I mezzi più importanti, che secondo Bernstein determinano l’adattamento dell’economia capitalistica, sono il sistema creditizio, il miglioramento dei mezzi di comunicazione e le organizzazioni imprenditoriali. Per cominciare dal credito, esso assolve nell’economia capitalistica molteplici funzioni, ma la più importante consiste notoriamente nell’accrescere la capacità di espansione della produzione e nel mediare e facilitare lo scambio. Perché là dove la tendenza della produzione capitalistica all’espansione illimitata urta contro i limiti della proprietà privata, contro le dimensioni ristrette del capitale privato, il credito si presenta come il mezzo atto a superare questi limiti in forme capitalistiche, a fondere in uno molti capitali privati – società per azioni – e a far sì che un capitalista possa disporre dei capitali altrui – credito industriale. D’altro lato esso accelera, come credito commerciale, lo scambio delle merci, quindi il riflusso del capitale alla produzione, e conseguentemente l’intiero ciclo del processo produttivo. E’ facile rendersi conto dell’influenza di queste due principali funzioni del credito sul determinarsi delle crisi. Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito. per quanto si è detto, è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo avere, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo. Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi altri modi in relazione coi determinarsi delle crisi Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una perturbazione per ogni minimo motivo. Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente per attenuare la crisi, è tutt’al contrario un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E del resto, non potrebbe essere altrimenti.

La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere A massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell’economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi. Ma queste considerazioni ci portano in pari tempo all’altro problema, cioè come mai il credito in generale possa apparire come un “mezzo di adattamento” del capitalismo. In qualunque condizione e sotto qualunque forma si immagini l'”adattamento” con l’aiuto del credito, l’essenza dì questo adattamento evidentemente può consistere soltanto nel comporre qualche rapporto antagonistico dell’economia capitalistica, nel toglier di mezzo o attenuare alcune delle sue contraddizioni, e nel concedere così in qualche punto libero gioco alle forze che altrimenti sarebbero soffocate. Ma invece, se esiste nella odierna economia capitalistica un mezzo capace di accrescere al massimo le contraddizioni questo è proprio il credito. Esso accresce la contraddizione tra modo di produzione e modo di scambio in quanto tende al massimo la produzione e paralizza per il minimo motivo gli scambi. Accresce la contraddizione tra modo di produzione e modo di appropriazione in quanto separa la produzione dalla proprietà, trasformando nella produzione il capitale in un capitale sociale, e per contro una parte del profitto in interesse del capitale, cioè in tiri mero titolo di proprietà. Aumenta la contraddizione tra i rapporti di proprietà e quelli di produzione riunendo in poche mani, mediante l’espropriazione di molti piccoli capitalisti, enormi forze produttive. Accresce la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la proprietà privata capitalistica, rendendo necessaria l’intromissione dello Stato nella produzione (società per azioni). In una parola il credito riproduce tutte le contraddizioni cardinali del mondo capitalistico, le porta all’acme, accelera il cammino lungo il quale esso va incontro al proprio annientamento, al crollo. Il primo mezzo di adattamento del capitalismo nei riguardi del credito dovrebbe essere dunque quello di abolire il credito, di farlo retrocedere. Così com’è adesso non rappresenta un mezzo di adattamento, ma di annientamento, di valore altamente rivoluzionario. Ma proprio questo carattere rivoluzionario del credito, che trascende lo stesso capitalismo, ha indotto persino a progetti di riforma ispirati al socialismo, ed ha fatto apparire grandi rappresentanti dei credito, come Isaac Péreire in Francia, metà profeti e metà furfanti, secondo l’espressione di Marx.

Fragile del pari si dimostra, osservato più da vicino, anche il secondo “mezzo di adattamento” della produzione capitalistica, le unioni di imprenditori. Secondo Bernstein, esse, regolando la produzione, dovrebbero metter fine all’anarchia e prevenire le crisi. Lo sviluppo dei cartelli e dei trusts è certamente un fenomeno non ancora studiato nei suoi molteplici effetti economici. Esso costituisce anzitutto un problema, che può essere risolto soltanto con la guida della dottrina di Marx. Ad ogni modo è chiaro che si potrebbe mettere in discussione la possibilità di arginare l’anarchia capitalistica per mezzo dei cartelli solo nella misura in cui i cartelli, i trusts, ecc. diventassero una forma di produzione dominante in modo press’a poco generale. Ma proprio questo è escluso dalla natura stessa dei cartelli. Lo scopo economico ultimo e il risultato delle unioni di imprenditori consistono nell’influire, mediante l’abolizione della concorrenza in una determinata branca della produzione, sulla ripartizione della massa dei profitti ottenuti sul mercato in modo da accrescere la quota spettante a tale branca industriale. Ma l’organizzazione può innalzare la quota dei profitti in una branca dell’industria soltanto a spese delle altre, e perciò non può assolutamente assumere carattere generale. Estesa a tutti i più importanti rami della produzione, essa elimina autonomamente la propria efficacia. Ma anche nei limiti della loro applicazione pratica, le unioni di imprenditori agiscono in senso esattamente contrario all’eliminazione dell’anarchia industriale. Generalmente i cartelli ottengono l’aumento suaccennato della quota dei profitti sul mercato interno, in quanto fanno produrre per l’estero, con un tasso di profitto più basso, le porzioni eccedenti di capitale, che non si possono adoperare per il consumo interno, cioè vendono le loro merci all’estero a prezzo molto più basso che nel proprio paese. Ne risulta un’acuita concorrenza all’estero, una maggiore anarchia sul mercato mondiale, e cioè proprio il contrario di ciò che si voleva ottenere. Ne troviamo un esempio nella storia dell’industria internazionale dello zucchero. Infine, come forma fenomenica del modo di produzione capitalistico, le unioni di imprenditori possono essere concepite soltanto come uno stadio transitorio, una fase determinata dell’evoluzione capitalistica, in quanto sono precisamente un mezzo adottato dal modo di produzione capitalistico per arrestare in singole branche della produzione la fatale caduta dei tasso di profitto. Ma qual è il metodo seguìto dal cartelli a questo scopo? Non è altro, in fondo, che lasciare inattiva una parte del capitale accumulato, cioè lo stesso metodo che sotto altra forma si applica nelle crisi. Ma un simile metodo di cura assomiglia alla malattia come si assomigliano due gocce d’acqua e solo fino a un determinato momento può essere considerato il male minore.

Non appena il mercato comincia a contrarsi, in quanto il mercato mondiale viene sviluppato al massimo ed esaurito dai paesi capitalistici concorrenti – ed evidentemente non si può negare che un simile momento debba presentarsi presto o tardi – la forzata inattività parziale del capitale assume una tale estensione, che la medicina stessa si converte in malattia ed il capitale già reso sociale in misura sensibile dal l’organizzazione si ritrasforma in capitale privato. Nella diminuita possibilità di trovare un posticino per sé sul mercato, ogni porzione di capitale privato preferisce tentare la fortuna per proprio conto. E allora le organizzazioni devono scoppiare come bolle di sapone e far nuovamente posto a una libera concorrenza, in forma potenziata[1]. In definitiva dunque anche i cartelli, come già il credito, si manifestano come fasi determinate dell’evoluzione economica, che in ultima analisi non fanno che accrescere l’anarchia del mondo capitalistico e determinare il manifestarsi e il maturare delle sue interne contraddizioni. Essi acuiscono le contraddizioni tra il modo di produzione e lo scambio, portando all’acme il duello tra produttori e consumatori, come possiamo vedere particolarmente negli Stati Uniti d’America. Acuiscono inoltre la contraddizione tra il modo di produzione e n modo di appropriazione, in quanto contrappongono nella forma più brutale alla classe operaia la forza schiacciante del capitale organizzato e così accrescono al massimo l’antagonismo tra capitale e lavoro. Acuiscono infine la contraddizione tra il carattere internazionale dell’economia capitalistica e il carattere nazionale dello Stato capitalistico, in quanto portano con sé, come fenomeno collaterale, una guerra doganale generale e così portano all’estremo gli antagonismi tra i singoli Stati capitalistici. C’è inoltre la funzione diretta, altamente rivoluzionaria, dei cartelli sulla concentrazione della produzione, perfezionamenti tecnici e così via. Così i cartelli e trusts nel loro effetto finale sull’economia capitalistica, non soltanto non ci appaiono come “mezzi di adattamento” che cancellano le sue contraddizioni, ma anzi come uno dei mezzi che essa stessa ha creato per accrescere la propria anarchia, esasperare le proprie interne contraddizioni e affrettare il proprio tramonto. Ma se il credito, i cartelli e simili non eliminano l’anarchia della economia capitalistica, come avviene che da vent’anni – dal 1873 – non abbiamo più avuto una crisi economica generale? Non è questo un segno che il modo di produzione capitalistico si è “adattato” almeno nei fatti principali alle necessità della società e che è superata l’analisi fatta da Marx? La risposta seguì immediatamente alla domanda.

Bernstein aveva appena gettato nel 1898 tra i ferri vecchi la teoria marxistica delle crisi, quando nel 1900 scoppiò una violenta crisi generale e sette anni più tardi, nel 1907, una nuova crisi dilagò dagli Stati Uniti sul mercato mondiale. Così con l’eloquenza stessa dei fatti fu distrutta la teoria dell'”adattamento” del capitalismo. E con ciò contemporaneamente si dimostrò che coloro che avevano ripudiato la teoria delle crisi di Marx solo perché essa era mancata a due pretese “scadenze”, avevano scambiato il nocciolo di questa teoria con un particolare non essenziale della sua forma esterna – il ciclo decennale. La formula dell’andamento ciclico dell’industria capitalistica moderna come di un periodo decennale non fu per Marx ed Engels negli anni tra il ’60 e l’80 altro che una semplice constatazione di fatti, che a loro volta non erano basati su alcuna legge naturale, ma su un complesso di determinate circostanze storiche, che erano in connessione con l’espansione saltuaria della sfera di attività del giovane capitalismo.

In realtà la crisi del 1825 fu il risultato dei grandi investimenti in costruzioni di strade, canali ed officine del gas, che avevano avuto luogo nel decennio precedente soprattutto in Inghilterra, come del resto anche la crisi stessa. La crisi successiva del 1836-1839 fu ugualmente conseguenza di imprese colossali per la costruzione di nuovi mezzi di trasporto. La crisi del 1847 fu notoriamente provocata dalle febbrili costruzioni di strade ferrate inglesi (tra il 1844 e il 1847, cioè in tre anni soltanto vennero assegnate dal parlamento concessioni per nuove ferrovie per circa un miliardo e mezzo di talleri!). In tutti e tre i casi furono dunque forme diverse del riassestamento della economia capitalistica, della fondazione di nuove basi per lo sviluppo capitalistico, che produssero come conseguenza le crisi. Nell’anno 1857 è l’improvvisa apertura di nuovi mercati di smercio perle industrie europee in America e in Australia in seguito alla scoperta di miniere d’oro, in Francia particolarmente è la costruzione di strade ferrate, per cui essa marcia sulle orme dell’Inghilterra (tra il 1852 e il 1856 furono costruite nuove ferrovie in Francia per un miliardo e 1/4 di franchi). Infine la grande crisi del 1872 è notoriamente conseguenza diretta della nuova organizzazione, del primo slancio impetuoso della grande industria in Germania ed in Austria, che seguì agli avvenimenti politici del 1866 e 1871. Fu dunque ogni volta l’improvviso estendersi del terreno della economia capitalistica e non il restringersi del suo campo d’azione, non il suo esaurirsi, che finora diede il via alle crisi.

Che quelle crisi internazionali si siano ripetute proprio a distanza di dieci anni, è un fenomeno puramente esteriore, casuale. Lo schema marxistico dello sviluppo delle, crisi, come fu descritto da Engels nell’Antidúhring e da Marx nel I e III libro dei Capitale, riguarda tutte le crisi soltanto in quanto mette in luce il loro meccanismo intimo e le loro cause generali profonde. Queste crisi possono ripetersi ogni dieci, ogni cinque, come pure ogni venti od otto anni. Ma ciò che dimostra nel modo più evidente l’inconsistenza della teoria di Bernstein è il fatto che la crisi più recente negli anni 1907-1908 ha infuriato proprio in quel paese dove sono più sviluppati i famosi “mezzi di adattamento” capitalistici: il credito, il servizio di informazioni ed i trust.

La supposizione che la produzione capitalistica possa “adattarsi” al commercio, parte da una di queste due premesse: o che il mercato mondiale aumenti illimitatamente e all’infinito o al contrario che le forze produttive vengano ostacolate nella loro crescita, in modo da non oltrepassare i limiti del mercato. La prima è fisicamente impossibile, all’altra si oppone il fatto che ad ogni passo avvengono trasformazioni tecniche in tutti i campi della produzione le quali svegliano ogni giorno nuove forze produttive. Ancora un fenomeno contraddice secondo Bernstein al corso sopra delineato del capitalismo: la “falange quasi incrollabile” delle medie imprese, sulla quale richiama la nostra attenzione. In ciò egli vede un segno che lo sviluppo della grande industria non produce effetti così rivoluzionari nel senso della concentrazione capitalistica, come ci si sarebbe dovuto aspettare in base alla “teoria del crollo”. Ma anche in questo egli è vittima di un malinteso. Sarebbe un comprendere dei tutto falsamente lo sviluppo della grande industria se ci si aspettasse che le medie industrie debbano scomparire gradualmente dalla scena. Nell’andamento generale dell’evoluzione capitalistica, proprio secondo l’assunto di Marx, i piccoli capitali rappresentano la parte dei pionieri della rivoluzione tecnica, da due punti di vista e cioè tanto in rapporto a nuovi metodi di produzione nelle branche antiche e consolidate, ben radicate, quanto in rapporto alla creazione di nuove branche di produzione non ancora sfruttate da grandi capitali. E’ completamente falsa l’interpretazione secondo la quale la storia della media impresa capitalistica vada in linea retta verso il suo graduale declino.

Il decorso reale dell’evoluzione anche qui è piuttosto dialettico e si muove costantemente tra due opposti. Il medio ceto capitalistico, si trova, proprio come la classe operaia, sotto l’influenza di due opposte tendenze, una che tende ad innalzarlo ed una che tende ad abbassarlo. La seconda è nel caso in questione il costante elevarsi del livello della produzione, che supera periodicamente i limiti dei capitali medi e li esclude sempre da capo dalla concorrenza. La prima è data dal deprezzamento periodico del capitale esistente, che abbassa sempre da capo per un lasso di tempo il livello della produzione a seconda della entità del necessario capitale minimo, come pure dall’estendersi della produzione capitalistica a nuove sfere. Il duello della media azienda col grande capitale non dev’essere immaginato come una battaglia regolare, nella quale la truppa della parte più debole si riduce sempre di più, direttamente e quantitativamente, ma piuttosto come una falciatura periodica dei piccoli capitali, che poi sempre rapidamente ricrescono per essere nuovamente falciati dalla falce della grande industria. Delle due tendenze che giocano a palla con il medio ceto capitalistico, in ultima analisi vince – in opposizione con lo sviluppo della classe operaia – la tendenza depressiva. Ma essa non ha assolutamente bisogno di manifestarsi nell’abolizione numerica assoluta della media azienda, bensì in primo luogo nell’aumento progressivo del capitale minimo, necessario alla sopravvivenza delle imprese nelle vecchie branche, in secondo luogo nel periodo di tempo sempre più breve durante il quale i piccoli capitali possono sfruttare per conto loro le branche nuove. Ne deriva per il piccolo capitale individuale un periodo di vita sempre più breve e un trasformarsi sempre più rapido dei metodi di produzione e dei modi d’impiego, e per la classe nel suo complesso un ricambio sociale sempre più rapido. Quest’ultimo fatto Bernstein lo sa assai bene e lo stabilisce egli stesso. Ma sembra dimenticare invece che in tal modo è stabilita anche la legge medesima del movimento delle medie aziende capitalistiche. Se i piccoli capitali sono le truppe di avanguardia del progresso tecnico, e se il progresso tecnico è il polso vitale dell’economia capitalistica, i piccoli capitali costituiscono evidentemente un fenomeno collaterale inseparabile dallo sviluppo capitalistico, che può scomparire soltanto insieme con quest’ultimo. La scomparsa graduale delle medie aziende – nel senso della statistica assoluta sommaria di cui parla Bernstein – significherebbe non, come Bernstein pensa, il processo di sviluppo rivoluzionario del capitalismo, ma proprio al contrario il suo ristagnare e il suo intorpidirsi.”Il saggio del profitto, ossia l’incremento proporzionale di capitale, è particolarmente importante per tutti i capitali di nuova formazione che si raggruppano indipendentemente. E non appena la formazione di capitale diventasse monopolio di pochi grandi capitali già affermatisi ( … ) si spegnerebbe il fuoco vivificatore della produzione equesta cadrebbe in letargo.”[2]

Note:

[1] In una nota al III libro del Capitale [trad. it. Roma, 1970, 111. pp. 157-158] F. Engels scrisse nel 1894: “Dal tempo in cui quanto sopra è stato scritto (1865), la concorrenza è considerevolmente alimentata sul mercato mondiale in conseguenza del rapido sviluppo dell’industria in tutti i paesi civili, particolarmente in America e in Germania. Il fatto che le moderne forze di produzione, nel loro rapido e gigantesco incremento, sopravanzano ogni giorno di più le leggi dello scambio capitalistico delle merci – nell’ambito delle quali esse avrebbero dovuto operare – s’impone oggi sempre più alla coscienza degli stessi capitalisti. Ciò viene dimostrato in special modo da due sintomi: in primo luogo dalla nuova, generale mania protezionista, che differisce dal vecchio protezionismo soprattutto in quanto protegge principalmente proprio gli articoli suscettibili di esportazione; in secondo luogo dai cartelli (trusts), costituiti da fabbricanti di intere, grandi categorie di produzione, tendenti a regolare la produzione stessa, e quindi i prezzi e i profitti. E’ evidente che tali esperimenti sono possibili soltanto quando la situazione economica è relativamente favorevole; la prima crisi li travolge, dimostrando che. anche se è necessario che la produzione sia regolata non è certo la classe capitalistica che è adatta ad assolvere tale compito. Frattanto, questi cartelli hanno il solo scopo di far sì che i piccoli siano divorati dai grandi anche più rapidamente di quanto è avvenuto finora” (n.d.a.).

[2] K. MARX, Das Kapital, III1, p. 241 [trad. it. III, p. 312 (n.d.a.).