Chi bazzica il mondo della scuola da docente, studente o genitore non necessiterà certo di spiegazioni su cosa siano le prove INVALSI.

Per tutto il resto degli italiani, costretti a leggere titoli come ” Uno studente su tre legge ma non capisce (e al Sud è peggio)” su Repubblica o “L’Invalsi divide l’Italia: al Sud alunni in ritardo su inglese e matematica” sul Giornale o ancora peggio ” Invalsi 2019, l’Italia divisa in due. Quasi la metà dei maturandi «analfabeta» in matematica” sul Corriere della Sera, occorre fornire delle precisazioni in merito e, consentitecelo, smascherare l’ipocrisia che si cela dietro diversi dei titoli citati.

 

Chiariamo cos’è l’ INVALSI.

 

L’INVALSI è un ente di ricerca per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione ed è pertanto soggetto alla vigilanza del Ministero della Pubblica Istruzione.

Le prove dell’Invalsi sono state somministrate per la prima volta a scopo statistico nel 2007; da allora si è lavorato alacremente per renderle “attività ordinaria di istituto” al punto che proprio quest’anno sono state per la prima volta introdotte durante l’anno conclusivo della scuola superiore, per la valutazione degli apprendimenti del famoso “grado 13” (come se l’esame di maturità non fosse sufficiente!).

 

Cos’è quindi una prova INVALSI?

 

La prova INVALSI è un test standardizzato di rilevanza nazionale composto da domande scelte da un’apposita commissione secondo uno standard fissato atto a rilevare un determinato tipo di competenze degli studenti.

Il fine dell’ INVALSI è individuare un sistema di valutazione degli apprendimenti tramite prove nazionali standardizzate per consentire l’orientamento strategico delle scelte politiche e delle risorse.

Da questo punto di vista quindi il test si affianca ad un altro sistema di rilevazione internazionale: l’ OCSE-Pisa. L’OCSE, nato nel 1961 a Parigi, svolge funzione di orientamento allo scopo di permettere agli Stati di preservare la competitività dei loro settori economici chiave (tra cui è inclusa l’Istruzione). L’OCSE-Pisa propone quindi in ambito di istruzione diverse “prove esperte” da somministrare agli studenti per stabilire il grado di competenze raggiunte.

 

L’ossessione dell’oggettività: quando il limite c’è ma lo si vuole ignorare (Il Test Rasch)

 

L’ INVALSI, come l’ OCSE-Pisa, utilizza per l’elaborazione delle prove e per l’analisi dei risultati il test Rasch. Ed è proprio la comprensione di come tale test funzioni a  smantellare la prima delle falsità che per ora invadono il web ovvero che ” un terzo degli studenti italiani sia analfabeta”.

Il tema si presenta complesso ed i concetti verranno semplificati: numerosi sono i testi che analizzano online questo modello.

Il modello di Rasch prevede di individuare due parametri da misurare: uno direttamente correlato allo studente (la sua abilità) ed una grandezza che caratterizza i quesiti (la difficoltà). I due parametri presi in esame sono svincolati l’uno dall’ altro ovvero sono indipendenti. In base ad ausilii matematici vengono quindi confrontate abilità ed esiti: ad ogni studente con una data manifestazione di abilità corrisponderà un risultato e ad ogni risultato corrisponderanno una serie di studenti con una certa abilità. Il termine “manifestazione” non è casuale. E qui incontriamo la prima delle obiezioni che possono essere facilmente poste: come si può “misurare” un’abilità? Un conto è misurare una grandezza fisica, come ad es. la lunghezza. In questo caso si sceglie un’ unità di misura universale, uno strumento anch’esso universale e si effettua la misura: la comunità scientifica potrà riprodurre lo stesso procedimento e valutare che i dati combacino. Ma come si ritiene possibile svolgere un siffatto processo per qualcosa che non è oggettivamente misurabile? L’abilità, incredibile ma vero, non è una grandezza finita e misurabile. Se si stesse pensando che la quantità di risposte corrette e la difficoltà dei test possano soccorrere tale imprevisto, sarebbe opportuno ricordare che il test si basa  proprio sull’indipendenza delle abilità dello studente dalle difficoltà del test.

Non vogliamo concedere a questo cane di mordersi la coda.

Lo stratagemma che trova Rasch è quello di escludere dalle valutazioni gli studenti che abbiano risposto in toto al test e quelli che non abbiano affatto risposto al test.

In pratica si valuta “utile” il risultato che non si discosta dalla media impostata come accettabile dai redattori del test stesso. E la statistica si fa su questo.

La presenza di popolazioni non omogenee viene scorporata dai risultati.

Questo processo viene detto “calibrazione”. E la sua esistenza è fondamentale per l’esistenza del test stesso: studenti distratti, oppure studenti che decidono di rispondere a caso, oppure studenti che hanno una preparazione scolastica essenzialmente diversa da quella della maggioranza, rispondono alle domande con un meccanismo diverso da quello ipotizzato da Rasch.

C’è un altro dato da tenere in considerazione: le stime delle difficoltà dei quesiti e delle abilità degli studenti, come le stime di ogni parametro statistico, sono affette da errore.

Prendendo in esame quanto fin qui detto, se ne deduce che l’ipotesi che la risposta ad una domanda dipenda solo dall’abilità è inadeguata.

 

L’abilità testata dall’ INVALSI è l’abilità di risolvere i test INVALSI

 

Parafrasando le numerosi ed autorevoli opinioni che criticano il metodo Rasch, possiamo affermare che l’abilità (matematica) testata dall’INVALSI è l’abilità di risolvere i test INVALSI. La maggior parte dei docenti sarà in questo caso d’accordo con noi.

Questo ci porta a riflettere sul termine: “analfabeta”.

Nessuno degli studenti che hanno svolto tale test può essere ritenuto analfabeta: questo vale tanto per coloro che hanno risposto a ciascuna delle domande del test con impegno che per coloro che hanno deciso, consapevolmente o meno, di boicottare tale test.

Tra l’altro se anche fosse vero che un terzo degli alunni sia analfabeta, ci sembrerebbe opportuno indicare il vero responsabile nel MIUR che con le sue scellerate politiche ha determinato una didattica fallimentare (come espliciteremo di seguito).

In ogni caso è opportuno sottolineare che ciascun esito delle prove è valutato su un numero di risposte ritenute accettabili in un dato intervallo di tempo ed indipendentemente, in diversi casi, da ciò che è stato trattato con il programma disciplinare scolastico.

Insomma a coloro che produrranno l’analisi non interessa né la qualità né la quantità delle risposte esatte in sé, ma la velocità con cui si da il massimo numero di risposte esatte.

Gli esiti delle rilevazioni INVALSI quindi introducono un elemento quantitativo e ciò rischia di mascherare i problemi reali spostando la discussione su un piano differente da quello reale.

 

Ma allora a cosa servono le prove INVALSI?

E soprattutto sono utili? Dipende da come le si vuole leggere.

Puntualizziamo che non siamo certo gli unici a gridare allo scandalo: già nel maggio 2014 è stata indirizzata all’OCSE una richiesta di moratoria sottoscritta da un’ottantina di accademici che denunciavano gli effetti distorsivi dei test PISA nei confronti delle politiche nazionali sull’istruzione. Tali ricercatori denunciavano come gli esiti dei test OCSE-Pisa fossero stati seguiti da richieste di riforme di ampia portata.

Difatti gli stati guidati dall’OCSE hanno abbracciato “partenariati pubblico-privato” e hanno iniziato ad interagire con numerose multinazionali per risolvere i problemi emersi con le rilevazioni.

 

Cosa ci dicono davvero le INVALSI?

 

Ciò che è opportuno capire è che i partiti al governo trovano comodo giustificare le proprie scelte tramite un “semplice” stratagemma.

Una delle scelte operate è il continuo taglio dei finanziamenti all’ istruzione tanto dal centrosinistra che dal centrodestra e dalle destre in generale.

Politiche decennali di tagli hanno contribuito ad aumentare il divario tra il Nord ed il Sud. La Relazione 2016 della Corte dei Conti evidenzia che negli anni compresi tra il 2008 e il 2014, il numero di docenti italiani è sceso del 9% con un totale di meno di 100.000 impiegati per effetto dell’ accorpamento degli istituti e dell’aumento degli studenti per classe, le cosiddette ‘classi-pollaio’, volute dalla Riforma Gelmini. Ma non solo: si è risparmiato anche sugli scatti di anzianità e sugli adeguamenti stipendiali al costo reale della vita, sia per quanto riguarda i docenti che per il personale ATA. Ne è conseguito che la spesa per le retribuzioni al lordo di tutto il personale della scuola è scesa addirittura del 16%, passando da circa 33 miliardi di euro a circa 28 miliardi.

Se qualcuno pensasse che le cose vanno meglio oggi, guardando ai recenti concorsi tanto sbandierati dai governi, si riterrebbe utile sottolineare che ancora si è molto lontani dal pareggiare gli ingressi in ruolo con i pensionamenti: sulla stessa riga dei predecessori questo governo sottolinea che i posti liberatisi con la Quota 100 non saranno resi disponibili per le stabilizzazioni ma verranno destinati nel migliore dei casi a supplenti, nel peggiore a docenti già presenti nell’organico di diritto della scuola!

Negli ultimi giorni si sta molto discutendo di 4 miliardi di € che sarebbero stati sottratti dal bilancio dell’ Istruzione e che secondo la stampa farebbero capo alla voce “assunzioni nel sostegno” mentre secondo il governo apparterrebbero a cifre non ancora messe in bilancio e relative ai pagamenti dei precari dell’ istruzione.

Chi ha ragione?

Rinfrescando quanto approvato con la legge di bilancio del 2018, ritroviamo che è previsto un taglio entro il 2021 per le seguenti voci di capitolo (considerando quelle più importanti):

  • Interventi per la sicurezza nelle scuole statali e per l’edilizia scolastica (circa 450 milioni di €)
  • Sostegno alle famiglie per il diritto allo studio (circa 20 milioni di €)
  • Interventi di integrazione scolastica degli studenti con bisogni educativi speciali incluse le spese del personale ovvero docenti di sostegno (circa 1 miliardo di €)
  • Funzionamento degli istituti scolastici statali del primo ciclo (circa 300 milioni di €)
  • Funzionamento degli istituti scolastici statali del secondo ciclo ( circa 150 milioni di €)
  • Sostegno agli studenti tramite borse di studio e prestiti d’onore (per gli universitari, circa 20 milioni di €)

Altro che contratti per i precari, sono ben altre le scelte che il governo ha fatto. Guardiamo solo al sostegno: in Italia c’è un insegnante di sostegno ogni 1,73 alunni.

Da anni i posti vengono assegnati a supplenti e talvolta sono stati assegnati anche a docenti non specializzati per l’ingresso in ruolo col risultato di un danno a carico degli studenti e meno ore di didattica per tutti.

Ci teniamo a precisare che nel Meridione non esiste un sistema capillare di supporto agli studenti e la maggior parte delle mansioni di assistenza sono svolte dai docenti di sostegno: la scelta di tagliare i posti per il sostegno non può che approfondire il divari col nord.

Ed in aggiunta alle scelte relative al comparto scuola, gli studenti del sud pagano le scelte relative alle politiche del lavoro.

Le stesse indagini INVALSI rivelano, usando l’indicatore ESCS (Economic Social Cultural Status Index che misura le condizioni sociali, culturali ed economiche dei giovani), che la famiglia di provenienza è sempre determinante. Esiste una correlazione tra indice e punteggi ottenuti nei test di tutte le materie: i punteggi, infatti, crescono man mano che cresce l’indice ESCS.

Il 60% dei ragazzi provenienti da famiglie a basso reddito oscilla fra il livello 1 e il livello 2 (su cinque totali) nella comprensione dei test somministrati, contro il 15% di chi proviene da famiglie ad alto reddito.

 

Nel Meridione questa forbice è ancora più marcata e non potrebbe essere differente per chi si trova in famiglie in cui i genitori annaspano tra percentuali altissime di disoccupazione e la precarietà.

Alla luce di ciò, affermazioni come quelle di febbraio del Ministro Bussetti, che alla domanda di un cronista sul se servissero più fondi al Sud per recuperare il gap con le scuole del Nord, rispose: “No, ci vuole l’impegno del Sud, vi dovete impegnare forte, questo ci vuole”; fanno ancora più rabbia.

Indurrebbero a credere che il disastro “INVALSI” non colga nessuno dei politici di sorpresa perché appunto il risultato è già stato calcolato (e forse anche sperato…).

Certo, sosterranno i leghisti, altri voci hanno subito un incremento. Poche e sporadiche voci riguardano la scuola pubblica (come ad es. le sovvenzioni all’istruzione tecnica) mentre altre, a riprova di quanto questo governo supporti la destra reazionaria, sono di ben altro tipo. Ad es. i trasferimenti e contributi per le scuole non statali sono  un bel  regalo alle paritarie, durante la crisi, alla faccia di chi sperava che si investisse almeno nella sicurezza! Altro che Sea Watch!

 

E quello che le INVALSI non ci dicono:

Ciò che non viene sufficientemente discusso è il costo della macchina INVALSI.

Il costo annuo dell’INVALSI richiede circa 21.840.000,00 euro di cui 15.960,00 per il funzionamento ordinario e la realizzazione delle attività istituzionali e 5.880.000,00 per la realizzazione delle attività di ricerca.

Il canone annuo di locazione per la sede corrisponde all’importo di euro 327.979,29 euro. Nonostante questi costi, si aggiunge il danno alla beffa: in modo illegittimo, tutte le incombenze relative alla somministrazione, correzione e tabulazione delle prove vengono scaricate sul personale scolastico, cui non viene erogato un euro in più per una richiesta che non rientra nelle mansioni del contratto.

Inoltre pochissime sono le informazioni relative alle commissioni, a come siano scelte e come operino le loro scelte. Sporadici bandi pubblici indicano la richiesta di personale con competenze informatiche, tutto il resto è nascosto da una coltre di nebbia.

A fronte dei tagli precedentemente discussi ci si può chiedere se non abbia invece più senso investire in altro.

 

Quale alternativa?

A nostro avviso sarebbe necessario ripristinare i posti di lavoro investendo in assunzioni per risolvere il problema del rapporto numerico sproporzionato tra alunni e docente; insieme a un piano di costruzioni di scuole pubbliche sul suolo nazionale si potrebbe risolvere alla radice la gravosa questione delle “classi pollaio”, fornendo ad ogni studente un supporto secondo le proprie necessità;   adeguare lo stipendio del personale scolastico docente e non docente all’incremento del costo della  vita; reintrodurre il tempo pieno a scuola, gli sportelli pomeridiani ed i corsi di lingua per il successo formativo; investire in sovvenzioni alle famiglie bisognose e sussidi per testi scolastici, mense e mezzi di trasporto per tutto il percorso scolastico (e non solo per la scuola dell’obbligo); ripristinare i finanziamenti nell’edilizia scolastica perché ciascun alunno, dalla Sicilia alla Val D’Aosta, ha il diritto di non preoccuparsi che il tetto gli crolli in testa da un momento all’altro.

Queste sono le misure che potrebbero eliminare le disuguaglianze socio-economiche di cui trattano i vari report (e che diciamo al momento restano lettera morta): il piano di rifinanziamento consentirebbe a tutti gli studenti di poter essere valutati sulla base della medesima condizione di partenza e senza svantaggi socio-culturali ed economici.

La misura risulta fondamentale per un paese tra gli ultimi al mondo per la quota di spesa destinata all’istruzione (152° su 157 totali, dati 2018 Oxfam), un paese che investe solo il 3,5% del suo PIL. E’ chiaro che non basta oggi raccontarsi una buona ricetta: la scuola dovrebbe riappropriarsi delle piazze, in cui studenti e lavoratori dovrebbero sfilare accanto gli uni agli altri.

 

La copertura finanziaria per una scuola pubblica di qualità, per tutte e tutti indipendentemente dal reddito, dotata di strutture e attrezzature all’avanguardia, con docenti stimolati, stabili ed adeguatamente retribuiti, dove la fornitura dei libri di testo è gratuita e regolata al di fuori della concorrenza del mercato editoriale, va trovata attraverso aumenti considerevoli di investimento pubblico, rompendo il meccanismo di finanziamento diretto ed indiretto all’istruzione privata. Soprattutto, si tratta di lottare per dirottare il finanziamento a fondo perduto alle imprese, alle spese militari, agli organismi ecclesiali attraverso il meccanismo dell’esenzione, perché ogni singolo centesimo delle tasse dei lavoratori venga destinato ai servizi a cui attingono i lavoratori stessi.

Da questo punto di vista hanno responsabilità anche i sindacati: non è sufficiente tirare per la collottola questo governo, è necessario riprendere a protestare vigorosamente ed unitariamente perché quanto prospettato sia realizzato.

La scuola non può cedere più un solo passo a chi lavora a favore delle disparità e delle iniquità.