Il libro di Bernstein ha avuto per il movimento operaio tedesco e internazionale una grande importanza storica: è stato il primo tentativo di dare alle correnti opportunistiche in seno alla socialdemocrazia una base teorica. Le correnti opportunistiche nel nostro movimento datano già da lungo tempo se se ne prendono in considerazione le manifestazioni sporadiche, come nella famosa questione delle sovvenzioni alle compagnie di navigazione a vapore[1]. Ma un’esplicita corrente unitaria in questo senso data solo dall’inizio dell’ultimo decennio del secolo, dalla caduta della legge antisocialista e dalla riconquista del terreno legale. Il socialismo di Stato di Vollmar, il voto del bilancio in Baviera, il socialismo agrario della Germania meridionale, le proposte di Heine di una politica di compensi reciproci, il punto di vista. di Schippel in materia di dogana e di milizia, ecco le pietre miliari nello sviluppo della prassi opportunistica. Quale ne era la principale caratteristica? L’avversione contro la “teoria”. E questo è del tutto naturale, giacché la nostra “teoria”, cioè i princìpi del socialismo scientifico, pongono dei limiti molto fermi all’azione pratica, in rapporto tanto agli obiettivi da perseguire quanto ai mezzi di lotta da impiegare, quanto infine al modo stesso della lotta. Ne consegue pertanto, presso coloro che vanno a caccia solo di successi pratici, il naturale desiderio di aver le mani libere, cioè di separare la nostra pratica dalla “teoria” e di renderla indipendente da questa. Ma questa medesima teoria ad ogni tentativo pratico gli ripiomba sulla testa; il socialismo di Stato, il socialismo agrario, la politica dei compensi reciproci, la questione della milizia sono altrettante disfatte per l’opportunismo. E’ chiaro che questa corrente, volendo affermarsi contro i nostri princìpi, doveva logicamente arrivare a misurarsi con la teoria stessa, con i princìpi, cercare di scuoterli anziché ignorarli e mettere a punto una teoria sua propria. La teoria bernsteiniana fu precisamente un tentativo in questa direzione e perciò noi vedemmo al congresso di Stoccarda tutti gli elementi opportunisti raggrupparsi subito attorno alla bandiera di Bernstein. Se da un lato le correnti opportunistiche sono in pratica un fenomeno assolutamente naturale che si spiega con le condizioni della nostra lotta e del suo sviluppo, d’altro lato la teoria bernsteiniana è un tentativo non meno naturale di abbracciare queste correnti in un’espressione teorica generale, di scoprirne la premesse teoriche specifiche e di regolare i conti con il socialismo scientifico. La teoria di Bernstein era così fin dal principio la prova del fuoco teorica per l’opportunismo, la sua prima legittimazione scientifica. Com’è andata a finire questa prova? L’abbiamo visto. L’opportunismo non è in grado di costruire una teoria positiva capace di sostenere in qualche misura la critica. Tutto ciò che esso può fare è dapprima di attaccare la dottrina marxista in alcuni singoli princìpi, e da ultimo, poiché questa dottrina rappresenta un edificio in cui tutto è solidamente connesso, distruggere l’intiero sistema dal piano più alto fino alle fondamenta. Con ciò è dimostrato che la prassi opportunistica è, nella sua essenza e nelle sue basi, incompatibile con il sistema marxista.

Ma con ciò è dimostrato altresì che l’opportunismo è incompatibile anche con il socialismo in generale, che la sua tendenza intima è diretta a sospingere il movimento operaio sulla strada borghese, cioè a paralizzare completamente la lotta di classe proletaria. Certo, dal punto di vista storico, lotta di classe proletaria e sistema marxista ,non sono cosa identica. Anche prima di Marx, e indipendentemente da lui, c’è stato un movimento operaio e si sono avuti diversi sistemi socialisti, ciascuno dei quali era a modo suo un’espressione teorica dell’aspirazione della classe operaia all’emancipazione, corrispondente alle condizioni del tempo. La motivazione del socialismo sulla base di idee morali di giustizia, la lotta contro il modo di ripartizione anziché contro il modo di produzione, la concezione dei contrasti di classe come contrasti fra ricco e povero, lo sforzo di innestare la “cooperazione”sull’economia capitalistica, tutto quello che noi troviamo nel sistema bernsteiniano, si è già visto in passato. E queste teorie erano al tempo loro, con tutta la loro insufficienza, vere teorie della lotta di classe proletaria, erano delle gigantesche scarpe infantili nelle quali il proletariato imparava a camminare sulla scena della storia. Ma una volta che lo sviluppo stesso della lotta di classe e delle sue condizioni sociali ha portato all’abbandono di queste teorie e alla formulazione dei princìpi del socialismo scientifico, nessun socialismo, almeno in Germania, può più esistere al di fuori di quello marxista, nessuna lotta di classe socialista sta al di fuori della socialdemocrazia. Ormai socialismo e marxismo, lotta di emancipazione proletaria e socialdemocrazia sono un’identica cosa. Retrocedere a teorie premarxiste del socialismo non significa quindi neppure una ricaduta nelle gigantesche scarpe infantili del proletariato, ma una ricaduta nelle pantofole nane e logore della borghesia. La teoria bernsteiniana è stato il primo, ma insieme anche l’ultimo tentativo di dare una base teorica all’opportunismo. Diciamo: l’ultimo, perché nel sistema bernsteiniano si è andati così lontani sia negativamente nel ripudio del socialismo scientifico, sia positivamente nel rimescolamento di tutta la confusione teorica disponibile, che non rimane più niente da fare. Col libro di Bernstein, l’opportunismo ha compiuto la sua evoluzione a teoria e ha tratto le sue ultime conseguenze. E la dottrina marxista è non soltanto in grado di confutarlo teoricamente, ma è anche la sola capace di spiegare l’opportunismo come fenomeno storico nel divenire del partito. Lo sviluppo storico dei proletariato sino alla sua vittoria finale non è effettivamente “una cosa così semplice”. Tutta l’originalità di questo movimento consiste nel fatto che per la prima volta nella storia le masse popolari devono realizzare la loro volontà da se stesse e contro tutte le classi dominanti, ma devono situare questa volontà nell’al di là rispetto all’attuale società, cioè oltre di essa. Ma questa volontà le masse non possono formarsela che nella lotta continua contro l’ordinamento esistente e solo nella cornice di esso. L’unione della grande massa popolare con uno scopo che va al di là di tutto l’attuale ordinamento. della lotta quotidiana con la grande riforma del mondo, questo è il grande problema del movimento socialdemocratico, il quale quindi deve operare procedendo per tutto il corso del suo sviluppo fra due scogli: fra l’abbandono del carattere di massa e l’abbandono dello scopo finale, fra ricadere nella setta e precipitare nel movimento riformista borghese, fra anarchismo e opportunismo. La dottrina marxista ha certo provveduto già da mezzo secolo il suo arsenale teorico di armi annientatrici tanto contro l’uno quanto contro l’altro estremo. Ma proprio perché il nostro movimento è un movimento di masse e i pericoli che lo minacciano scaturiscono non dal cervello degli uomini ma dalle condizioni sociali, le deviazioni anarchiche e opportunistiche non potevano essere eliminate una volta per tutte e a priori dalla teoria marxista, ma devono essere superate dal movimento stesso dopo che si sono incarnate nell’azione pratica, beninteso soltanto con l’aiuto delle armi fornite da Marx. Il pericolo minore, il morbillo anarchico, la socialdemocrazia l’ha già superato con il “movimento degli indipendenti”[2]. Quello maggiore, l’idropisia opportunistica, lo sta superando attualmente. A cagione dell’enorme estensione del movimento e della complessità delle condizioni e degli obiettivi della lotta, doveva venire il momento in cui sarebbero emersi dello scetticismo in relazione al raggiungimento dei grandi scopi finali e dell’incertezza in relazione all’elemento ideale del movimento. Così e non altrimenti può e deve procedere il grande movimento proletario e i momenti di esitazione e di scoraggiamento, ben lungi dall’essere una sorpresa per la dottrina marxista, sono al contrario previsti e predetti da gran tempo da Marx. “Le rivoluzioni borghesi – scriveva Marx mezzo secolo fa nel suo Diciotto brumaio – passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l’un l’altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l’estasi è lo stato d’animo d’ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati dei suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie, invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare[3] . Questo è rimasto vero anche dopo che è stata elaborata la dottrina del socialismo scientifico. Il movimento proletario non è diventato tutto in una volta socialdemocratico, neppure in Germania, ma lo diventa ogni giorno e anche grazie al continuo superamento delle deviazioni estreme dell’anarchismo e dell’opportunismo, entrambi soltanto momenti del movimento della socialdemocrazia, considerata come un processo. Così stando le cose, quel che è sorprendente non è il sorgere della corrente opportunistica, ma piuttosto la sua debolezza. Finché essa era affiorata soltanto in singoli casi dell’attività pratica del partito, si poteva ritenere che dietro di essa vi fosse un qualche serio fondamento teorico. Ma ora che si è espressa nel libro di Bernstein ognuno deve esclamare meravigliato: come, questo è tutto quel che aveva da dire? Neppure un solo frammento di un pensiero nuovo! Neppure un solo pensiero che non sia stato già da decenni schiacciato, calpestato, schernito dal marxismo! E’ bastato che l’opportunismo parlasse per mostrare che non aveva niente da dire. E in ciò sta la particolare importanza del libro di Bernstein nella storia del partito. E così Bernstein, nel prender congedo dal modo di pensare del proletariato rivoluzionario, dalla dialettica e dalla concezione materialistica della storia, può ringraziarli per le circostanze attenuanti che accordano alla sua conversione. Perché esse soltanto, la dialettica e la concezione materialistica della storia, potevano nella loro magnanimità farlo apparire come uno strumento predestinato ma incosciente, per mezzo del quale il proletariato che marcia all’assalto ha espresso la sua momentanea défaillance per poi, subito dopo averlo visto da vicino, rigettarlo lungi da sé, crollando il capo con un ghigno sprezzante.

[1] Rosa Luxemburg si riferisce qui all’atteggiamento del gruppo socialdemocratico al Reichstag quando venne in discussione la proposta di Bismarck di votare un sussidio di 4 milioni di marchi alle compagnie di navigazione nel quadro della nuova politica imperialistica. contro il parere di una minoranza formata da Bebel, Liebknecht e Vollmar, la maggioranza del gruppo (Auer, Dietz, Frohme, Grillenberger) non ebbe alcuna obiezione di principio e si mostrò favorevole, suscitando ondate di proteste nel partito. Cfr. F. MEHRING, Storia della socialdemocrazia tedesca, II, pp. 619 sgg., e R. Rothe, Zum Streit um die Dampfersubventionen in Archiv für Sozialgeschichte, 1, Hannover, 1961, pp. 109-118.

[2] Il movimento degli indipendenti fu un tentativo abortito di alcuni elementi radicali di sinistra, espulsi o usciti al congresso di Erfurt del 1891, di dar vita a un altro partito. (Cfr. F. MEHRING, Storia della socialdemocrazia tedesca, 11, pp. 681-683).

[3] Cfr. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in MARX-ENGELS, Opere scelte, pp. 491-492.