un paese occupato e sotto un regime dittatoriale non può avere carattere dimostrativo. Può sboccare solo in una lotta diretta per il potere. Ma nessuna azione concreta era stata preparata in questo senso e l’idea di una insurrezione veniva solo vagheggiata nei comunicati che arrivavano ai comitati di agitazione clandestini. Le forze interne al Cln non avrebbero potuto partorire del resto altra forma di liberazione se non quella subordinata all’intervento militare degli Alleati. Il ritorno “pacifico” in fabbrica è impossibile in una situazione come quella del 1944 e per molti scioperanti il prezzo da pagare sarà la fucilazione o la deportazione. Senza soffermarsi sulla mappa della repressione, è sufficiente ricordare che l’ordine arrivato da Hitler in persona sarà quello di deportare il 20% degli scioperanti.

Ciononostante – va detto – la struttura del Pci è scossa e permeata dal conflitto operaio. Nel fuoco della lotta, si arriva a concepire la linea di “unità democratica” con la borghesia come strumento per arrivare a una confusa “democrazia popolare” basata su forme di democrazia diretta. Nella dichiarazione del Comitato centrale del 13 marzo si pasticcia attribuendo ai Cln una futura funzione “sovietica”:

“Abbiamo detto che questi organi [dell’ordine nuovo che uscirà dall’insurrezione nazionale] sono i Comitati di Liberazione nazionale, ma non certo quelli che esistono attualmente, nella maggior parte dei casi, come semplici comitati di coalizione dei partiti, ma come comitati di massa, che organizzino direttamente le masse nelle officine, nei rioni, nei villaggi, nelle città e ne esprimano in modo diretto e immediato, le aspirazioni e la volontà”.

Eugenio Curiel si spinge addirittura a teorizzare: “la democrazia progressiva è la formulazione del processo sociale della rivoluzione permanente”. Linea confusa e sbagliata che da lì a poche settimane sarà sostituita dalla svolta di Salerno di Togliatti con una linea chiara e sbagliata: il riconoscimento del Governo Badoglio e la limitazione della lotta ad una prima fase democratica a cui sarebbe seguita solo in un futuro remoto la seconda fase socialista.

Scriviamo oggi piegati nelle nostre aziende dal ricatto del precariato, assediati dai Marchionne o dalle Electrolux di turno che usano la disoccupazione come ricatto sociale, spesso sotto la cappa del burocratismo sindacale che disperde e contrasta ogni azione di lotta; ma per quanta paura momentanea tutto questo possa generare, questo è niente. Noi siamo la classe che è insorta contro i nazisti, sfidando il manganello fascista e sotto le bombe “alleate”. Non abbiamo da temere nulla se non scordarci chi siamo.

 

Note: 

[1] PAOLO SPRIANO, Storia del Partito Comunista, La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, p. 220.

[2] Ivi, pp. 239-240

[3] Comitati di Liberazione Nazionale, Ndr

[4] Dalle Direttive per l’organizzazione dello sciopero

[5] Circolare interna del Centro del Pci del 1° gennaio 1944

[6] Lettera pubblicata su Il lavoratore nel maggio 1944

[7] PAOLO SPRIANO, Storia del Partito Comunista, La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, p.266