Il modesto compito che ci poniamo nelle prossime pagine sarà di analizzare alcune delle più importanti teorie che hanno in qualche modo fornito un’alternativa alla teoria di Lenin per la spiegazione dell’imperialismo.

Subito dopo la seconda guerra mondiale, sotto la crescente pressione della rivoluzione coloniale e delle guerre imperialiste in Corea e Vietnam, i numerosi golpe orchestrati dagli Stati uniti e i loro alleati, il sanguinoso olocausto di comunisti in Indonesia, l’imporsi sia con la brutale potenza militare che con la altrettanto brutale imposizione delle leggi dell’accumulazione capitalistica nei paesi cosiddetti del “terzo mondo”, posero tutti al centro della riflessione di migliaia di rivoluzionari e accademici la necessità di spiegare le cause del sottosviluppo e del funzionamento del capitalismo nei paesi impropriamente definiti del terzo mondo.

 

Per ovvie ragioni di spazio non potremo addentrarci nell’analisi di tutte le teorie più importanti ma ci concentreremo soprattutto su quelle di autori che hanno lasciato un segno e hanno avuto un certo impatto, se non Italia, perlomeno a livello internazionale. Ci concentreremo perciò brevemente su Toni Negri e il suo “Impero”, che rappresenta l’infiltrazione più riuscita dell’ideologia postmoderna nei ranghi della sinistra; affronteremo il pensiero  di Samir Amin (di gran lunga il più influente e prolifico teorico della teoria della “dipendenza”) e in ultimo ci spenderemo su un’analisi di David Harvey, che da 40 anni circa produce opere in cui cerca di popolarizzare gli elementi della critica marxista dell’economia, calandola nell’analisi della costruzione dello spazio capitalistico. Quest’ultimo autore ha avuto negli ultimi anni, anche in seguito al parziale risveglio della lotta di classe in USA, un certo seguito sulle due coste dell’oceano. Nell’analizzare la sua teoria dell’ imperialismo, esposta principalmente in The new imperialism del 2003, metteremo in luce quelle le principali debolezze di questo intellettuale, debolezze purtroppo poco discusse e molto diffuse nella concezione dell’imperialismo statunitense, in particolare e dell’imperialismo in generale.

 

 

L’impero dai piedi d’argilla

 

Seppur ormai superato dagli avvenimenti, Impero di Toni-Hardt è stato un volume fondamentale per la formazione di una generazione di attivisti, che avrebbe visto nel movimento No Global il punto più alto della propria mobilitazione.

 

Toni Negri difficilmente ha bisogno di presentazioni per chi mastica un po’ di storia del movimento operaio degli ultimi 50 anni: uno dei principali teorici di un certo filone dell’operaismo, perseguitato come presunto terrorista, intellettuale che si definisce ancora comunista, autore o comunque propagatore di alcune delle tesi post moderne sul movimento operaio e il capitalismo che più hanno avuto diffusione soprattutto a cavallo del XXI secolo.

 

A distanza di un quarto di secolo quasi, i fatti sono stati piuttosto ingenerosi con le teorie di “Impero”, ma è anche vero che raramente si  fa una discussione pubblica e critica del senso comune e dei pregiudizi più o meno organizzati a sinistra.

Prima di dimostrarlo con qualche citazione è necessario subito dire che la debolezza principale del libro è la poca chiarezza teorica, il gergo sociologico postmoderno spesso indecifrabile, che travisa e sposta completamente il senso stesso delle parole.  Nell’alveo fumoso e indefinito delle loro idee gli autori cercano di ammantare con un tono filosofico e sociologico pregiudizi piccolo borghesi e impressionisti, corazzandosi dietro una vasta erudizione che, seppure a volte letterariamente affascinante, ha sfortunatamente ha conseguenze teorico-politiche diseducative e confusionarie.

 

Innanzitutto va sottolineata la concezione metafisica e confusa del potere e dello stato.[1]

Basta leggere questa definizione disarmante di Negri e “Hardt, per rendersi conto quanto la loro concezione sia meramente e debolmente sociologica, seppur condita con omaggi formali alla teoria della classe marxiana:

 

Nella figura dell’operaio sociale le diverse componenti della forza lavoro immateriale sono tessute insieme. E’ un potere costituente che connette l’intellettualità di massa e l’autovalorizzazone in tutti gli ambiti in cui la cooperazione sociale flessibile e nomade è all’ordine del giorno”[2]

 

Il linguaggio è accattivante ma anche piuttosto vuoto. Non si capisce cosa debbano fare questi lavoratori immateriali e in cosa consista il loro potere. Non viene mai spiegato, come se per gli autori fosse più importante costruire frasi alla moda più che pratiche militanti efficaci. Non si può tacere neanche della concezione quasi complottistica e irrazionalista che dell’imperialismo ne discende:

 

“al contrario dell’imperialismo l’impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su barriere fisse, si tratta di un apparato decentrato e deterritorializzante”[3]

 

L’impero diviene così un oggetto inconoscibile, unità sovrastrutturale che tutto controlla e tutto fa, non è legato ai confini. Non vi si opporrebbe una classe internazionale, aspetto che accomuna i teorici della dipendenza come Emmanuel e Samir Amin, ma una moltitudine indefinita che deve opporsi quasi individualisticamente e soprattutto  ideologicamente all’impero, a questa sostanza inafferrabile e magmatica. 

 

A distanza di più di 20 anni non vogliamo dedicare eccessivo spazio ad una critica al testo di Negri ed Hardt. Sottolineiamo alcuni aspetti spesso passati in secondo piano in questo lungo saggio. Per quanto ci riguarda, Negri e Hardt compiono un delitto a danno della teoria di Lenin. Gli autori vi fanno dire assurdità che difficilmente si possono leggere senza un sorriso.  

     Negri riesce a dire che Lenin ripete semplicemente le tesi di Hilferding e Kautsky con cui era d’accordo teoricamente ma in disaccordo politicamente:

 

“Mentre adottava, in linea generale, le proposte analitiche di  questi autori, Lenin rifiutava le loro posizioni politiche. Benché  concordasse fondamentalmente con l’analisi di Hilferding della  tendenza verso il mercato mondiale dominato dai monopoli, egli negava che questo sistema fosse già stato messo a punto in modo  tale da poter mediare e equilibrare il saggio di profitto. Questo  rifiuto non era tanto teorico, quanto, soprattutto, politico. Lenin  pensava che, nella fase monopolistica, lo sviluppo capitalistico  sarebbe stato flagellato da una serie di contraddizioni su cui I comunisti avrebbero dovuto agire risolutamente. La responsabilità  del movimento operaio era quella di opporsi a qualsiasi tentativo capitalistico di organizzare un’equalizzazione effettiva dei saggi del profitto imperialistico, ed era compito del partito rivoluzionario  quello di intervenire per approfondire le contraddizioni oggettive  dello sviluppo. Quello che andava maggiormente evitato era la realizzazione dell’«ultraimperialismo» che avrebbe mostruosamente incrementato il potere del capitale e impedito, per  lungo tempo, le lotte intorno ai più  contraddittori e deboli anelli  della catena del dominio. Così scriveva Lenin per esprimere, a un  tempo, una speranza e una previsione: «Questo sviluppo procede in  circostanze tali, con un ritmo tale, attraverso tali contraddizioni e  conflitti – non solo  economici, ma anche politici, nazionali eccetera – che l’imperialismo si consumerà inevitabilmente, il capitalismo si trasformerà nel suo opposto “molto prima” che un unico trust  mondiale si materializzi, prima che si crei il complesso mondiale  ultraimperialista dei capitali finanziari nazionali»” [4]

 

 

In realtà Lenin chiarisce sempre in tutte le opere sul tema che gli stessi contrasti tra le i diversi interessi imperialisti rendono sterile e astratta l’idea di ultraimperialismo, di uno sviluppo “pacifico” verso un’ unica entità sovranazionale (che rassomiglia molto all’idea di Impero di Negri),  il problema per Lenin e per il movimento operaio non è se e  come l’imperialismo  porti un’equalizzazione dei profitti ma che se il proletariato non prende il potere le potenze imperialiste porteranno a guerre e catastrofi capaci di minacciare la stessa civiltà.

 

Gli autori affermano che Lenin ha principalmente il merito di aver formulato una critica soggettiva all’imperialismo: una teoria, secondo gli autori, che permetterebbe al soggetto[5] (rivoluzionario?), cioè per loro alla “moltitudine”, di dotarsi di quegli strumenti per contrastare l’imperialismo.

In realtà la critica di Lenin cerca di dimostrare oggettivamente che la natura del capitalismo moderno, nella sua fase imperialista, diventa sempre più incompatibile con la specie umana.

 

A distanza di anni si può osservare quanto i danni di queste teorie siano stati incalcolabili, perché sostituiscono alla pretesa marxista di una comprensione razionale dei rapporti tra le classi un’azione aleatoria priva di un contenuto reale, senza alcun appiglio alle condizioni concrete di esistenza della classe lavoratrice ma intrappolata in tipologie ideali: la lotta contro un potere non qualificato, capace di dispiegarsi su tutte le nazioni senza definizione su base nazionale.

 

È senz’altro vero che il capitale finanziario ha un potere assolutamente esteso e imponente. E’ tuttavia ugualmente vero che i grandi gruppi finanziari hanno una propria base geografica nazionale, gestiscono capitale per lo più fittizio ma anche asset reali e fabbriche, magazzini e catene di produzione internazionali che non si possono spostare indefinitamente. Le lotte dell’ultimo decennio nei colossi simbolo della supposta nuova economia tech lo dimostrano.

 

 

 

La teoria della dipendenza… dalla piccola borghesia

 

Samir Amin è sicuramente il più influente teorico post coloniale, o del terzomondismo che dir si voglia, grazie sia alla sua immensa produzione letteraria e al suo ruolo dirigente del forum del terzo mondo di Dakar, nonché come consigliere di diversi governi.

 

La sua prolificità di analisi del mondo arabo e subsahariano, di cui Amin sembra padroneggiare bene le dinamiche economiche  e sociali, hanno contribuito alla sua autorità.  Questi pregi però non possono nasconderne una serie di debolezze di fondo. Come spesso accade l’erudizione è nemica della comprensione, soprattutto quando è imprigionata in schemi preconcetti.

 

Si può ben dire che i processi di decolonizzazione del secondo dopoguerra abbiano comportato anche la crescita dell’attenzione teorica verso i problemi del neocolonialismo e dell’imperialismo. Amin è tra quelli che si è inserito in questo filone, per un arco di circa 50 anni. La sua formazione teorica lo ha portato a confrontarsi spesso sul terreno della critica marxiana dell’economia politica, ma spesso con confusioni e tautologie messe in evidenza da più parti.[6]

 

Le critiche sugli aspetti economici delle sue analisi sono numerose e da fonti diverse, ma quel che più preme sottolineare sono l’origine e le implicazioni politiche di queste analisi. Opere come “Unequal development”, “Accumulation on a world scale”, “The worldwide law of value” costituiscono l’ossatura di questo autore che, per prolificità, non potremo analizzare nel dettaglio.

Samir Amin non ha mai nascosto le sue simpatie e l’influenza del maoismo sul suo pensiero, un riflesso della sua formazione costituita all’inizio della rivoluzione cinese, lasciando una traccia indelebile sulla sua impostazione politica.

Come il suo “mentore” Emmanuel Arghiri, questo autore sembra spesso impostare la critica del sottosviluppo in termini che ricordano più David Ricardo che Karl Marx, seppur fluttuando tra i due autori[7]. Considerando i bassi salari come causa del sottosviluppo, sembra invertire le cause con le conseguenze. Per una marxista così erudito è ben strano focalizzare l’analisi sulla critica dei rapporti distribuzione e di circolazione che sui rapporti di produzione, di fatto utilizzando un metodo pre marxista (cioè che rintraccia il fulcro della società nella circolazione anziché nella produzione industriale della ricchezza). Il limite principale di queste posizioni è che Amin non considera possibile un sollevamento rivoluzionario nei paesi a capitalismo avanzato, teoria che ha sostenuto sino alla morte, tanto che considera addirittura un mito , quello della classe operaia rivoluzionaria, di fatto negando alla radice l’ analisi di Karl Marx sul soggetto rivoluzionario nella società capitalista:

 

“L’alternativa allo “stalinismo”, proposta da Trockij a partire dal 1927-1930, avrebbe permesso di fare “meglio”? Sicuramente no, al contrario. Le scelte che Trockij avrebbe fatto se avesse ottenuto la direzione del  Partito e dello Stato (cosa che a mio avviso era assolutamente esclusa,  molto fortunatamente)  avrebbero condotto l’Unione Sovietica alla  sconfitta certa e avrebbero permesso il successo del progetto  nazista. Trockij si nutriva del mito di una classe operaia europea (in particolare tedesca) rivoluzionaria. Non aveva appreso la lezione della sconfitta  della Rivoluzione tedesca del 1919-1921: il socialismo deve avanzare in  un solo paese, isolato e combattuto da tutte le potenze occidentali, come  ormai Lenin e Stalin avevano capito. I progetti di Trockij sono ormai conosciuti e accertati, a partire non solo dagli archive sovietici, ma anche da quelli della Germania nazista e della Gran Bretagna conservatrice. Grover Furr ne ha fornito le prove nel minimo dettaglio [FURR 2015]: Trockij raccomandava il “disfattismo rivoluzionario” (come lo si poteva ammettere nel 1914). La sconfitta dell’Armata Rossa avrebbe innescato,  secondo lui, una rivoluzione tedesca antinazista! Trockij, esiliato, dal 1927, non aveva più responsabilità nella navigazione della nave sovietica, poteva compiacersi nella ripetizione incessante dei sacri principi del socialismo. La Quarta Internazionale soccombeva fin dall’origine al mito della rivoluzione mondiale posta sui binari giusti dalla classe operaia dei paesi capitalisti sviluppati.” [8]

 

Tralasciando le tragicomiche ripetizioni di Amin delle vecchie e squallide calunnie a Trotsky (che la dicono comunque lunga sulla scarsa onestà intellettuale di Amin), è evidente che Samir Amin ignora completamente che il dibattito sulla strategia economica avuta in URSS negli anni 20, che vedeva in Trotsky il teorico di una più salda alleanza operai-contadini per mezzo di una rapida industrializzazione pianificata, che fornendo le campagne delle merci di cui necessitavano avrebbe permesso un armonico sviluppo dei rapporti tra le due principali classi della società sovietica e  della sua economia.[9] Metodologicamente questa strategia se non fosse stata schiacciata dalla violenta repressione staliniana, avrebbe potuto far parte del bagaglio teorico di tutti i rivoluzionari dei paesi ex coloniali che proprio nella risoluzione di questo dilemma si sono scontrati e hanno fallito nella transizione al socialismo.

 

Per Samir Amin le classi oppresse dei paesi dominati, non potendo aspettare che un proletariato occidentale, imborghesito dalla posizione di privilegio nel mercato mondiale, rovesci la propria borghesia, deve portare avanti una politica di sovranità popolare che lo porti a sganciarsi dal mercato mondiale e dai suoi rapporti iniqui di scambio:

 

 

i popoli dei centri imperialisti erano allora allineati dietro i loro leader imperialisti. Il progetto socialdemocratico dell’epoca sarebbe stato infatti difficile da immaginare senza la rendita imperialista di cui hanno beneficiato le società opulente del Nord. Perciò Bandung e il movimento dei non allineati erano visti come un mero episodio della guerra fredda, forse persino manipolati da Mosca. Nel Nord c’era una scarsa comprensione delle dimensioni della prima ondata emancipativa dei paesi dell’Asia  e dell’africa, che comunque fu abbastanza per convincere Mosca a supportarla[10]

 

Questa citazione viene da un libro di Amin del 2010, THE LAW OF WORLDWIDE VALUE,  a ben 50 anni dal Maggio Francese, dalle lotte degli anni ‘60-’70 negli Stati Uniti, in Giappone, Italia, e così via. Si può dire che a distanza di 50 anni Amin, ancora accecato dalla sua teoria, non riconosca neppure in sede storica ai movimenti operai dei paesi del “Nord” un potenziale rivoluzionario antimperialista, nonostante il ruolo decisivo del movimento contro la guerra in Vietnam per porre fine al conflitto ad esempio. Non si può neanche tralasciare il fatto che Amin tenda a generalizzare “il progetto socialdemocratico” a tutti i paesi del “centro imperialista”, mentre non in tutti i paesi imperialisti i socialdemocratici ebbero un ruolo di peso, e anzi i comunisti furono spesso più realisti del re nel sostegno ai regimi borghesi nazionali.

 

Il problema di fondo è che le analisi di Amin vertono su rapporti di scambio e teorie che ruotano attorno al quesito su chi venga prima, se salari bassi o bassa produttività[11], perchè non ritiene centrale il ruolo della produzione della ricchezza nel capitalismo.

 

Lo sganciamento che rivendica non è l’autarchia, ma di fatto sembra difficile capire come un paese che si sganci dai rapporti economici dominanti possa sostenersi. Amin parla di “autocentrare” lo sviluppo, forse col supporto della borghesia locale. Non è chiaro quale soggetto in un paese che si sgancia dal capitale internazionale debba portare avanti lo sviluppo economico e gestirlo. Amin cerca di ispirarsi al maoismo per impostare una sorta di socialismo iniziale, che permetterebbe di ottenere di più a chi più contribuisce alla creazione del valore. Tutto questo pur  mantenendo dovute proporzioni per non impoverire i contadini, che in un paese industrializzato creano meno ricchezza[12].

 

 

Di fatto, Amin cerca la spiegazione del sottosviluppo e della dipendenza delle periferie del mondo dal centro, e quindi dell’imperialismo, non nella produzione ma nello scambio. Nega il ruolo della classe operaia internazionale, pur rivolgendo un omaggio formale.

 

Quest’ultimo tratto in particolare è una caratteristica comune a tutti i pensatori alternativi a Lenin. Amin vede nei contadini e nei popoli oppressi un soggetto rivoluzionario guidato da settori borghesi o piccolo borghesi illuminati. Non lo vede nella classe lavoratrice, a cui anzi attribuisce un ruolo reazionario nei paesi avanzati.

 

È illuminante notare che in una delle sue opere, citando il maoista Bettelheim che difende con Rossana Rossanda il ruolo delle classi sociali nella politica di Mao, Amin sostenga che queste politiche non sarebbero proletarie ma si comporterebbero come agenti della politica proletaria[13]. Non significa altro, al contrario di quanto sostenevano i bolscevichi di Lenin, che la classe operaia non è la classe dirigente nella lotta per il socialismo ma che altre classi, che vivono in altri rapporti di produzione, possono sostituirsi a chi è titolato a controllare la produzione e può democraticamente decidere come gestirla.

Evidentemente per Amin a pianificare e decidere non serve l’intelligenza collettiva dei lavoratori,  ma il leader illuminato applaudito da milioni di piccoli produttori privi di potere decisionale e diseducati dalle leggi del lavoro salariato a percepirsi come la massa creatrice e riproduttrice della società.

Non a caso Amin è un feroce nemico di Trotskij.

 

Le teorie dello sganciamento in realtà sono utopie reazionarie che hanno un importante precedente: la teoria del socialismo in un paese solo dominante nell’URSS stalinizzato.

 

New imperialism e “New deal”.

 

David Harvey è considerato il principale geografo marxista. Purtroppo la fama è dovuta più ad un’intrinseca debolezza del marxismo a livello mondiale che ad effettivi meriti di questo autore, che in New imperialism del 2003, oltre ad un pregevole ed affascinante racconto della recente storia americana e dei processi di dispossessamento portati avanti dal capitale finanziario, purtroppo incastra affermazioni infelici proprio sull’imperialismo statunitense. Il libro ha ormai 20 anni, ma i contenuti non sono mai stati modificati da Harvey, che anzi li ribadisce con sicurezza e fermezza nel podcast di grande successo “The anticapitalist chronicle”.

 

Prestiamo attenzione alle seguenti affermazioni:

 

l’imperialismo economico statunitense, con l’eccezione di minerali e petrolio strategici, fu piuttosto muto nel secondo dopoguerra[14]

 

o ancora,

 

gli Stati Uniti si spostarono da una posizione di tutore dei movimenti di liberazione nazionale ad una di oppressore di qualsiasi movimento democratico o populsta che sembrasse anche leggermente avviato su un cammino non capitalista[15]i

 

Fanno sorridere tali affermazioni di smaccato revisionismo, soprattutto perché provenienti da un acclamato marxista che da 40 anni pubblica libri sul pensiero di Marx e sulla sua applicazione alla produzione dello spazio geografico.

 

La debolezza principale di una teoria spesso si rivela quando viene utilizzata per fare delle previsioni. Harvey non fa eccezione, tanto che in un testo dedicato al “nuovo imperialismo” si riduce a constatare che:

 

La sola possibile, per quanto temporanea, risposta a questo problema è all’interno delle regole capitalistiche del modo di produzione, una sorta di New Deal che abbia una platea mondiale. Questo significa liberare la logica della circolazione dell’accumulazione del capitale dalle sue catene neo liberali, riformulando il potere statale verso un maggiore intervento e linee redistributive, piegando i poteri speculativi del capitale finanziario, e decentrando o controllando democraticamente il potere prevaricante degli oligopoli e dei monopoli (in particolare la nefasta influenza del complesso militare industriale) […] L’effetto sarebbe un ritorno ad un più benevolo imperialismo “New deal”, preferibilmente arrivato tramite una sorta di coalizioni di poteri capitalisti che Kautsky aveva previsto tanti anni fa.[16]

 

Proporre una riedizione della politica roosveltiana in salsa globale negli Stati Uniti del XXI secolo è piuttosto curioso. Non lo sarebbe oggi dopo aver visto la sinistra democratica con Obama governare gli USA, figuriamoci dopo l’esperienza del 2003, anno di pubblicazione del libro. La superpotenza USA non è il capriccio di una forza politica né una conseguenza della volontà di questo o quel presidente, come non lo erano le politiche economiche reaganiane e quelle successive. Erano strategie  necessarie della classe dominante statunitensi per mantenere l’accumulazione capitalistica nel contesto di un calo pluridecennale della profittabilità degli investimenti[17].

 

Harvey in fondo spera in un settore della borghesia illuminata che faccia da sponda riformista ai movimenti sociali, non tanto alla classe lavoratrice ma a chi si oppone al dispossessamento dei beni comuni, lotte per lui centrali rispetto al processo di accumulazione capitalistico classico. Movimenti che dunque devono essere solo di testimonianza, non diretti al rovesciamento del capitalismo.

 

 

 

 

Per concludere

 

Queste teorie ci sembrano inquadrare aspetti molto importanti del dibattito della sinistra e del movimento operaio dell’ultimo mezzo secolo. Aa loro modo incarnano le principali debolezze del movimento: a ben vedere le correnti riformiste del movimento, avendo abbandonato o mai abbracciato l’idea del rovesciamento rivoluzionario della società, sono fatalmente preda di tutte le mode, anche della teoria economica borghese.

 

Usiamo il termine “borghese” per indicare quelle teorie che vedono questa società come naturale, riflesso di una qualche natura umana. Il pensiero rivoluzionario, aspetto non facilmente assimilabile per chi non è attivista, si fa strada solo in periodi molto rari. Può crescere marginalmente per decenni tra larghe masse.

 

È in questi momenti che serve avere un’organizzazione che, al riparo da illusioni e mode, possa afferrare saldamente la realtà tra le mani e non cullarsi in ricette che in un modo o nell’altro escludano la presa del potere diretto della società da parte della classe lavoratrice. Tutte le teoria sulla sovranità, su politiche economiche alternative, su soggetti terzi ma che non riguardano mai e non mettono al centro il problema gigantesco di chi debba produrre, cosa e quanto produrre e come farlo dì pianificare il resto della società non possono essere opzioni serie. Teorie del genere non riescono a risolvere il problema di dove si crei la ricchezza e come appropriarsene.

 

A distanza di più di un secolo la formulazione di Lenin di un’economia che dalla concorrenza crea monopoli che unificano rami sempre più grandi della produzione, che portano ad una crescita esponenziale del capitale finanziario, del suo potere sulla società e sui governi, a continue velleità espansionistiche mascherate dai motivi più vari, è più penetrante e profonda delle analisi descritte in questo articolo.

 

Queste teorie, nonostante le loro grandi eterogeneità, sono la sfiducia teorizzata e cristallizzata verso i lavoratori e le lavoratrici comuni. Sono alla costante ricerca di un genio della lampada teorico.

 

Ovviamente queste posizioni sono a nostro parere erronee non perché in contrasto con qualche sacra scrittura ma con una sobria analisi della realtà capitalistica, che poco può concedere a elucubrazioni lessicali. Una teoria efficace ha bisogno di indagare i rapporti di produzione per quello che sono realmente, lo sviluppo della lotta di classe per come si svolge effettivamente, i partiti, le frazioni di partito, i sindacati, le politiche del lavoro, economiche, le guerre ed i contrasti commerciali, ecc.

 

Si tratta di fenomeni che non possono essere spiegati e racchiusi da una filosofia metafisica, che cerca di rimasticare tutto in una pappa indefinita di moltitudini ribelli e poteri transnazionali fuori controllo, senza volto e senza terra. Questi sì, sono materiali d’intrattenimento, come romanzi distopici, ma inutili e forse persino dannosi nell’armare la coscienza dei militanti politici e dei lavoratori e delle lavoratrici che vogliono opporsi direttamente al potere capitalistico, agli industriali, alla repressione statale, ai governi reazionari.

 

[1] T. Negri, M Hardt, IMPERO, Bur Saggi, 2010, p. 8 E SEGG.

[2] Op. cit., P.547

[3] Op cit., P.9

 

[4] Op. cit. , pp. 253-254.

[5] Op. cit., pp.308 e segg.

[6] Si veda Sheila Smith (1980) The ideas of Samir Amin: Theory or tautology?, The Journal of Development Studies, 17:1, 5-20,

[7] Vedi capitolo 11, E. Mandel,  LATE CAPITALISM, Verso Books, 1976, London..

[8] In  Samir Amin Ottobre ’17: ieri e domani, MarxVentuno, n. 3-4/2017  si diffonde sull’ illusione rivoluzionaria in Germania ed Europa di Lenin e Trotsky, soprattutto quest’ultimo, e sostenendo incredibilmente che Lenin avrebbe capito il ruolo rivoluzionario autonomo dei contadini. Per non parlare delle incredibili affermazioni su Trotsky che riportiamo nel testo integralmente.

[9] Si veda la ricostruzione del dibattito in R. Day,Trotsky e Stalin,lo scontro sull’economia, feltrinelli 1976, che nonostante il titolo fuorviante contiene una cronaca e una valutazione complessiva del dibattito economico dal ‘17 in poi.

[10] THE LAW OF WORLDWIDE VALUE . P127

[11] E. Mandel,  LATE CAPITALISM, p. 354, Verso Books, 1976, London.

[12] Samir Amin, A Note on the Concept of Delinking, Review, X,3, Winter 1987, pp 435-444

[13]  Samir Amin, Unequal development, The harvester Press, 1976, p.197

[14] New imperialism, 2003, p. 57.

[15] New imperialism, 2003, p. 59.

[16] Op.cit. , p.209

 

[17] Al proposito si consiglia The economics of global turbulence, 2006, Verso Books di Robert Brenner, la più vasta e penetrante analisi del capitalismo dal dopo guerra ad oggi, che analizza contemporaneamente con una grande mole di dati e perspicacia lo sviluppo dell’economia usa tedesca e giapponese, LE TRE LOCOMOTIVE per così dire del capitalismo del dopoguerra.