“Si rivela qui non soltanto la generale insufficienza del primo immaturo stadio della rivoluzione, ma anche la difficoltà propria di questa rivoluzione proletaria, la peculiarità della sua situazione storica. In tutte le rivoluzioni precedenti i contendenti entravano in lizza con la visiera alzata: classe contro classe, programma contro programma, stendardo contro stendardo. Nell’attuale rivoluzione i difensori del vecchio ordinamento non entrano in lizza sotto lo stendardo caratteristico delle classi dominanti, ma sotto lo stendardo di un partito socialdemocratico”[1]
Rosa Luxemburg

La prima conferenza nazionale di Spartaco si riunì solo nell’ottobre del 1918. Il lavoro di organizzazione era tremendamente in ritardo. Le cose non migliorarono particolarmente nemmeno con l’uscita dalla prigione di Liebknecht, dopo l’amnistia di ottobre ai detenuti politici. La sua fama era un’arma a doppio taglio. Gli spartachisti ne erano in un certo senso prigionieri. Dovevano alla popolarità di Liebknecht la propria stessa popolarità, ma questo li rendeva  particolarmente dipendenti dalle sue decisioni individuali. In un certo senso anche questa situazione era il portato di una distorsione derivante dal parlamentarismo.

Liebknecht era un puro concentrato di agitazione rivoluzionaria, ma non aveva alcuna organizzazione dietro di sé. Interpretava la propria militanza spartachista come una professione di principio, non come l’adesione ad una struttura organizzata. Appena uscito di prigione, ricevette l’invito da parte dei dirigenti socialdemocratici indipendenti ad essere cooptato nella direzione dell’Uspd. Egli rifiutò, ma accettò in compenso di essere invitato all’esecutivo del partito. In cerca di una struttura che colmasse il più rapidamente possibile il gap tra la propria influenza e la debolezza organizzativa delle forze rivoluzionarie, a fine ottobre strinse un patto con i delegati rivoluzionari. Ne nacque il “consiglio operaio provvisorio” in cui furono cooptati oltre a lui altri due spartachisti. Un piccolo gruppo come Spartaco avrebbe dovuto tenersi le mani libere per intervenire con le proprie idee nelle mobilitazioni: al contrario la partecipazione a tale organismo finì per inchiodare gli spartachisti alle indecisioni dei vertici dell’Uspd da cui i delegati rivoluzionari erano pesantemente influenzati.

Il “consiglio operaio provvisorio” iniziò subito a pasticciare con la rivoluzione. Alcuni spingevano per fissare un’insurrezione per il 4 novembre, altri per l’11. Liebknecht si opponeva correttamente a qualsiasi data non passasse prima da un’azione di massa e dallo sciopero generale. Fu messo in minoranza e si decise per l’11 novembre. Ma come risultato della confusione il 4 a Stoccarda scoppiò un’insurrezione prematura che rimase isolata. In questa situazione farsesca, la rivoluzione trovò da sola la propria strada. Il 3 novembre, di fronte all’ordine di salpare e temendo di essere nuovamente mobilitati per il fronte, si ammutinarono i marinai di Kiel. Fu formato subito un consiglio degli operai e dei soldati. Il movimento si estese ad Amburgo, con ammutinamenti e occupazioni delle caserme. Le notizie non fecero cambiare opinione al consiglio berlinese: la data stabilita per l’insurrezione rimase l’11. Ma ‘l’8 fu chiaro che la rivoluzione stava divampando in tutte le province del paese. Per la prima volta nella storia delle più grandi rivoluzioni, il centro andava a rimorchio della periferia, la capitale era preceduta dalle province. E questo non certo per colpa degli operai berlinesi che da giorni mordevano il freno. Come ciliegina sulla torta, un esponente del consiglio fu fermato dalla polizia con tutti i piani dell’insurrezione dell’11 nella borsa. Attendere non aveva più alcun senso e non sarebbe stato possibile in ogni caso. Il 9 Berlino insorse, con o senza i propri presunti dirigenti rivoluzionari.

Questa confusione dilettantesca va confrontata con la precisione scientifica delle trame dei dirigenti dell’Spd. Da giorni la propria organizzazione capillare aveva permesso loro di tastare il polso del paese. Sin dal 23 ottobre avevano iniziato a reclamare l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II per prevenire lo scoppio della rivoluzione:

Si tratta della lotta contro la rivoluzione bolscevica che sale sempre più minacciosa, e che significherebbe il caos. La questione imperiale è strettamente legata a quella del pericolo bolscevico. Bisogna sacrificare l’imperatore per salvare il paese. Ciò non ha nulla a che vedere con qualsiasi dogmatismo repubblicano.[2]

Quando il 9 novembre la rivoluzione invase le strade di Berlino, i socialdemocratici maggioritari avevano già impostato le coordinate del problema: era necessario assecondarla per non esserne travolti. Costituirono un comitato d’azione presso la redazione del Vorwarts e, scippando la fraseologia bolscevica, lo chiamarono “consiglio degli operai e dei soldati”. A metà giornata avevano ricevuto dal cancelliere Max di Baden la notizia dell’abdicazione di Guglielmo II e l’incarico a formare un Governo socialdemocratico. Quando la folla di operai in sciopero raggiunse il parlamento, vi trovò Scheidemann pronto ad arringarli e a proclamare solennemente la repubblica. Quando Ebert gli rimproverò l’iniziativa si giustificò spiegando che era stato costretto a farlo per anticipare Liebknecht. Quest’ultimo infatti aveva arringato la folla dal balcone dalla dimora imperiale, annunciando la formazione della repubblica socialista per acclamazione. Sin dall’inizio la dinamica fu la seguente: concessioni di facciata per anticipare la rivoluzione, repubblica borghese per prevenire la creazione di quella socialista, i dirigenti socialdemocratici sistematicamente organizzati alle spalle del movimento e i rivoluzionari illusi di potersi basare sulla pura carica spontanea della piazza.

Quando le masse si muovono hanno una spinta irresistibile e genuina verso l’unità. Nel loro primo risveglio alla lotta, vedono solo un grande movimento dai confini indefiniti. Non capiscono l’esistenza di diverse sigle organizzate e tendono a viverle come un ostacolo, come una divisione artificiale imposta alla lotta. I burocrati hanno spesso appreso a strumentalizzare questa sacrosanta voglia di unità per i loro fini. In quel periodo infatti la parola d’ordine lanciata dai socialdemocratici maggioritari fu “unità”. Il Vorwarts titolò: “Nessuna lotta fratricida!”. L’obiettivo era quello di stringere i rivoluzionari nella morsa di una sorta di disciplina di movimento, creare una situazione psicologica per cui chiunque spingesse la lotta oltre un certo livello fosse accusato di volerla dividere.

Fu su questa base che il 10 novembre l’Spd offrì all’Uspd la creazione di un Governo unitario e paritetico, con 3 rappresentanti per partito. Ancora una volta contro l’opinione di Liebknecht, l’Uspd accettò. Ne nacque il Governo Ebert-Scheidemann così composto: per l’Spd Ebert (Interni ed Esercito) Scheidemann (Finanze), Otto Landsberg (Stampa) e per l’Uspd Haase (Esteri e Colonie), Dittmann (Smobilitazione e Salute pubblica) e Barth (Politica Sociale). I maggioritari tenevano per sé le reali leve del Governo e lasciavano agli indipendenti la complicità nella gestione della crisi economica.

Il concetto di pariteticità si impose a cascata a tutte le istanze di lotta. Il 10 mattina fu eletto finalmente un vero consiglio degli operai e dei soldati, formato da un delegato ogni 1000 operai e da uno ogni battaglione, che tenne la propria assemblea generale il pomeriggio stesso. Tale riunione fu preparata dai maggioritari nei minimi dettagli. Si basarono sulle guarnigioni politicamente più arretrate per imporre la propria linea. Fu organizzato un sistematico boicottaggio degli interventi più a sinistra, a partire da quello di Liebknecht che fu sommerso dai fischi e dai cori dei soldati: “unità! unità!”. Sulla base di questa pressione psicologica si riuscì ad imporre l’elezione di un comitato esecutivo paritetico che non rispecchiava le reali proporzioni. L’esecutivo fu composto da 12 soldati, quasi tutti influenzati dai maggioritari, e 12 operai di cui 6 maggioritari e 6 indipendenti. Il cerchio si chiuse con il voto di fiducia da parte del Consiglio degli operai e dei soldati al nuovo Governo. Quest’ultimo fu ribattezzato “comitato dei commissari del popolo”. I vertici dell’Spd diventavano così contemporaneamente i padroni del Governo e dell’opposizione, dello Stato e della rivoluzione che lo doveva abbattere. Quasi si trattasse di uno scherzo della storia, erano il centro della controrivoluzione e i dirigenti della rivoluzione.


[1]     PAUL FROLICH, Op. Cit., p. 336.

[2]     PIERRE BROUE’, Op. Cit., p. 140.