Parlare di ’68 studentesco tout-court, concentrando la propria attenzione in maniera esclusiva sui fatti che caratterizzarono quell’anno pur densissimo di avvenimenti, significherebbe rischiare di non coglierne la vera essenza, di ridurre a una mera sequenza di episodi storici la portata cruciale che il movimento ebbe per la generazione che lo visse e per quelle successive, e – cosa forse ancora più grave – non inquadrare le vere ragioni che spinsero centinaia di migliaia di studenti in quel frangente a un potente risveglio di coscienza.

A voler ben guardare, non esiste evento storico che non sia dialetticamente connesso con quello precedente e con le sue conseguenze, ma qui vogliamo tracciare un perimetro preciso che ci permetta di fare un po’ di luce su quel periodo, un momento che vide protagonista il movimento studentesco come mai era accaduto in Italia fino a quel momento. Per comprendere la condizione del tutto nuova in cui gli studenti si trovarono ad agire, basterà gettare uno sguardo d’insieme ai temi che in quel decennio avevano modificato l’assetto sociale e, in qualche misura, infervorato il dibattito sulla morale corrente.

 

L’Italia prima del ‘67.

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la società italiana era stretta in un intreccio di provincialismo e accelerato sviluppo industriale, il numero di iscritti alle facoltà universitarie era salito con costanza, ma è tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta che assistiamo a un vero e proprio boom di iscrizioni, che non si arresterà più fino alla fine degli anni Settanta. In un decennio, tra il 1957 e il 1966, gli iscritti totali passano da 220.000 a 405.000, con le donne che, a metà degli anni Sessanta, costituiscono ormai un terzo della popolazione universitaria. Le facoltà umanistiche sono quelle maggiormente investite da questo cambiamento: gli studenti di Lettere passano da 33.500 del 1957/58 a 104.000 del 1965/66; a Scienze politiche in meno di 10 anni si immatricola più del doppio degli studenti (da 3.330 a 8.700) [1].

Decisiva nella formazione psicologica delle masse di giovani artefici del ‘68 fu la situazione internazionale dell’epoca. Il movimento mondiale contro l’aggressione imperialistica del Vietnam, il dispiegarsi per anni di questa moderna lotta tra Davide e Golia fa da sfondo a tutta la vicenda del ‘68 e alla politicizzazione estrema delle contestazioni giovanili che, assieme alle rivendicazioni sulla libertà sessuale e l’influenza della Rivoluzione Culturale cinese, erano le grandi costanti del movimento internazionale. Tutto ciò non poteva non avere un riflesso anche all’interno delle aule in Italia, dove tutto ciò si coniugò con la nascita di correnti critiche dello stalinismo e del cattolicesimo di sinistra[2].

Se negli Stati Uniti, infatti, gli studenti che parteciparono alle proteste non si erano formati in un quadro politico classico, in Italia, così come nel resto d’Europa, le avanguardie del movimento avevano già avuto modo di entrare in contatto con le grandi formazioni socialdemocratiche dell’epoca e di constatarne le posizioni[3]. Basti dire che una parte consistente del dibattito studentesco che si sviluppò in seguito ruotava intorno al tema dell’organizzazione e della rappresentanza politica, in netto contrasto con quelle che erano state fino a quel momento le pratiche della sinistra storica, in particolare del PCI nelle sue relazioni con l’URSS.

 

Dal ‘67 al ‘69

Per capire perché i partiti di sinistra arrivarono impreparati alla ribellione studentesca, può essere utile vedere come nell’immediato dopo guerra Lucio Lombardo Radice sintetizzava la concezione del PCI sul problema dell’Istruzione:

“Il problema non è se sia giusto o meno che i migliori elementi delle classi lavoratrici siano esclusi de facto dall’educazione secondaria e universitaria, ma se la scuola italiana, come è organizzata, oggi sia uno strumento efficiente per la ricostruzione del Paese”. [4]

Questa citazione esprime la convinzione della burocrazia PCI, dal ‘45 in poi, che lo stato quasi intatto del regime fascista (appena scalfito dalle epurazioni, grazie all’amnistia di Togliatti) fosse utilizzabile per la “via italiana al socialismo”, rinnegando completamente tutta la propria tradizione politica (nonché di Gramsci prima e durante la prigionia)[5], ingannando con la teoria delle “due tappe” milioni di operai e contadini che riconoscevano il PCI come guida di un movimento dalle spiccate caratteristiche rivoluzionarie in tutti i settori della società.

Avendo come compito la ricostruzione del capitalismo italiano, il PCI mise in secondo piano le esigenze e i bisogni delle classi lavoratrici italiane, assecondò il riassesto dello stato e delle sue istituzioni autoritarie: la scuola e l’università italiana a lungo incarnarono l’autoritarismo di una borghesia prima fascista e poi giocoforza democratica.

In questo clima di crescente insofferenza, l’annuncio del provvedimento voluto dall’allora ministro Luigi Gui – che non solo non concede alle Università nessuna delle libertà intellettuali che venivano richieste, ma raddoppia la tassa di iscrizione, ostacolando l’accesso all’istruzione per migliaia di giovani provenienti dalle classi sociali meno abbienti – scatena infine il movimento. A partire della Università di Pisa, Trento, Torino, Milano, il 1967 fu un crescendo della mobilitazione studentesca.

Nel febbraio 1967, 72 studenti provenienti da diverse facoltà italiane occupano la Sapienza di Pisa, barricandosi all’interno dell’edificio e dando vita a un vero e proprio manifesto rivoluzionario, il “Progetto di tesi del sindacato studentesco elaborate collettivamente dagli occupanti La Sapienza di Pisa”, meglio note come le “Tesi della Sapienza”. Tra loro, Gian Mario Cazzaniga, Vittorio Campione e Adriano Sofri, avanguardie del movimento.

“Cosa facevamo? Semplice: ci eravamo formati alla lettura di Marx, di Lenin, di Rosa Luxemburg e di altri autori classici della sinistra in seminari auto-organizzati; il nostro pensiero era di applicarli alla contemporaneità.”[6]

In queste Tesi, lo studente era visto come una forza interna al proletariato, come forza-lavoro in formazione, i cui compiti routinari e ripetitivi lo rendevano analogo agli operai in catena di montaggio. Anche lo studente, creatore di valore come gli operai, doveva avere un salario universitario, da qui l’equivalenza tra “diritto allo studio” e “diritto al lavoro”, e quindi la necessità per gli studenti di associarsi non semplicemente come studenti, ma come sindacati di lavoratori, gestiti con gli strumenti della democrazia diretta e antiburocratici[7]. Mai più nel movimento si avrà un’analisi così spintamente economicista del ruolo dello studente nella società capitalista, ma anzi si avrà l’esatto opposto. Le Tesi si spingevano fino a vedere la lotta anticapitalistica degli studenti come parte della “radicalizzazione della lotta di classe e alla costituzione della dirigenza politica rivoluzionaria, che costituisce l’obiettivo di fondo della nostra azione”.

Sempre nel ‘67 all’università di Trento, in cui esisteva un movimento studentesco autonomo da qualsiasi inquadramento partitico, si ebbe l’esperienza della cosiddetta Università Negativa, influenzata principalmente dai dibattiti sociologici e dal fatto che la neonata facoltà di sociologia in Italia importava nel panorama culturale italiano una serie di strumenti e tematiche che furono sfruttati a mani basse da tutto il movimento. Dopo una serie di occupazioni a sfondo rivendicativo fatte nell’arco del ‘66, che consolidarono la fiducia del movimento trentino in sé stesso, in marzo una mobilitazione contro la guerra del Vietnam era stata sgomberata dalla polizia: il “Manifesto dell’Università negativa”, che scaturì da una nuova occupazione nel novembre del ’67, criticava la presunta neutralità della scienza, l’irrazionale divisione del lavoro capitalistica, nonché elaborava la concezione dell’università come luogo dove gli studenti apprendevano gli strumenti scientifici che la borghesia forniva loro per puntarli contro la borghesia stessa e il suo dominio, contribuendo in questo modo ad una teoria del cambiamento rivoluzionario.

Queste conquiste non furono limitate agli studenti pisani, ma ben presto divennero patrimonio comune dell’intero movimento nel corso del ‘68, in questi termini:

Durante le occupazioni, invece, diventava sempre più chiaro il rapporto esistente tra sistema scolastico e mondo dell’accumulazione capitalistica.

Il movimento studentesco nascente prendeva coscienza del fatto che un obiettivo di riforma della scuola, concepito all’interno dei margini di cambiamento consentiti dal sistema, non avrebbe prodotto altro che un rafforzamento del sistema capitalistico nel suo complesso.”[8]

Nell’aprile del ’66, in seguito all’uccisione dello studente comunista Paolo Rossi all’università di Roma, allora dominata dai fascisti, dalle loro organizzazioni e dalle loro feste goliardiche, scattò l’occupazione, fatta rientrare dalle burocrazie studentesche del PCI, PSI, PSIUP, anche sul versante studentesco impegnati a fare da pompieri e a contenere ogni spinta autodeterminata della classe lavoratrice, ogni voce che uscisse dal coro per mettere in discussione la loro titolarità di garanti dell’opposizione della Democrazia Cristiana.

Per questa ragione l’antiautoritarismo, che iniziò ad essere concepito come tema fondamentale durante una delle numerose occupazioni sgomberate di Palazzo Campana dell’Università di  Torino, divenne ben presto un concetto che inglobò la lotta al sistema in quanto tale: gli studenti, sotto i colpi della repressione, capirono giorno dopo giorno, spesso con balzi improvvisi di coscienza in pochissimo tempo, che la partita in gioco non era semplicemente la didattica alternativa, contro un “insegnamento accademico che dietro la maschera  della neutralità della scienza e della cultura instilla negli studenti la mentalità autoritaria propria delle autorità accademiche”[9]

L’antiautoritarismo non si riferiva semplicemente alla resistenza contro specifici ambiti autoritari, come l’università o la fabbrica, ma come smascheramento globale delle infinite e subdole forme di controllo esistenti anche al di fuori dei propri luoghi di lavoro e di studio.

A gennaio a Torino si tenne un convegno nazionale dei comitati di agitazione con delegati da diverse università in lotta, che diventeranno ben presto 31 università sulle 33 esistenti.[10] Nonostante in più centri della protesta studentesca si fosse paventata la necessità di una organizzazione unica degli studenti a livello nazionale, non si arriverà mai a ciò, e anche questo primo incontro fu per lo più uno scambio di informazioni e testimonianza di solidarietà tra le varie università. Nonostante non ci fosse un vero è proprio coordinamento, ogni nuova occupazione ripartiva dalle conquiste di quelle precedenti, saltando tutti i passaggi intermedi di lotta, elaborazione ed esperienze assembleari, ma sotto la spinta degli eventi riproducevano un filone unico, sebbene con notevoli differenze tra ciascuna singola realtà.

Il movimento studentesco cercava di proiettarsi all’esterno dell’università con manifestazioni di piazza e dando inizio al cosiddetto lavoro operaio; presso molte università si erano costituite le commissioni operaie o commissioni fabbriche allo scopo di articolare e coordinare l’intervento studentesco presso le fabbriche”[11].

Gli studenti rifiutarono le strutture rappresentative esistenti, in cui i vari partiti, dal PCI all’MSI, presenziavano con i propri militanti studenti. La democrazia diretta, l’assemblearismo divenne da subito il marchio di fabbrica di questa fiumana incandescente che scosse il paese da nord a sud, sconvolgendo pregiudizi radicati, minando anche col ferro e col fuoco il dominio borghese in tutti i suoi ambiti.

“Noi non riconosciamo alcuna autorità agli organismi rappresentativi. Essi sono l’immagine riflessa nello specchio deformante del democraticismo piccolo-borghese, del verticalismo parlamentare, svincolato dalle masse e connivente, direttamente o indirettamente, col potere costituito”[12].

La forma assembleare andava però incontro ad una serie di inconvenienti  che già durante i primi mesi del ‘68 venivano individuati dall’interno del movimento:

“Non è pensabile una continuazione ininterrotta, per un lungo periodo, di scontri nelle forme attuali. Periodi di scontro acuto si alternano a periodi di relativa stasi: è necessario formare un’organizzazione in grado di attraversare gli uni e gli altri.[…] Nelle situazioni di lotta più avanzate […] si manifesta un divario crescente fra lo sviluppo concreto dello scontro […] e lo sviluppo della discussione e dell’organizzazione politica del movimento.[…] Lo sviluppo strategico del movimento avviene così nella testa dei leaders, che via via decidono di dare questo o quel significato a questo o quello scontro”.[13]

Il crescente attivismo studentesco nell’inverno del ‘67-’68, le violente repressioni poliziesche di ogni occupazione, le provocazioni fasciste, le manovre del baronato e delle burocrazie, esercitarono una loro influenza sull’ambiente romano. A fare da miccia furono però le brutali risposte delle forze dell’ordine nelle settimane precedenti la battaglia di Valle Giulia.

A Firenze diecimila studenti dell’università degli istituti tecnici e magistrali, dei licei classici e scientifici sono stati brutalmente aggrediti mentre manifestavano davanti al rettorato. Decine di feriti, nella maggior parte per trauma cranico. […] Agli studenti che si battono contro l’autoritarismo delle strutture accademiche sancito dal piano Gui, si risponde con le violenze dell’apparato repressivo dello Stato, con la serrata degli atenei più combattivi, con le cariche delle camionette. Gli studenti sono costretti dai fatti a comprendere come l’autoritarismo accademico e le violenze della polizia siano due facce di un’unica realtà .”[14]

Il primo marzo del 1968, dopo l’ennesimo sgombero, dopo una gamba rotta ad un compagno investito di proposito da una jeep della polizia, gli studenti andarono alla facoltà di architettura. All’ennesima carica della polizia gli studenti, invece che arretrare come ormai facevano da mesi, ingaggiarono una ferocissima lotta con le forze dell’ordine e riuscirono a sconfiggerle sul campo e rioccupare brevemente la facoltà.

Questo segnò un salto di qualità nella fiducia degli studenti. Da lì in poi si moltiplicò in tutto il territorio nazionale una variegata serie di azioni. Questo di pari passo al sempre più accentuato carattere di classe delle analisi e degli obbiettivi degli studenti. Nel giugno seguente, a Venezia, si tenne un Convegno nazionale alla facoltà di Architettura (l’8 e il 9 giugno 1968) di circa un migliaio tra studenti e operai, che ormai erano sempre più in contatto: la parte torinese del movimento spingeva per fare un fronte unico, a trazione studentesca, di studenti-operai, mentre altri settori, più ortodossi e schematici, ritenevano gli studenti non una parte della classe operaia in lotta, ma al massimo un bacino piccolo borghese da cui attingere militanti rivoluzionari.[15]

L’escalation del movimento era stata inarrestabile, dall’occupazione esplosiva dei rampolli DC della università cattolica di Milano, all’occupazione della statale, ai processi al Corriere della Sera, alla lotta costante contro le macchinazioni giornalistiche della stampa e dei grandi giornali borghesi, che creavano una patina costante di menzogne.

Per non forzare l’economia di questo scritto non possiamo entrare nel merito della cronaca delle varie azioni intraprese dal movimento, dalle varie tappe della sua evoluzione, che nella sua sterminata dimensione nazionale e globale conobbe una miriade di forme, e su cui esiste una sterminata bibliografia. Preferiamo concludere con delle osservazioni sulla natura del movimento e dei suoi caratteri essenziali.

 

“LA FINE” DEL MOVIMENTO

Sull’anno degli studenti tanto si è scritto, e non manca mai l’attenzione dei media borghesi, tanto che nell’immaginario collettivo sembra che quella di contestare sia stata una “moda” lanciata dagli studenti, e si lascia spesso nel dimenticatoio il fatto che dopo il ‘68 ci fu… il ‘69. Questo per il banale motivo che uno dei compiti della propaganda borghese, un elemento naturale, si può dire, della società capitalista, è occultare, travisare, sminuire, ridicolizzare la storia delle ribellioni operaie, quando, insomma, la contestazione passa dai luoghi di studio ai luoghi in cui si crea la ricchezza. E questa fu anche una concausa dell’improvvisazione e della diffidenza del movimento degli studenti verso le organizzazioni tradizionali della classe lavoratrice: il salto oltre intere generazioni di storia operaia, come la Rivoluzione Russa dei soviet, il Biennio Rosso, che furono largamente ignorati dai giovani studenti, che nel corso del loro processo di politicizzazione iniziavano ad appostarsi fuori dalle fabbriche per costruire il “partito dell’insurrezione”. È questo inizio di attivismo operaio durante gli scioperi dell’inverno del ‘68, unito alla repressione del movimento studentesco e all’inizio della lotta degli studenti medi, che segnò la fine del 1968. Il movimento era sempre meno movimento studentesco e sempre più coagulazione di migliaia di giovani attivisti nei nuovi gruppi ed organizzazioni che nascevano sull’onda delle lotte operaie (come Lotta continua) o dalla disgregazione di organizzazioni preesistenti che non erano state capaci di attrarre queste migliaia di giovani e la loro domanda di cambiamento.

Quel settore che aveva partecipato al movimento delle occupazioni con una coscienza unicamente democratico-borghese, e che aveva visto le lotte universitarie come possibilità di aprirsi nuovi spazi, di svecchiamento, di rinnovamento, di democratizzazione, riconosce a questo punto che il suo ruolo politico è finito […] e da quel momento in poi scompare dalle assemblee, dai picchetti, dalle manifestazioni, per ritrovarsi dentro le biblioteche, dentro gli istituti, dentro i seminari, cominciando a far funzionare l’istituzione universitaria in modo rinnovato, introducendo un modo di insegnamento più democratico e partecipativo, dai contenuti di studio più attuali e più attenti a quel che succede nella realtà […] Un altro settore, invece, confluisce in quella nuova esperienza che è l’esplosione di massa delle organizzazioni rivoluzionarie[16]

L’esplosione di tanti gruppi e gruppuscoli politici che ebbe luogo dopo nella seconda metà del ‘68, oltre a testimoniare la dirompente e inedita volontà di partecipazione alla creazione di un partito rivoluzionario, o comunque di un’organizzazione rivoluzionaria, segna la fine del movimento studentesco come tale. Questi gruppi, che complessivamente mobilitarono nelle proprie organizzazioni qualcosa come 100mila militanti[17], un numero che fa invidia alla quasi totalità dei partiti di tutte le democrazie capitaliste, portarono con sé, in gradi differenti, molte caratteristiche del movimento studentesco:

– la volontà di creare nuove forme organizzative saltando a piè pari quelle che nella storia del movimento operaio si erano dimostrate più efficaci, ma stereotipate attraverso la piatta e dogmatica propaganda stalinista, che per la sua natura burocratica non permise mai di trasmettere le autentiche tradizioni democratiche del bolscevismo pre-staliniano;

– la sottovalutazione delle istituzioni classiche della classe operaia, come il Partito Comunista, il Partito Socialista, la Cgil: mancando di una seria analisi del ruolo di queste “istituzioni di democrazia operaia”, l’approccio spesso passava bruscamente e senza principi da un sostegno acritico ad una lotta settaria e senza quartiere verso queste “istituzioni” operaie;

– l’incapacità di darsi strutture che permettessero la formazione permanente dei compagni e che quindi, elevando tutti allo stesso livello politico, permettesse un serio dibattito, consapevole, su tattica e strategia di volta in volta adottata, eliminando la possibilità alla radice della creazione di piccole cricche di leader o burocrazie che tutto decidono, magari in nome del “siamo tutti delegati”;

– un approccio spesso idealistico al ruolo della classe operaia e delle classi in generale. Basti pensare al ruolo che giocarono le infatuazioni verso il maoismo, secondo cui il compito rivoluzionario era determinato dalla volontà, dai soggetti al di là della loro collocazione nei rapporti di produzione, come ad esempio i contadini, considerati, al contrario di quanto faceva il marxismo “classico”, come alleato e complemento dell’unica classe che per sua natura può distruggere il modo di produzione capitalistico.

Al di là di queste e altre considerazioni che si possono fare, il movimento degli studenti del ‘67-‘68 rimane sempre come monito, alla classe dominante e ai viscidi sostenitori di questo sistema, che quando i giovani iniziano a radicalizzarsi, a buttarsi nell’arena politica, a pensare di poter col loro intervento modificare la realtà esistente, significa che sta per suonare anche l’ora della battaglia per la classe lavoratrice: nel periodo di cui abbiamo parlato, gli studenti radicalizzati sotto la spinta degli eventi, nazionali ed internazionali, sempre più son diventati un comparto della classe lavoratrice da diversi punti di vista, come sostenitori o militanti delle lotte di fabbrica, come lavoratori intellettuali che cercano di dare una forma politica, organizzata alla ribellione operaia ma anche come operai veri e propri in una fusione dei confini tra quello è stato il movimento degli studenti e quello dei lavoratori .

 

Note:

[1] Gli studenti erano aumentati dell’ 1,1% dal 1945 al 1960. a partire da quell’anno erano aumentati con questa progressione: nel 1966 del 72%, nel 1967 del 93%, nel 1968 del117%. La composizione di classe ugualmente mutò, vedendo una prevalenza di proletari e piccola borghesia.cfr. Lotta di classe nella scuola e movimento studentesco, Quaderni di Avanguardia Operaia, Milano, Sapere Edizioni, 1971, p. 83.

[2] Senza idealizzare un testo che ha comunque molti limiti, l’opera di Don Milani affrontava con decisione i temi della struttura classista dell’istruzione, il diritto alla ribellione dei proletari, una critica all’adattamento al capitalismo italiano dei sindacati e dei comunisti, nonché il militarismo. Vedi Lettere ad una professoressa, pp. 74, 90, 91.

[3] “Poche erano le riforme realizzate, e quasi sempre in modo parziale: l’industria elettrica era stata nazionalizzata, ma in una maniera che aveva permesso agli ex monopoli di mantenere un enorme potere finanziario; il massimo che si era potuto ottenere nella questione cruciale della pianificazione urbanistica era la “legge ponte” del 1967, la cui applicazione era poi stata rinviata di un anno. La scuola media dell’obbligo fino ai quattordici anni era un fatto compiuto, ma i contenuti arcaici e l’organizzazione della scuola superiore e dell’università non erano stati toccati. La legge Pieraccini sulla programmazione era affondata senza lasciare traccia. Non c’era stata né riforma fiscale né riforma burocratica, non era stato introdotto il sistema sanitario nazionale né la riforma dei patti agrari o della Federconsorzi. Anche l’istituzione delle regioni, così spesso promessa come una assoluta priorità, non era stata portata a termine. Si trattava, a tutti gli effetti, di un bilancio assai misero…” P. Ginsborg, Storia d’ Italia dal dopoguerra ad oggi, Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, p. 380.

[4] Robert Lumley, States of emergency: Cultures of revolt in Italy from 1968 to 1978 p. 120.

[5] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, volume terzo, ed. critica a cura di V. Gerratana, pp.1540 e segg.

[6]  Giuliana Biagioli, allora normalista di 23 anni, una delle 14 studentesse fra gli occupanti, in un’intervista rilasciata al Tirreno, 7 febbraio 2017 (http://iltirreno.gelocal.it/pisa/cronaca/2017/02/07/news/cosi-inizio-il-68-50-anni-fa-a-pisa-l-occupazione-che-innesco-la-rivolta-1.14840369)

[7] “Il sindacato studentesco analizzando e contrattando il momento di formazione della forza-lavoro entra in rapporto con il sindacato operaio proprio perché il processo di formazione che il sindacato studentesco analizza e contratta altro non è che un primo momento dell’uso capitalistico della forza-lavoro.”

[8] Diego Giachetti, Oltre il ‘68, 1998 p.42.

[9] Dalla mozione votata dall’assemblea all’inizio dell’occupazione di Palazzo Campana, Da P. Ortoleva (a cura di), Documenti di Torino delle facoltà di Legge, Lettere e Magistero cit., p 228.

[10] A. Mangano, La geografia del movimento del ’68 in Italia, in II Sessantotto, l’evento e la storia, Brescia, Annali della Fondazione Micheletti, n. 4, 1988-89.

[11] Diego Giachetti, Oltre il ‘68, 1998 p.43.

[12] Università negativa, in «Lavoro Politico», n. 2, novembre 1967

[13] V. Rieser, Università e società, «Problemi del Socialismo», n. 28-29, marzo-aprile 1968, pp. 92, 98.

[14] Il testo del volantino è raccolto in M. Barone (a cura di), Libro bianco sul movimento studentesco, Edizioni Galileo, Roma 1968, pp. 32-33.

[15] Sulle lotte studentesche, «Lavoro Politico», n. 4, febbraio 1968

[16] D. Mariotti (a cura di) Compagni del ’68, Padova, Marsilio, 1975, pp. 62-63.

[17] “il Partito Comunista d’Italia (m-1) aveva dai 5 ai 10 mila aderenti, l’Unione dei Comunisti Italiani anche, Potere Operaio 1.000-1.500, Lotta Continua 20 mila circa, il Manifesto dai 5 ai 6 mila. Avanguardia Operaia dai 15 ai 18 mila, il Partito di Unità Proletaria, sorto nel 1972 dopo lo scioglimento del Psiup, dichiarava, nel 1974, di avere 17.500 militanti. Sommando questi dati otteniamo una cifra compresa tra i 68 e gli 83 mila militanti. A essi vanno aggiunti almeno alcune altre migliaia di aderenti ad altri gruppi, come ad esempio gli anarchici, fino a  formazioni politiche più piccole che andavano dalle poche decine, a qualche centinaia di militanti, come nel caso dei trotzkisti dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari. A questi occorrerebbe aggiungere e conteggiare, se fosse possibile, i cosiddetti “cani sciolti”, cioè quelli che pur partecipando attivamente alle manifestazioni e alle iniziative di lotta non aderivano a nessuna organizzazione. Quindi ipotizzare una cifra superiore alle 100 mila persone coinvolte nell’attività politica dei gruppi della nuova sinistra ci sembra ragionevole e sostenibile.” D. Giachetti, Oltre il ‘68, 1998, p.87