Guida alla lettura
Il fallimento dello “sciopero legalitario” nell’agosto del 1922, convocato dall’Alleanza per il Lavoro, di cui fanno parte Cgl e Psi, apre definitivamente le porte al colpo di Stato fascista. Lo sciopero “legalitario” è stato convocato senza alcuna preparazione, dando l’indicazione agli operai di non rispondere alla “violenza fascista”. Con l’unica eccezione di Parma, il movimento operaio è travolto ulteriormente dalla violenza fascista che stronca lo sciopero. Per un anno e mezzo i fascisti hanno ucciso, incendiato, manganellato, spadroneggiato coperti dalla “legalità” dello Stato. Di fronte a questo l’unica consegna che emerge da parte delle direzioni sindacali è quella di rispettare la legalità. Come dice Turati, dirigente della corrente di destra del socialismo, “bisogna avere il coraggio di essere vili”.
Questo atteggiamento spiana la strada alla Marcia su Roma. Eppure, anche in una situazione così favorevole, il movimento fascista non potrebbe aspirare al potere se non avesse la collaborazione attiva dei poteri forti del paese. Ed eccoli quindi, descritti magistralmente in questo capitolo, “lor signori” aprire le porte del Governo a Mussolini. Sono i liberali riuniti a Congresso, sono i monarchici, sono i prefetti, i Carabinieri, i massoni, il Corriere della Sera, la Stampa, i professori e gli agrari, i ceti medi rovinati e la grande finanza arricchita, gli industriali che strumentalizzano il bottegaio: sono loro a spingere inesorabilmente Mussolini al potere.
La Marcia su Roma, prima parte
Dopo lo sciopero “legalitario”, i partiti e gli uomini politici pensano di avere qualche mese di tempo per adattarsi alla nuova situazione e preparare le loro combinazioni per la sessione parlamentare dell’autunno, in cui infine tutto si deciderà. Se Giolitti è intervenuto alla fine di luglio per salvare Facta, è perché egli conta di prendere il potere dopo le vacanze e fare, nella primavera seguente, le nuove elezioni generali, dopo aver soppressa la proporzionale, allo scopo di ridurre fortemente socialisti e popolari. Un governo di coalizione diventerà in tal modo possibile e i socialisti, o almeno qualche capo della C.G.L., non domanderanno di meglio che parteciparvi. Questo piano, insomma, mira a ricominciate l’operazione già tentata nel maggio 1921, e che questa volta potrà riuscire, grazie ai progressi dell’offensiva fascista, alla nuova scissione socialista – ormai certa – ed al ritorno allo scrutinio maggioritario. Così, allorché il secondo ministero Facta si presenta dinanzi alla Camera, il 9 agosto, ottiene facilmente la maggioranza. Questo governo, pur avendo lasciato da parte fascisti e socialisti, è una vera veste d’Arlecchino: comprende amici di Giolitti e di Nitti, popolari e socialisti “nazionali”, democratici sinceri come Amendola ed elementi dell’estrema destra come Riccio. Riflette proprio il caos ch’esso dovrebbe dominate: nulla ha d’un governo forte, giacché delle debolezze che si tollerano e si sovrappongono non fanno una forza. I fascisti intervengono nella discussione sulla dichiarazione ministeriale, ma questa volta Mussolini ha incaricato un deputato di terz’ordine di esporre il suo punto di vista.
Dario Lupi pone, nel discorso che gli è stato preparato, I’alternativa seguente: “Lo Stato assorbirà il Fascismo o il Fascismo si sostituirà allo Stato”. Con ciò vuol dire che il fascismo è disposto a inserirsi nello stato, a sottomettersi alla legalità prendendo la sua parte di responsabilità del potere? Era la tesi di Mussolini ancora in aprile, ma ora le stesse formule non hanno più lo stesso senso. Lupi è incaricato di spiegarlo: il fascismo non vuole certo uguaglianza di diritti nel quadro di uno stato che, con il suo arbitrato, assicurerebbe questa uguaglianza a tutti i partiti e a tutti i cittadini.’Il fascismo respinge la concezione di uno stato chiuso “entro gli assurdi confini di una aprioristica neutralità”: il partito si inserirà nello stato se lo stato diverrà uno stato di partito.
Lo stato deve fare una politica fascista: “per superare l’immensa crisi nazionale che ci travaglia – dichiara Lupi – bisogna risolutamente affrontare e debellare i nemici della Nazione. Se a questo voi, uomini del Governo nuovo, non saprete energicamente provvedere, nulla potrà impedire che il Fascismo affretti, con ogni sua mossa, e a costo di qualsiasi sacrificio, il compito nazionale commessogli da Dio e dal destino “. È facile riconoscere in questa conclusione lo stile stesso di Mussolini.
Mentre due anni fa sputava su “tutti i cristianesimi”, ora invoca Dio – lo fa invocare dal suo portavoce, nel momento stesso in cui annuncia la sua intenzione di non arrestare punto l’offensiva antisocialista e antioperaia. Questa invocazione a Dio – che accompagna l’invocazione al destino, giacché ci vuole anche un “dio” o per coloro che non credono in Dio – è lanciata per disarmare il Vaticano, e ben presto darà i suoi frutti.
Due giorni dopo si apre a Milano il Consiglio nazionale del Partito fascista, per esaminare la situazione. Il segretario- generale del partito, Michele Bianchi, dichiara che gli ultimi avvenimenti hanno mostrato nel fascismo “una forza superiore a quella che si immaginava… La vittoria nostra è stata strepitosa, assoluta, superiore a tutte le previsioni”. Tutti sono d’accordo con Bianchi e Mussolini su questo punto: il fascismo deve divenire lo stato, sia per vie legali grazie a nuove elezioni, sia, se occorre, per mezzo dell’azione diretta. La presa del potere è ormai una necessità. Le impazienze di Mussolini coincidono ora con le esigenze del movimento fascista. Il fatto è che la ‘ distruzione delle organizzazioni socialiste ha messo sulle braccia del fascismo nuove decine di migliaia di lavoratori, di cui non sa che farsi. Il fascismo ha, nella misura stessa del suo trionfo, ereditati tutti i problemi pratici che erano la materia dell’attività dei sindacati liberi. Esso può, grazie al terrore, scartare e rinviare una parte di questi problemi, ma ve ne sono che non si possono eludere.
L’offensiva politica ha spinto il fascismo verso il sindacalismo, ed il sindacalismo a sua volta spinge il fascismo alla conquista dello stato. La preoccupazione di poter disporre delle risorse dello stato domina la discussione del Consiglio nazionale. Farinacci insiste sui pericoli che correranno, l’inverno prossimo, i sindacati fascisti a causa della disoccupazione. Grandi pone, in una intervista al “Giornale d’Italia”, lo stesso problema in termini più precisi. Dopo aver constatato che lo sciopero generale ha creato una-situazione “per la quale non offriremo sufficienti titoli di gratitudine per i nostri nemici “, egli prosegue:
“Accanto al Fascismo si sta creando una forza passiva, ma numericamente impressionante. Voglio parlare dei nostri organizzati operai, che oggi superano i settecentomila… Il prossimo inverno può riservare per tutti, non esclusi noi, delle sorprese di cui nessuno può per ora valutare la portata. Oggi ci troviamo di fronte a una insurrezione di ceti medi, ad una rivoluzione politica in atto. Occorre ricordare che vi è una crisi sociale in potenza che si sta innestando nella prima. Non dico cosa potrebbe succedere, se i due fenomeni si trovassero a confluire all’improvviso, prima di avere noi condiviso la responsabilità dello stato”.
Questo miscuglio di preoccupazioni, di minacce e di ricatto ottiene i1 suo effetto. Il fascismo si presenta alla borghesia italiana come la sola forza capace “di assorbire le forze antistatali nell’orbita degli istituti liberali” senza che si sia costretti a passare per la collaborazione socialista e pagarle una taglia. “Il nostro collaborazionismo – assicura Grandi – ha tutti i vantaggi e nessuno dei pericoli della collaborazione socialista. Bisogna che il Fascismo sia chiamato al più presto alle dirette responsabilità di governo. Bisogna fare le elezioni generali in novembre”.
L’alternativa: legalità o insurrezione, che Mussolini e il fascismo pongono, non riguarda che i mezzi, giacché lo scopo è univoco: arrivare al potere. Mussolini è riuscito a persuadere Grandi ed i suoi amici -i deputati soprattutto – che è più conveniente profittare della via “legale” e che, seguendola, vi sono tutte le probabilità d’arrivare. Quasi tutti i partiti – dai popolari ai nazionalisti – desiderano la partecipazione dei fascisti al governo o vi si rassegnano, pur proponendosi di ridurli a una congrua porzione. Ma Mussolini non accetterà più che mai – e soprattutto ora che le squadre fasciste non sono più lontane da Roma – un ruolo di semplice luogotenente.
Vi è soprattutto un ministero che egli agogna, che considera come il suo, quello degli Esteri, dato che desidera farsi consacrare al di là delle frontiere. Egli sente pesare su l’Europa l’ipoteca del Trattato di Versàilles, le “utopie” della Società delle Nazioni. L’Inghilterra è il più temibile guardiano di questo “sistema”: è contro di essa, è contro le potenze “conservatrici” che l’Italia deve prendere posizione. Questa idea possiede lo spirito di Mussolini e diviene in lui una monomania, un’ossessione.
Egli si dichiara sempre più revisionista e antibritannico. Nel giugno 1922 ha fatto votare dal Gruppo parlamentare fascista un ordine del giorno ostile alla ratificazione dei mandati sulla Siria, il Libano e la Palestina. Egli cerca di opporre I’Egitto all’Inghilterra. A metà di luglio, segnala con orgoglio nel “Popolo d’Italia” un ordine del giorno del Comitato nazionale arabo che si felicita per l’attitudine presa in Italia dalla stampa fascista e nazionalista sui problemi del Vicino Oriente. “Come si vede – scrive a questo proposito – noi abbiamo delle buone carte da giocare nell’Oriente mediterraneo”, e soprattutto quella del “nazionalismo arabo in pieno sviluppo. Alcuni diplomatici italiani si ostinano ancora in una politica anglofila, “per. conto di non si sa chi”, ma “tutto ciò finirà presto”. In agosto, il Consiglio nazionale del Partito fascista vota un ordine del giorno in cui propone “di impedire con ogni mezzo la ratifica” delle convenzioni italo-iugoslave di Santa Margherita e di Roma. Il 28 dello stesso mese, Mussolini denuncia ancora una volta il ministro Schanzer, che “ha alienato alla Società delle Nazioni l’autonomia della politica estera italiana. Il 6 settembre, a proposito degli avvenimenti dell’Asia Minore, egli reclama che la politica estera italiana, “abbandonando definitivamente vacue ideologie, agisca sul terreno concreto della realtà disimpegnandosi una buona volta dalla sudditanza inglese!”. Più tardi, il 10 ottobre, quattro settimane prima della marcia su Roma, egli precisa il senso della ostilità contro l’Inghilterra e contro la Società delle Nazioni:
“Per quattro anni interi, dall’armistizio in poi l’Inghilterra ha perpetrato la più grande mistificazione politica che sia lecito pensare ai danni dell’Europa e del mondo. È da Londra che il ricostruzionismo è stato bandito come i1 dogma del dopo-guerra… Giova subito dire che noi, come non abbiamo mai riposto fede in questa austera società d’imbroglioni che siede ancora a Ginevra senza avere nemmeno una vaga nozione del ridicolo che la circonda, così non abbiamo mai creduto al. pacifismo inglese, a tutte le famose ideologie societarie che ci venivano dal mondo anglo-sassone….Bisogna prepararsi all’eventualità di fare una politica praticamente anti-inglese. Non è un interesse italiano contribuire al mantenimento dell’impero inglese. Interesse italiano è collaborare a demolirlo”.
Vi è tra questa politica estera e la lotta di Mussolini per il potere uno stretto legame di causa ad effetto, al tempo stesso ideologico e pratico. L’odio contro il wilsonismo, contro la ricostruzione europea, e l’odio contro il socialismo e la democrazia all’interno del paese si condizionano reciprocamente: l’uno è in funzione dell’altro, la trasposizione dell’uno con una scala diversa. Il passaggio è evidente e facile a comprendersi.
“Il secolo della democrazia è finito, – scrive Mussolini il 19 agosto – Le_ ideologie democratiche sono liquidate. prima fra le altre l’ideologia del “progresso”… Ora un secolo aristocratico – l’attuale – succede a quello scorso, democratico. Lo Stato di tutti finirà per tornare lo Stato di pochi. Le nuove generazioni inibiscono alla democrazia di sbarrare, colla sua mole ormai cadaverica, le strade dell’avvenire”.
Mussolini precisa poco dopo, il 17 settembre, ancora una volta:
“Quello che ci separa dalla democrazia non è il programma, poiché ormai tutti i programmi si rassomigliano, ma è la nostra concezione dello sviluppo futuro della storia, dalla qual concezione discende Ia nostra mentalità e i[ nostro metodo… Noi siamo sempre più convinti che il mondo va a destra, cioè verso concetti e istituzioni di destra, soprattutto nel segno dell’anti-socialismo…Noi siamo sempre più convinti che occorre, per salvarci, ristabilire un ordine, anche attraverso la più inverosimile reazione… La democrazia ha della vita una concezione politica, il Fascismo ne ha una prevalentemente guerriera. La massa è gregge, e come gregge è in balìa di istinti e di impulsi primordiali. È preda di un dinamismo abulico, frammentarlo, incoerente. E’ materia, insomma. La massa non ha domani. Bisogna, dunque abbattere dagli altari eretti d1 dèmos, “Sua Santità la Massa. Il che non significa che non si debba curare il suo benessere. -Anzi! Si potrebbe a tal proposito accertare l’affermazione di Nietzsche, il quale chiedeva che si desse alla massa tutto il benessere possibile, perché non turbasse coi suoi lamenti e tumulti le manifestazioni più alte – quelle ascendenti dello spirito”.
Nella democrazia iI popolo, almeno in principio, è il soggetto. Nella concezione fascista esso è la massa, l’oggetto, -materia prima che deve essere plasmata, ma che deve rimanere materia. E dal momento che il popolo perde ogni esistenza autonoma, ogni auto determinazione, diventa alimento e strumento della “volontà di potenza”. Il fascismo è l’accampamento dell’orda contro la città, ma un accampamento di nuovo genere, dove vi sarà una disciplina di ferro, dove i treni arriveranno in orario, dove nessuno sfuggirà alla mobilitazione dei corpi e degli spiriti. Un’orda che sarà un esercito, un esercito moderno e dinanzi a cui proprio la città apparirà orda e confusione.
La guerra moderna è una guerra di masse, che impegna tutte le risorse di un paese. La dittatura diventa una necessità, giacché bisogna smuovere le masse con la costrizione, isolandone ed esasperandone gli istinti, i riflessi che la vita sociale, la città, la democrazia avevano attenuati, risospinti e imbrigliati. Sicché la lotta per trascinare un popolo a non subire ed a non conoscere altro che la legge di guerra esige la distruzione materiale delle istituzioni, punto d’appoggio di una evoluzione lenta, difficile, che con esse si consolida. Privare il popolo dei suoi comuni, dei suoi sindacati, delle sue cooperative, in una parola delle sue libertà reali, significa ricacciarlo indietro facendolo scivolare su una china, ove si è strappato tutto ciò che poteva trattenerlo nella sua caduta. Per conservare la massima libertà di movimento, il fascismo deve sopprimere tutte le libertà e sostituire i legami creatori di costumi con dei legami che garantiscano una passività totale. Mussolini ha ben compreso che per imporre all’Italia una “mentalità guerriera” egli doveva distruggere la democrazia e, soprattutto, il suo solo e più serio sostegno: il movimento operaio e socialista. Socialisti e popolari, i due grandi partiti di massa e che riflettono le aspirazioni delle masse, sono sinceramente pacifisti. In nessun luogo Wilson, nel suo viaggio in Europa, ha ricevuto un omaggio più spontaneo e più disinteressato che in Italia. Per fare di questo popolo un popolo “guerriero” occorreva “sterminare” la democrazia e il socialismo. Occorreva aI fascismo non solo il potere, ma tutto il potere. Il movimento fascista prende sempre più, nel corso della sua impetuosa formazione, un carattere militare, prefigurazione delle forme di organizzazione e di vita che i suoi capi imporranno in séguito alla nazione italiana.
Affinché la nazione sia una caserma occorre che il fascismo cominci coll’essere una caserma. A coloro che attendono un indebolimento, una crisi del fascismo in ragione del suo reclutamento larghissimo, Mussolini il 26 agosto risponde: “Il fiume del Fascismo continua ad alzare il livello delle sue acque, che hanno già abbattuto parecchi argini e strariperanno fra poco ovunque. Ora ecco i nostri nemici che fingono di rallegrarsi di questo imponente e rapido crescete delle nostre forze e sperano di vederle con la stessa rapidità, disperdersi e morite”. Ma il Partito fascista non è un partito come tutti gli altri; non vi si discute, non vi si possono formare delle “tendenze”, le scissioni non sono da temersi. “Il Fascismo è tutt’altra cosa. I suoi iscritti sono, prima di tutto, soldati. La tessera equivale al piastrino di riconoscimento. Le gerarchie d’ordine politico-militare sono ormai ferreamente costituite, La disciplina d’ordine militare comprende quella d’ordine politico. Le reclute del Fascismo vengono inquadrate, selezionate. Essendo giovani chiedono di combattere, non di discutere. Dato questo nostro tipo di organizzazione, i pericoli del proselitismo sono infinitamente attenuati.” Un anno prima Mussolini affrontava la crisi interna del partito puntando sull’elemento “politico” contro gli elementi “militari”; ora si rallegra che I’organizzazione fascista sia militare nei suoi quadri, nel suo funzionamento e nel suo spirito, come dev’essere un esercito di occupazione. Tanto più che questa forza ha in suo favore non solo la debolezza, la miopia e le illusioni dei suoi avversari, ma anche I’appoggio concreto e positivo di una coalizione di interessi: al centro la feudalità terriera e con legami più o meno diretti, le caste più reazionarie della società italiana: l’alta banca – specie i banchieri della società italiana: l’alta banca – i banchieri improvvisati – la grande industria – e specie l’industria di guerra – alcuni quadri dell’esercito, il Vaticano.
Il movimento fascista è tutto occupato, fra agosto e la fine di ottobre a utilizzare le conseguenze dirette della vittoria riportata in occasione dello sciopero generale. A Genova il senatore Ronco, presidente del consorzio del porto, finisce per dare le sue dimissioni ed il governo sanziona l’opera del “Comitato d’azione fascista”. Il 15 agosto il Consiglio comunale di Cremona è disciolto; un mese avanti il primo Gabinetto Facta era stato rovesciato per non avere preservata la città dalle violenze dei fascisti; ora il secondo Gabinetto Facta consacra queste violenze con il decreto di scioglimento. Due settimane dopo è il Comune di Milano che subisce la stessa sorte: 1à pure lo stato non fa che “legalizzare” l’occupazione del Palazzo Marino le. Alla fine d’agosto è la volta della città di Treviso a, che i fascisti già avevano attaccata nel luglio del 1921. All’inizio del settembre i fascisti si impadroniscono di due posizioni strategiche che devono servire loro per la marcia su Roma: Terni in Umbria, e Civitavecchia a qualche decina di chilometri dalla capitale.
Dal luglio le grandi acciaierie di Terni sono chiuse perché mancano le ordinazioni statali. I sindacati “rossi” hanno avuta l’assicurazione che le officine saranno riaperte il 10 settembre. Ma i dirigenti delle acciaierie di Terni sono in combutta con i fascisti. Il 10 settembre, malgrado gli impegni presi, le sirene rimangono silenziose. I fascisti venuti da ogni angolo dell’Umbria e delle Marche occupano e terrorizzano la città. Il Comitato fascista di azione fa affiggere il manifesto seguente: “Bugiardi secondo il loro costume, i socialisti avevano promesso per oggi l’apertura delle acciaierie. L’apertura non è avvenuta. Vili secondo il loro costume ma non capaci di confessare la loro viltà, i socialisti non avevano promesso una cosa che invece è avvenuta: la loro fuga”. Il deputato socialista Nobili che è rimasto nella città è “punito” a colpi di manganello: le due Camere del lavoro, la confederale e la sindacalista, sono incendiate.
Ugualmente sono distrutti i circoli socialista e comunista dei dintorni. Terminata così l’operazione, la Direzione della acciaierie decide la ripresa del lavoro: d’ora innanzi essa non tratterà che con i “ sindacati” fascisti.
A Civitavecchia, dove nelle elezioni del 1920 i socialisti hanno conquistato il Municipio, il movimento fascista 1ocale è insignificante. Nel 1921 i fascisti di Roma hanno tentato più volte di penetrare nella città, senza riuscirvi. I1 4 agosto 1922, ancora durante lo sciopero generale, i fascisti della Maremma “dopo precedenti accordi con i fascisti della città sono entrati in Civitavecchia. Ma l’azione, sebbene ben concepita e ben diretta, è fallita”. Chiurco non da altri dettagli ed accusa il sotto prefetto della città di avere causato il fallimento con la sua “ostilità contro i fascisti”; il che significa che questo funzionario non ha aiutato con tutti i mezzi, come accadeva sempre, gli squadristi. Costoro in numero di circa 400 hanno occupato la stazione appena arrivati, dopo essersi abbandonati prima di discendere dal treno ad una grande sparatoria per allontanare ed intimorire i ferrovieri. La forza pubblica, che avrebbe dovuto proteggere la città, è rimasta passiva perché il colonnello comandante la scuola militare locale si è messo alla testa dei fascisti ed ha forzato con essi i cordoni della polizia. Dato l’allarme, i lavoratori del porto e quelli dei quartieri popolari sono accorsi verso il centro della città incontro ai fascisti. Dei carabinieri hanno cercato di disarmarli, ma hanno dovuto rinunciarvi dinanzi all’atteggiamento deciso della folla. La battaglia si è impegnata. Gli invasori, non spalleggiati questa volta dalla forza pubblica, hanno ripiegato sconcertati dall’attacco, e si sono messi in salvo nelle strade vicine, malgrado le esortazioni dei loro capi, che li insultavano e cercano di spingerli col calcio del fucile. Infine, sotto la protezione delle truppe accolse, le squadre si sono ritirate e hanno lasciato la città, abbandonandovi un morto e sei feriti. Una rivincita si imponeva. All’inizio del settembre la concentrazione è più importante ed i fascisti arrivano dalla Maremma toscana, da Roma e anche da Pisa. Altre squadre vengono dalla campagna romana, da Orvieto e da tutta l’Umbria. Il 4, malgrado la resistenza operaia, i fascisti entrano nella città: l’amministrazione socialista è dimissionaria e le organizzazioni del porto accettano le condizioni poste dai vincitori.
I fascisti continuano a sommergere i pochi nuclei di resistenza operaia e ad imporre la loro volontà. Il 7 settembre, per esempio, in séguito all’arresto di otto fascisti a Massa, racconta Chiurco, “si concentrano nella città i fascisti della zona; dirige l’azione Renato Ricci, è presente Edmondo Rossoni della Direzione del P.N.F. Più di seimila Camicie nere sfilano in perfetto equipaggiamento di guerra per le vie della città. Scade nella giornata il termine posto alle autorità per la liberazione degli arrestati.
L’8 settembre la mobilitazione fascista è estesa a tutta la Lunigiana; e nella mattina sfila per la città una interminabile colonna con alla testa la cavalleria fascista e la musica. Intanto i giudici istruttori e altri magistrati si affrettano a interrogare altri testimoni, cosicché alle 15 circa gli arrestati vengono posti in libertà”.
Ancora in settembre, i fascisti se la pigliano con Molinella, vicino a Bologna, grosso centro rurale dove la popolazione operaia, sotto la direzione del sindaco Giuseppe Massarenti, è tutta socialista. L’autorità pubblica ha preso importanti misure per impedire che i fascisti di fuori possano avvicinarsi al paese. I1 Fascio locale e gli agrari sono furiosi ed esigono che questo “scandalo” cessi Mussolini li appoggia protestando nel “Popolo d’Italia” contro questa “goffa commedia”.
“La situazione – spiega Chiurco – resta la stessa per molti giorni. Il Direttorio del Fascio protesta contro le eccessive misure di P. S. che si possono definire stato d’assedio e dalle quali proviene un’ingiustificata diminuzione di libertà ai cittadini onesti; gli agricoltori proclamano la serrata contro la mano d’opera socialista, alla quale poi aderiscono gli industriali e i commercianti. I fascisti occupano il paese”. Un mese dopo occuperanno il Municipio 27. Questi non sono che alcuni episodi tra migliaia di altri che ogni giorno si rinnovano – soprattutto la domenica – e ovunque.
Quali sono in questo periodo le reazioni e le vicende dei diversi partiti?
Nel movimento operaio lo sbandamento è cominciato. Prima che sia finito il mese di agosto il Sindacato nazionale dei ferrovieri e I’Unione sindacale italiana sindacalista – si separano dall’Alleanza del lavoro: gli “estremisti” che avevano forzato la mano al Comitato delazione per la proclamazione dello sciopero sono i primi a lasciar la barca che fa acqua. La Federazione del libro, che è molto a “destra” dichiara qualche giorno dopo che essa “si riserva di deliberare di volta in volta la partecipazione agli scioperi politici”, vale a dire che essa non riconosce più il Patto di alleanza con la C.G.L. – alla quale essa aderisce – e il Partito socialista. Il 6 ottobre la C.G.L. denuncia questo Patto e dichiara la sua autonomia. Il Patto aveva subordinato l’azione sindacale all’incapacità del partito politico, ed era stata una delle cause della disfatta operaia; ma, in questo momento, la decisione della C.G.L. non può significare che una ritirata precipitosa davanti al nemico, di cui si eseguono le intimazioni, nell’illusione che gridando “si salvi chi può”, si potranno limitare i danni ed evitare la rovina totale.
La lotta delle tendenze in seno al Partito socialista continua tra agosto e ottobre. Il 28 agosto, la frazione di destra, detta “concentrazionista” – ultimo omaggio al fantasma dell’unità di partito – redige un appello in cui prende nettamente posizione per la legalità e la collaborazione al governo 31. La rottura, virtuale da diversi mesi, si traduce con una nuova scissione al Congresso nazionale socialista, che si tiene a Roma all’inizio dell’ottobre.
Dalla fine del 1920, il Partito socialista ha perduto per strada una buona parte dei suoi effettivi, ridotti a 71.000, di cui 61.000 sono rappresentati al Congresso. La Direzione massimalista propone l’espulsione dei “concentrazionisti”, fondandosi su parecchi capi d’accusa, di cui il primo e il principale è il seguente: “manovre intese a partecipare alla soluzione di crisi ministeriali, promettendo eventuali appoggi a Governi”. Ai voti, i massimalisti la spuntano, con una debole maggioranza: 32.106 contro 29.119 le due tendenze, come a Livorno quasi si equilibrano. Ciò che vi è di drammatico in questa scissione, è che essa appare più che mai “una scissione per nulla”. La nuova maggioranza del partito non diverrà certo, pel fatto d’essersi separata dai “riformisti”, meno debole e meno incapace. Il discorso che il suo capo, Serrati, pronuncia al Congresso, rivela una spaventosa incomprensione della situazione: “Voi dite – rivolgendosi ai riformisti – che v’è un mezzo per intervenire nella soluzione della crisi borghese, cercandovi dei piccoli vantaggi, come facevamo nel 1912. Voi cercate l’alleanza con i democratici e dite che il socialismo pure è democratico. Ma il socialismo è la democrazia proletaria, cioè la vera democrazia, mentre l’altra è la democrazia borghese, cioè la falsificazione della vera democrazia… Che tutti coloro che vogliono lavorare per la rivoluzione vengano con noi, che tutti coloro che vogliono impedire la rivoluzione vadano con la borghesia”. In realtà Senati continua con i riformisti la sua polemica d’anteguerra, e tutti gli avvenimenti del 1919-1,922 sono passati sulla sua testa senza nulla cambiarvi. Il problema che i socialisti di destra avevano posto – ed è loro indiscutibile merito d’averlo posto e loro colpa di non averlo posto prima, e con più coraggio – non era quello di “cercare dei piccoli vantaggi”, ma di salvare con la democrazia “borghese” la democrazia tutta, le condizioni stesse d’esistenza e di sviluppo del movimento operaio e socialista. All’inizio dell’ottobre 1922 – e anche prima – non si trattava più di impedire o di non impedire “la rivoluzione”, ma di impedire o di non impedire la vittoria del fascismo ed il suo arrivo al potere. Le teste di legno dei massimalisti italiani non si erano ancora accorte di questo neppure quattro settimane prima della marcia su Roma.
Da parte dei “riformisti” che ora hanno riacquistata la loro libertà, la situazione non è meno drammatica. Che farsene di questa libertà di cui dispongono? La rottura del gennaio 1921, con i comunisti e quella dell’ottobre 1922 con i massimalisti costituiscono nello stesso tempo una rottura con una troppo grande parte delle masse, sicché la nuova politica, anche se ancora possibile, non avrebbe più a sua disposizione, nel Parlamento e nel paese, che delle forze molto ridotte. L’articolo dell’organo riformista, citato alla fine del capitolo precedente, dopo aver notato che la soluzione collaborazionista e quella dello sciopero generale erano state adottate “troppo tardi”, giunge alla seguente conclusione: “La causa di questo ritardo devesi ricercare nel profondo dissenso di metodo che ancora travaglia il partito socialista. Il Congresso di Roma deve avere il coraggio di stracciare il programma di Bologna del 1919 per ritornare al programma di Genova del 1892.
Questo “ritorno ai princìpi” avrebbe davvero permesso di fronteggiare al situazione, dinanzi a cui ci si trovava nell’ottobre 1922? Non rischiava anche esso di essere insufficiente e di arrivare “ troppo tardi “?
Non è che, anche dopo l’agosto 1922, la vittoria del fascismo fosse assolutamente fatale. Senza dubbio 1o sciopero generale ha avuto delle conseguenze quasi irreparabili.
Tuttavia il fascismo resta ancora e malgrado tutto un esercito d’occupazione. Le adesioni piovono, fanno valanga, ma non costituiscono una massa compatta e non sono, e sono ben lontane dall’esserlo, la nazione. Ciò che ormai non è più possibile è una lotta vittoriosa condotta sotto la bandiera dell’antifascismo. Sarebbe stato necessario opporre al fascismo non il semplice antifascismo, ma la nazione stessa. Ora, anche i riformisti impastoiati da vecchie abitudini, e paralizzati dal desiderio di non allontanarsi troppo dalie masse e di salvaguardare almeno l’unità sindacale, non possono spingersi fin là. Sono vagamente consci che occorrerebbe cercare un’uscita in questa direzione, ma quasi se ne vergognano; balbettano delle formule nuove che stonano ai loro orecchi e cercano farle passare di sghembo, con enfasi letteraria, alla luce “fumosa” e vacillante della sacra lampa. La nazione resta anche per essi un “mezzo”, un mezzo di fortuna escogitato ed afferrato all’ultimo momento per salvarsi da un avversario che li incalza con la spada alle reni. Tra questa “nazione” e la “classe” operaia, lo iato non è riempito, giacché la classe operaia non arriva a capire, dopo tanti anni di propaganda fatta sotto la parola d’ordine: “rosso contro tricolore”, quale possa essere il suo posto in questa “nazione”, e perché dovrebbe raggiungere le nuove posizioni. D’altra parte i fascisti non vogliono farsi portar via il monopolio del “patriottismo”. A destra si grida alla trappola, a sinistra si grida al tradimento.
Per rompere questo cerchio, sarebbe stato necessario che la classe operaia, unita, si fosse posto il problema di creare un governo, non solo per liquidare il fascismo, ma anche per costruire un’Italia nuova. La liquidazione del fascismo, del resto, si sarebbe potuta ottenere solo a questo prezzo. La classe operaia non poteva difendere i suoi diritti, che compiendo fino all’ultimo i suoi doveri di fronte a se stessa e di fronte alla collettività, di cui avrebbe dovuto diventare la chiara coscienza, l’ala marciante.
Dovere, responsabilità, iniziativa tale era il prezzo della libertà. Solo a questa condizione il fascismo avrebbe potuto essere spazzato via nel secondo semestre del 1922.
Tra l’agosto e la fine di ottobre, il movimento fascista accelera il suo ritmo con una serie di congressi politici e sindacali, di mobilitazioni e di adunate. Congressi provinciali o regionali dei Fasci hanno luogo a Pescara (per gli Abruzzi), a Rimini (per le Romagne), a Pola (per I’Istria), a Porto Maurizio, a Tolentino (per la provincia di Macerata), a Avellino, a Ferrara, a Modena, a Iglesias (per la Sardegna), a Foggia, Messina, Como, Parma, Vicenza, Siena, Pesaro (per le Marche)… congressi di sindacati fascisti sono tenuti a Padova, Arezzo, Torino, Genova (per l’organizzazione dei marittimi), a Livorno, a Ravenna, a Andria (per tutte le Puglie)…
Il partito inoltre organizza delle grandi adunate regionali, dove si riuniscono delle decine di migliaia di Camicie nere: il 20 settembre ad Udine, a Novara, a Piacenza, il 24 a Cremona, il 29 ad Ancona. Tutte queste dimostrazioni servono a addestrare le milizie ed a fare pressione sul governo. I fascisti nello stesso tempo si propongono uno scopo più preciso, sul duplice piano territoriale e politico.
Due regioni sono ancora sottratte al controllo fascista: il Mezzogiorno – salvo le Puglie – e la zona che gli italiani chiamano Alto Adige e gli austriaci Sud-Tirolo. La questione della penetrazione fascista nel Mezzogiorno è sollevata al Consiglio nazionale di Milano (13 agosto), che decide di convocare una speciale riunione “per concretare tutto un piano d’azione politico-economico-militare” destinato a questa parte dell’Italia. Mussolini dà una intervista al “Mattino” di Napoli, in cui fa l’elogio dei lavoratori del Mezzogiorno “meno toccati dalla lue sovversiva, e del Mezzogiorno stesso “che è la grande riserva demografica della nazione. Quindi riserva di braccia, quindi una riserva inesauribile di soldati”, e annuncia che il prossimo Congresso del P.N.F. si terrà il 24 ottobre a Napoli. La Conferenza dei delegati del Mezzogiorno – prevista dal Consiglio nazionale ha luogo a Roma, il 6 e il 7 settembre. Sí tratta, per il fascismo, di neutralizzare in questa parte d’Italia le forze politiche assai importanti, che forniscono un gran numero di eletti ai gruppi della “democrazia”, da Nitti ad Amendola.
Queste forze sono profondamente radicate grazie alle clientele locali, e in certe regioni, come in Sardegna, esse manifestano delle tendenze all’autonomia e trascinano i movimenti dei combattenti ed alcuni elementi della piccola borghesia verso nuovi partiti (Partito sardo d’azione), lungi dal fascismo.
Nelle terre “redente” della valle dell’Adige, gli “allogeni tedeschi” formano la gran maggioranza della popolazione: l’ “Alto Adige” ha mandato alla Camera, nelle elezioni del marzo 1921, quattro deputati, tutti tedeschi; 1à dove l’elemento italiano prevale, come a Trento, le amministrazioni sono in mano ai “popolari”. Non si può arrivare a Roma mantenendo alla frontiera questa zona di dissidenza. Già il l0 settembre, il segretario generale del P.N.F., Michele Bianchi, ha trasmesso al presidente del Consiglio, Facta, un rapporto esigente una energica politica del governo in favore della “italianizzazione” della regione. Ad inizio di ottobre, le squadre fasciste della Venezia, e di altre province dell’Italia del Nord, dirette dai deputati De Stefani, Giunta, Farinacci, occupano Trento e Bolzano, ed obbligano i commissari governativi Credaro e Salata a dare le dimissioni e ad allontanarsi: tutte le rivendicazioni fasciste sono immediatamente accettate a Roma. I capi fascisti ordinano la smobilitazione e consegnano il palazzo della deputazione provinciale di Trento – che avevano occupato – all’autorità militare “ottenendo che il trapasso dei poteri avvenisse con la cerimonia del cambio della guardia e gli onori ai gagliardetti tra il reparto militare e le squadre fasciste”.
Dal punto di vista strettamente politico, Mussolini mira ad altri fini. Egli ha bisogno, qualunque sia la tattica che le circostanze gli impongono, di neutralizzare – se non di guadagnare – la monarchia e l’esercito. Dai rapporti stabiliti tra la monarchia e il fascismo dipendono, in larga misura, i rapporti del fascismo con l’esercito, giacché questo rimane fondamentalmente lealista nei riguardi di Casa Savoia. Mussolini ha abbastanza disprezzo per il re per adottare nei suoi confronti un solo metodo: il ricatto. I1 “Giornale d’Italia” aveva pubblicato una lettera di un gruppo di ufficiali che manifestavano la loro simpatia per il fascismo, ma al tempo stesso si preoccupavano della sua “ tendenza repubblicana” ed affermavano la loro volontà di difendete la Corona “a fuoco tambureggiante” anche contro i fascisti. Mussolini risponde nel “Popolo d’Italia” del 23 agosto:
“Nessuno, oggi, trascina nelle polemiche la Corona, per quanto non mancherebbero discreti motivi per farlo. Abbiamo lasciato di insistere sulla ” tendenzialità ” famosa, mentre il Fascismo, in molte città d’Italia, come Lucca, Reggio Emilia, Trieste, ecc. ecc., ha reso ufficialmente omaggio al sovrano. Abbiamo anche dimenticato la triplice amnistia ai disertori. Dopo di che abbiamo il piacere di dichiarare che il Fascismo pratica la savia legge del “do ut des” . La Corona non è in gioco, purché la Corona non voglia, essa, mettersi nel gioco. È chiaro?”.
Circa un mese più tardi, nel suo discorso di Udine, Mussolini si impegna di più senza rinunziare al ricatto, anzi per dargli maggior valore:
“io penso che si possa rinnovare profondamente il regime lasciando da parte l’istituzione monarchica… In fondo io penso che la monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse, perché se 1o facesse diventerebbe subito bersaglio e, se diventasse bersaglio, è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte.
Chi può simpatizzare per noi non può ritirarsi nell’ombra. Deve rimanere nella luce. Bisogna avere i1 coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito cli una importanza storica incalcolabile”.
L’azione degli squadristi e dei sindacati fascisti ha aggruppato intorno al fascismo la totalità degli agrari, ad un tal grado e in tali condizioni, che sarebbe più esatto dire che la totalità del fascismo si è unita agli agrari.
Rimane da guadagnare più completamente la grande borghesia, di cui solo alcuni gruppi, sebbene molto importanti, sono entrati direttamente nella mischia. Per riuscirvi, Mussolini amplifica l’azione che ha già condotto per la “smobilitazione” dello stato e impegna il partito in una campagna metodica per “l’assestamento delle finanze nazionali”. Si comprende quanto fossero seducenti per i capitalisti italiani le prospettive che Mussolini apriva loro nel suo discorso del 20 settembre a Udine:
“Noi vogliamo spogliare 1o Stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con 1o Stato ferroviario, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con 1o Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano. Resta la polizia; resta il maestro educatore delle generazioni; resta l’Esercito che deve garantire l’inviolabilità della Paria e resta la politica estera. Non si dica che così lo Stato rimane piccolo. No! Rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio degli spiriti, mentre abdica a tutto il dominio della materia”.
Con l’imprecisione e la poca coerenza delle sue formule, Mussolini distribuisce a ognuno la speranza che più gli sorride: i capitalisti vedono tutti i servizi pubblici restituiti all’industria privata, i bottegai si sentono liberati dalle imposte e dalla tutela e dagli impacci dello stato, e il piccolo borghese “idealista” si rallegra di lasciare ad altri “il dominio della materia”, giacché egli pensa che sarà qualche cosa – usciere o ministro – nel “dominio dello spirito”. Del resto il P.N.F. non si limita a questi grandi princìpi: ha preparato un lungo rapporto, redatto da Corgini e da Massimo Rocca, per una serie di “comizi” sopra “il risanamento finanziario”, che si svolgono a partire dalla fine di settembre fino alla vigilia della marcia su Roma nelle principali città d’Italia. In questo rapporto e in questi comizi si reclama: la riforma della burocrazia; la cessione all’industria privata delle imprese industriali dello stato; I’abolizione degli organi statali superflui; la soppressione di sussidi e dei lavori ai funzionari, alle cooperative e ai magazzini municipali “oggi posti in condizione di privilegio” di fronte al commercio privato; la semplificazione del sistema di imposte; la riduzione delle tasse di successione, sugli agrari e in certi casi sul lusso, perché esse giungono “ a distruggere la Famiglia e la proprietà”; I’eliminazione del deficit del bilancio, non aumentando le imposte, ma allargando il quadro dei contribuenti; I’aumento delle imposte di consumo piuttosto che delle imposte dirette.
La situazione finanziaria ed economica dell’Italia, presentava nel corso del 1922 segni certi di miglioramento, in seguito a misure adottate dai diversi governi soprattutto a partire dal 1921. Il deficit della bilancia commerciale stava riducendosi, i depositi presso le Casse di risparmio continuavano a crescere, la circolazione dei biglietti tornava gradualmente a proporzioni normali. Ecco a questo proposito le cifre al dicembre di ogni anno in milioni di lire:
Deficit della bilancia commerciale
1919 12.694
1920 10,557
1921 15.018
1922 8.647
Depositi delle Casse di risparmio ordinarie e postali
1919 10.643
1920 13.213
1921 15.576
1922 17.250
Circolazione monetaria
1919 18.551
1920 22.000
1921 21.475
1922 20.279
Per quanto si riferisce al bilancio dello stato, tra il l9l9 e il 1922 l’Italia aveva tatto uno sforzo d’assestamento, nel quale il fascismo non era intervenuto in alcun modo. Lo stato italiano aveva iscritto nel suo bilancio ordinario i debiti di guerra, anziché farli passare in un bilancio speciale e dunque li fronteggiava con le proprie risorse. I deficit degli anni 1919-1922 non si riferiscono alla gestione normale dello stato, ma alla liquidazione delle spese di guerra, che ha interamente assorbito gli attivi del bilancio e che ha gravato soprattutto in questo periodo. Sulla base dei dati elaborati dal professor F. A. Repaci nel suo studio magistrale sopra i bilanci italiani dal 1913 aI 1932 ecco ricostituita l’evoluzione reale delle finanze italiane nei primi anni del dopoguerra (cifre in milioni di lire):
Esercizio finanziario |
Entrata |
Aumento annuo delle quote |
Spese |
Deficit complessivo |
Spese di guerra liquidate |
Percentuale spese di guerra sul totale |
---|---|---|---|---|---|---|
1918-1919 |
7.512 |
– |
30.857 |
23.345 |
25.683 |
83,22 |
1919-1920 |
10.210 |
2.698 |
21.704 |
11.494 |
12.424 |
57,24 |
1920-1921 |
13.184 |
2.974 |
34.139 |
20.955 |
22.339 |
65,43 |
1921-1922 |
15.444 |
2.260 |
32.612 |
17.168 |
18.264 |
56 |
1922-1923 |
15.912 |
468 |
19.172 |
3.260 |
4.867 |
25 |
Queste cifre impongono alcune conclusioni: tra il 1luglio 1918 e il 30 giugno 1922 – quattro mesi prima della marcia su Roma lo stato ha incassato delle somme equivalenti a un totale di 64.350 milioni di lire; nello stesso periodo ha speso per oneri di guerra 78.710 milioni, vale a dire una somma più forte del suo deficit totale che è stato di 72.962 milioni di lire. A partire dall’esercizio 1922-1923, di cui i primi quatto mesi sono anteriori alla marcia su Roma, il deficit del bilancio si riduce di 11.908 milioni di lire rispetto all’esercizio precedente. ma nel tempo stesso gli oneri per la liquidazione della guerra si sono ridotti di 3.397 milioni. È dunque stabilito che i governi che si sono susseguiti in Italia dopo l’armistizio avevano già realizzato un considerevole miglioramento della situazione finanziaria, senza ricorrere a prestiti esteri e liquidando in quattro anni circa 79 miliardi di spese di guerra. La campagna che Mussolini e il partito aprono in settembre mira dunque ad altri scopi e più precisamente si propone di rassicurare e di guadagnare gli ambienti economici italiani, mostrando loro che il fascismo ha completamente abbandonato il suo programma “demagogico” del 1919-1920 e che è deciso a prolungare nel campo finanziario quella stessa offensiva contro i lavoratori, che già ha sviluppato nel campo politico e sindacale. Il “Corriere della Sera”, il grande organo “liberale” di Milano, si rallegra del programma fascista Corgini-Rocca, che considera come un trionfo, una rivendicazione della pura concezione manchesteriana… Così i1 6 settembre: “Questo giornale è lieto che un partito, qualunque ne sia il nome, ritorni alle antiche tradizioni liberali, si riabbeveri alla sorgente immacolata di vita dello Stato moderno, e augura che esso non degeneri e concorra ad attuare seriamente il programma liberale senza contaminarlo con impuri contatti”. Il direttore del giornale, il sen. Albertini, si è pronunciato un mese prima al momento della presentazione del nuovo governo Facta al Senato contro la collaborazione socialista, “dato il pericolo che questa presenterebbe nella attuale situazione finanziaria dello Stato”.
Ogni volta che il “Corriere della Sera” parla di spedizioni punitive, dà la versione fascista, come se i camion delle Camicie nere partissero per delle innocenti passeggiate turbate dall’inevitabile “imboscata comunista”. Il sequestro di deputati da parte dei fascisti, frequente negli ultimi tempi – Miglioli a Cremona, Fradeletto a Venezia, Benedetti a Pescia – è raccontato nelle sue colonne senza una parola di rammarico.
Lo scivolamento a destra del partito che si chiama ancora “liberale” appare chiaramente al Congresso che si tiene a Bologna dall’8 al 10 ottobre. A questo Congresso partecipano soprattutto dei decisi conservatori (Sarrocchi, Belotti, il sen. Albertini) e alcuni nazionalisti. Una proposta di chiamare il partito “liberaldemocratico” è respinta con 45.426 voti contro 21.091.
Il Congresso si mostra nettamente ostile alla collaborazione con i socialisti e il “Giornale d’Italia” commenta così questo risultato: “Il Congresso liberale di Bologna, si è richiamato alle pure tradizioni del partito e ha deciso di orientarsi nettamente verso la destra,.. Sopprimendo I’aggettivo democratico, ha voluto evidentemente significare che la sovrapposizione della tendenza democratica al liberalismo deve infine cessare”.
Uno dei capi fascisti, Grandi, che tuttavia rimprovera al Congresso di non avere sufficientemente chiarita la questione dei rapporti del liberalismo col fascismo, constata: “Il vero presidente del Congresso liberale è stato ancora una volta Mussolini. La destra del Congresso ha vinto sulla questione del nome da dare al partito: la parola democrazia è oggi la bestia nera del fascismo e si è pensato che questo ostracismo nominale sarebbe piaciuto ai fascisti”.
Come stupirsi, in queste condizioni, che il tentativo di ricostruire un grande partito democratico abbozzato di nuovo fin dal mese di agosto sia destinato all’insuccesso?
Già una volta la “coalizione democratica”, creata nell’autunno 1921, s’è disciolta alla fine del giugno 1922. Si ricomincia, ma nessuna delle difficoltà che l’hanno fatta fallire è scomparsa; esse si sono anzi aggravate. La rivalità tra Nitti e Giolitti resta la stessa e la paura del fascismo o il desiderio di trovare con esso un compromesso prevalgono nella maggior parte dei capi politici “ centristi”. I rappresentanti dei gruppi democratici hanno progettato una grande campagna di comizi, che dovrebbero presentare al paese la nuova formazione politica, destinata ad avere una funzione di mediazione e di equilibrio tra gli estremi di destra e di sinistra. Cocco Ortu, Bonomi, De Nicola, Orlando, ed anche Giolitti e Nitti, dovrebbero prendervi la parola. Ma il progetto di unificazione fallisce nuovamente anche sotto la forma di una federazione tra i diversi gruppi. Cocco Ortu, che doveva pronunciare il primo discorso della serie a Napoli, dove si sarebbe riunita nello stesso tempo una conferenza dei delegati del Mezzogiorno, vi rinuncia perché “pochi sono stati i deputati democratici che hanno accettato di aderire al convegno”. Poco dopo, in settembre, Giolitti fa dichiarare dalla sua stampa la propria ostilità alla prospettata coalizione, che è così definitivamente sepolta. I principali capi dei partiti centristi sono tutti in vacanza o preferiscono tacere per non compromettersi e per riservarsi l’avvenire. Il sen. Albertini lo denunzia senza sottintesi nel suo discorso: “L’amore delle più sane novità, la ribellione contro la degenerazione parlamentare, ed il coraggio non sono prerogativa di tanti nostri uomini di governo. Guardate: essi non parlano quasi mai, si compromettono il meno possibile. Mercoledì scorso si era da prevedersi una seduta grave alla Camera. Ebbene: non c’erano né Giolitti, né Nitti, né Salandra, né Orlando, né Bonomi. Fascisti e socialisti – ho visto dall’alto quel triste spettacolo – erano soli alle prese, fra l’indifferenza della maggioranza”.
Mussolini e i suoi amici a partire dal mese di agosto sottopongono l’opinione pubblica italiana ed il governo a una doccia scozzese di minacce e di smentite rassicuranti. All’inizio di agosto, proprio nel corso della mobilitazione fascista, l’ “Avanti!” spiega il “piano” fascista della marcia su Roma:
“Il piano militare del fascismo – scrive il giornale socialista – ideato con perizia dai generali e dagli ufficiali che dirigono le squadre:e d’azione, si svolge con precisione e con metodo. A questo punto c’è una sosta. Ma una sosta di pochi giorni, se non di poche ore. L’esercito fascista si prepara all’ultima impresa, quella. di conquistare la Capitale e probabilmente non per il solo piacere di bruciare le Case del Popolo e alcune organizzazioni socialiste. Finite le operazioni in Alta Italia e nell’Emilia, le truppe fasciste, armate forse meglio che l’esercito regolare, munite di moschetti forniti dall’amministrazione militare, equipaggiate, comandate da ufficiali effettivi, si vanno ammassando ad Ancona, nella bassa Umbria e verso Civitavecchia. I capi dei fascisti, poi, non si stancano di ripetere ovunque che ormai è la volta di Roma”.
Il “Popolo d’Italia” definisce questo piano “rocambolesco” e attribuisce la sua pubblicazione alla “fifa” dei socialisti.