“La questione dei diritti sindacali diventerà carta straccia se noi non sapremo farne cosa viva”

(L. Gervasi – Sindacalisti da marciapiede)

 

Il compito di una pubblicazione come questa è duplice. Da una parte è pensata per invogliare gli attivisti della classe lavoratrice non solo a studiare ma anche a problematizzare gli avvenimenti del passato. E’ facile essere assorbiti da molte pubblicazioni moderate, nostalgiche solo degli elementi più innocui del 1968.

 

Più difficile semmai è cercare di dare una lettura che possa servire per il presente. Infatti il secondo scopo di tale pubblicazione è proprio quello di capire fin dove può spingersi l’analogia con la situazione attuale. Proviamo dunque a riassumere, riprendendo le generalizzazioni formulate fin qui.

 

Il boom economico giocò un ruolo per lo sviluppo delle mobilitazioni?

Senz’altro la piena occupazione favorisce l’ondata di scioperi. Non vivere col terrore di non poter più trovare lavoro rende la classe più forte. Tuttavia il boom comincia almeno 15 anni prima dello sviluppo della lotta e per diverso tempo funge proprio da deterrente, emarginando le idee più radicali e favorendo quelle riformiste. Pertanto le condizioni del ciclo economico si intrecciano dialetticamente con la radicalizzazione delle masse ma senza determinarne a priori gli esiti.

 

Lo scoppio delle mobilitazioni fu spontaneo?

Come abbiamo visto, il 1968/69 fu preceduto da anni di lotte, anche estremamente radicali, ma non coordinate nè generalizzate. Il carattere generale di queste mobilitazioni è spontaneo e, una volta innescate, anche molte mobilitazioni del 1969 scoppiano in modo spontaneo. Tuttavia, la tenacia di una generazione di attivisti politici e sindacali, davanti ai cancelli delle fabbriche in tutte le stagioni e inascoltati per anni, ha creato una tradizione inconsapevole nei lavoratori, anche nei più lontani dalla politica. Lo stesso può dirsi dell’attività del movimento studentesco, correttamente orientato al movimento operaio. Dialetticamente, questa emarginazione si trasforma nel proprio contrario quando si innescano le prime lotte e, a loro volta, le alimentano.

 

Il 1968 dà inizio a una rivoluzione?

L’autorganizzazione che si sviluppa nelle fabbriche ha un riflesso anche nei quartieri, soprattutto nelle città industriali. D’altronde queste ultime sono quelle decisive nell’organizzare la classe lavoratrice. E’ innegabile che dalla metà degli anni ‘60 in poi il dibattito politico pervada la classe lavoratrice. Il marxismo si diffonde molto rapidamente, sebbene nelle forme distorte dello stalinismo e del maoismo. La borghesia italiana è molto incerta sul da farsi e l’esperienza della Francia, col potere quasi nelle mani del PCF per tentare di placare gli animi, è un’idea accarezzata dalle frange riformiste della DC, capeggiate da Moro. Tuttavia, l’Italia non è pervasa dallo sviluppo di soviet. I delegati di fabbrica non sono coordinati fuori dalla fabbrica. Le principali fabbriche non vengono occupate e non devono essere difese dall’esercito. Una intera generazione cerca la via della rivoluzione e dell’organizzazione dei lavoratori ma i sindacati perdono il controllo della lotta solo per pochi mesi.

 

Dove hanno sbagliato i gruppi come Lotta Continua?

L’errore fondamentale di questi gruppi è quello di non comprendere che i lavoratori non rinunciano alle proprie organizzazioni tradizionali, sindacali e politiche, senza averle messe alla prova fino alla fine. Anziché sfidare i dirigenti riformisti ad andare fino in fondo, conducendo un paziente lavoro di costruzione tra la base operaia di partiti e sindacati, questi gruppi hanno goduto della delusione operaia verso i sindacati senza comprendere le enormi capacità di recupero delle direzioni di queste organizzazioni. E’ sufficiente che la mobilitazione si sviluppi su un terreno nazionale per mettere in crisi questi gruppi, la cui nascita è legata comunque alle vicende di poche grandi fabbriche. Non basta dunque avere un programma corretto ed essere il gruppo giusto al momento giusto, bisogna anche comprendere di volta in volta quale sia la tattica giusta per entrare in sintonia con le idee degli strati più combattivi.

 

Ci sono analogie con la situazione attuale?

Senz’altro è differente la congiuntura economica. Oggi viviamo la più grande crisi del capitalismo, non certo il boom economico. Le mobilitazioni contro il global warming sono pervase dall’idea generale che questo sistema sia al capolinea. Nulla di tutto questo appartiene agli anni ‘50 e ‘60. La stessa radicalizzazione tra destra e sinistra, che in Italia al momento vede soprattutto un protagonismo della destra, negli anni ‘60 si sviluppa solo dopo lo scoppio delle prime lotte operaie. Anche la concentrazione e la composizione della classe lavoratrice è mutata. La concentrazione di proletari, tolte alcune grandi fabbriche, è oggi più spezzettata e nelle grandi città solo concentra solo nella grande distribuzione. Non si tratta necessariamente di un elemento di svantaggio. Per una filiera produttiva molto più dipendente da diversi fornitori e siti produttivi, basta uno sciopero in uno dei punti nevralgici per bloccare tutta la catena. Allo stesso tempo, non si può non vedere come il settore immigrato della classe lavoratrice viva condizioni tutt’altro che lontane da quelle degli anni ‘50 e ‘60.

 

Quei metodi e quelle lotte sono irripetibili?

Oggi non c’è nulla che indichi l’impossibilità di una nuova piazza Statuto o una nuova rivolta di Corso Traiano. I capetti in fabbrica non sono meno odiosi, nè meno intensa è l’offensiva padronale, forte anche del ricatto della disoccupazione. L’apparente inedia e passività di diversi strati della classe non è meno pesante di quanto non fosse negli anni ‘50. La concentrazione operaia è oggi inferiore ma non meno estesa. Senz’altro richiederà nuovi metodi per coordinare le lotte ed evitare il loro isolamento, che è il problema principale delle mobilitazioni operaie oggi. Ma nulla vieta ai lavoratori della grande distribuzione di applicare scioperi a gatto selvaggio o agli operai dell’indotto Fiat sparsi sul territorio nazionale di coordinarsi su un’unica piattaforma. I sindacati non sono meno paralizzati dalla voglia di concertazione (certo non ricambiata dai padroni) di quanto non fossero inerti su posizioni corporative negli anni ‘50. Anch’essi devono essere conquistati di nuovo.

 

Non c’è motivo di pensare che non si presenti un’altra occasione.