Guida alla lettura

 

Scorre il sangue operaio e contadino per le strade del paese. Vengono incendiate Camere del Lavoro, circoli operai, socialisti, comunisti. I Fasci intimano a sindaci democraticamente eletti di dimettersi. Cosa fanno i liberali, i democratici nel frattempo? Tramano. Tramano con Mussolini, stanno al suo gioco e al contempo si fanno giocare dalle sue manovre. Nel campo della controrivoluzione, del liberalismo, della reazione, fervono i preparativi per una soluzione che stronchi definitivamente il movimento operaio. E tra i vari dirigenti borghesi, la discussione riguarda solo chi e come guiderà questa soluzione. C’è una competizione a chi sarà il dittatore d’Italia, una discussione se questo dittatore si avvarrà di un colpo di Stato o di combinazioni parlamentari. C’è insomma la discussione sulle forme e sugli uomini, ma non sulla sostanza: è tutta la classe dominate a preparare la Marcia su Roma. Marcia su Roma che il fascismo non può più rimandare perché non sa più come sostentare le sue squadracce e reggere la finzione di essere una forza popolare, mentre agrari e indutriali si avvalgono del fascismo per abbassare salari e aumentare lo sfruttamento.


La Marcia su Roma, seconda parte

 

L’ufficio stampa del Partito Nazionale Fascista comincia la serie delle smentite che durerà fino alla marcia su Roma: “La voce messa in circolazione che i fascisti puntino su Roma per tentare un colpo di Stato è destituita di fondamento”. Qualche giorno dopo, l’11 agosto, in una intervista al giornale Il Mattino di Napoli, Mussolini dichiara: “La marcia su Roma è in atto. Non si tratta, intendetemi bene, della Marcia delle cento e trecentomila camicie nere inquadrate formidabilmente nel Fascismo. Questa marcia è strategicamente possibile lungo le tre grandi direttrici: la costiera adriatica, quella tirrenica e la valle del Tevere, che sono – ora – legalmente in nostro assoluto potere. Ma non è ancora politicamente inevitabile e fatale. Voi ricordate il mio dilemma al Parlamento. Esso rimane. I prossimi mesi daranno una risposta. Che il Fascismo voglia divenire “Stato” è certissimo, non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna-, però, noverare questa tra le possibili eventualità di domani.

D’altronde, la Marcia su Roma, come vi dicevo, è in atto, nel senso storico, se non in quello propriamente insurrettivo; è, cioè, in alto la formazione di una classe politica italiana, alla quale sarà prossimamente commesso l’arduo compito di governare”.

Le voci di una marcia su Roma circolano con crescente insistenza. Tutti ne parlano: solo gli ambienti governativi si mostrano scettici. I1 barone Beyens, ambasciatore di Berlino presso la Santa Sede, racconta nei suoi ricordi: “Viaggiavo in settembre con un industriale italiano, il barone Blanc, fervente sostenitore del fascismo al quale avevo offerto un posto nel mio scompartimento riservato… Egli mi annuncia un avvenimento imminente, un colpo di stato che Mussolini eseguirà tra poche settimane. Le bande delle camicie nere saranno mobilitate, provviste di fucili e di mitragliatrici. Si riuniranno in congresso a Napoli, da dove marceranno su Roma”. Verso la fine dello stesso mese di settembre Mussolini pronuncia a Cremona un discorso al quale non si può rimproverare di essere ambiguo, senza che d’altra parte la sua chiarezza minacciosa giunga a scuotere l’inerzia dello stato:

“Quello che abbiamo fatto è poco a paragone di quello che dobbiamo fare. C’è già- un contrasto vivo, drammatico, sempre più palpitante di attualità fra una Italia di politicanti imbelli e.. l’Italia sana, forte, vigorosa, che si prepara a dare il colpo di scopa definitivo…a tutta a schiuma infetta della società italiana. Né si illudano – gli avversari – di poter fiaccare la nostra compagine, perché noi -vogliamo sempre più renderla compatta, disciplinata, militare, affiatata, attrezzata per tutte le eventualità, perché, o amici, se sarà necessario un- colpo risolutivo, tutti, dal. primo all’ultimo – e guai al disertore -o al traditore, che sarà colpito! – tutti dal primo all’ultimo, faranno i1 loro preciso dovere. Insomma, noi vogliamo che l’Italia diventi fascista Ciò è semplice. Ciò è chiaro. Noi vogliamo che 1’Italia diventi fascista, perché siamo stanchi di vederla continuamente fra la negligenza e la viltà; e siamo, soprattutto, stanchi di vederla considerata all’estero come quantità trascurabile… È da Vittorio Veneto che si dipartono i nostri gagliardetti. È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziata la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la meta suprema Roma. E non ci saranno ostacoli, né di uomini, né di cose che potranno fermarci!”

Mussolini sente che i momenti decisivi si avvicinano e raddoppia d’attenzione e d’attività. La disgregazione dei partiti politici, la complicità degli odi e degli interessi reazionari sono tali, che può permettersi di enunciare i più estremi progetti, senza provocare sensibili reazioni.

La sera del 4 ottobre, parla a Milano dinanzi agli squadristi del gruppo “Sciesa” e precisa così le sue intenzioni:

“Chi ci fa del bene, avrà del bene; chi ci fa del male, avrà del male. I nostri nemici non potranno lagnarsi se, essendo nemici saranno trattati duramente, come duramente devono essere trattati i nemici… In Italia ci sono due governi e quando ce ne sono due, ce n’è uno di più. Lo Stato di ieri è quello di domani… Lo Stato fasci sta è infinitamente migliore dello Stato liberale, e perciò lo Stato fascista è degno di ricevere l’eredità dello Stato liberale… I cittadini si domandano: ” Quale Stato finirà per dettare la sua legge agli italiani? ” Noi no! abbiamo nessun dubbio a rispondere: “Lo Stato fascista “… Quali sono le vie per arrivare a dare un governo alla Nazione?… Ci sono due mezzi, o signori: se a Roma non sono diventati tutti rammolliti, dovrebbero convocare la Camera ai primi di novembre, fare votare la legge elettorale riformata, convocare il popolo a comizio entro dicembre. Ogni nuova crisi parlamentare sarebbe inutile”.

Se il governo non prende la via che Mussolini ha indicata, il fascismo sarà costretto a prendere un’altra via:

“Vedete che il nostro gioco è ormai chiaro. Da una parte non è pensabile più,quando si tratta di dare l’assalto ad uno Stato, la piccola congiura che rimane segreta sì e no fino al giorno dell’attacco. Noi dobbiamo dare degli ordini a centinaia di migliaia di persone e pretendere di conservare il segreto sarebbe la più assurda delle pretese e delle speranze. Noi giochiamo a carte scoperte fino al punto in cui è necessario di tenerle scoperte”.

Mussolini dà in séguito uno sguardo alla politica interna ed alla politica estera:

“Certamente non possiamo promettere l’albero della libertà sulle pubbliche piazze….Qui è la stoltezza dello Stato liberale che dà la libertà a tutti, anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà, Nemmeno se la richiesta di questa libertà fosse avvolta nella vecchia carta stinta degli immortali princìpi! Infine, quello che ci divide dalla democrazia non sono gli amminicoli elettorali . La gente vuol votare? Ma voti! Votiamo tutti fino alla noia e all’imbecillità. Nessuno vuol sopprimere il suffragio universale. Ma faremo una politica. di severità e di reazione. Dividiamo gli italiani in tre categorie; gli italiani indifferenti, che rimarranno nelle loro case ad attendere; i simpatizzanti, che potranno circolare e finalmente i nemici, e questi non circoleranno”.

In quanto alla politica estera,- egli riassume ancora una volta il suo programma, sempre lo stesso:

“Proiettando gli italiani come una forza unica verso i compiti mondiali; facendo del Mediterraneo il lago nostro alleandoci, cioè, con quelli che nel Mediterraneo vivono, ed espellendo coloro che del Mediterraneo sono i parassiti; compiendo questa opera dura, paziente, di linee ciclopiche, noi inaugureremo un periodo grandioso della storia italiana”.

Qualche giorno dopo il Consiglio dei ministri si riunisce per esaminare la situazione. Corre voce che sta per richiamare due classi, che si dispone ad iniziare una energica azione di repressione; Facta e il ministro degli Interni, Taddei, hanno avuto lunghi colloqui con il generale Diaz, richiamato telegraficamente a Roma, con il generale Badoglio e con il ministro della Guerra Soleri. Il generale Badoglio è sicuro che i fascisti non potranno arrivare a Roma e dichiara: “Al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà”. Mussolini se ne preoccupa e scrive a questo proposito sul “Popolo d’Italia”:

“Noi crediamo che i torbidi propositi del generale Badoglio non avranno mai una realizzazione. L’esercito nazionale non verrà contro l’esercito delle Camicie nere, per la semplice ragione che i fascisti non andranno mai contro l’esercito nazionale, verso il quale nutrono il più alto rispetto e ammirazione infinita… Malgrado tutto noi crediamo che il generale Badoglio si rifiuterà al tentativo inutile di fare il carnefice del Fascismo italiano”.

I capi fascisti temono inoltre una crisi politica immediata, di cui si parla con insistenza nella stampa; il segretario del partito, Michele Bianchi e Grandi vanno da Facta, che li rassicura. Il “Corriere della Sera” spiega che i fascisti non vogliono le immediate dimissioni di Facta, perché “non potrebbero sperare un Ministero più comodo di quello da lui presieduto”. Il ministero Facta rimane al potere, le Camere saranno convocate all’inizio di novembre ed allora potrà risolversi la crisi. I fascisti così guadagnano tre settimane, che permetteranno loro di sventare tutte le manovre degli avversari.

Il governo Facta è più che mai ottimista. Per impedire la marcia su Roma, Facta e i suoi amici hanno una suprema risorsa: tre giorni prima della riapertura della Camera, il 4 novembre, Gabriele D’Annunzio pronuncerà a Roma un grande discorso nel quale lancerà, dall’alto del Campidoglio, un appello alla pacificazione del paese. Sarà circondato da diverse migliaia di mutilati che si riuniranno nella capitale per celebrare il grande avvenimento.

Orlando è andato a trovare il poeta a Garzone e, al suo ritorno a Roma, il 13 ottobre, dichiara: “il suo amore per questa nostra Italia raggiunge un grado di esaltazione e di perfezione al tempo stesso, che ascoltarne la parola è come rifarsi alle stesse sorgenti della vita nazionale”.

I fascisti rischiano, dunque, di trovare sul loro cammino, in Roma stessa, D’Annunzio e, con lui, gli eroi, i martiri della guerra . D’Annunzio eseguirebbe insomma, sotto questa forma, una specie di “marcia su Roma preventiva”, destinata a rendere impossibile quella di Mussolini. Nel corso del primo semestre del 1922, D’Annunzio è stato considerato da parecchi come il possibile antagonista di Mussolini e l’eventuale “giustiziere” del fascismo. Anche la sua presenza a Milano tra gli occupanti di Palazzo Marino non ha scoraggiato coloro che pongono in lui le ultime speranze. Una commissione d’ex-combattenti e di “legionari” fiumani, con Alceste de Ambris, Luigi Campolonghi e antichi compagni di guerra del “Comandante” si reca a Gardone il 6 agosto, dopo lo sciopero generale, e gli chiede di intervenire per salvare il paese da una dittatura fascista. D’Annunzio, risponde che ha intenzione di indire a Roma una grande adunata di combattenti di tutti i partiti, per ristabilire l’ordine, pur conservando il regime parlamentare, giacché si faranno delle elezioni regolari libere dopo tre mesi di dittatura.

Nel suo pensiero il dittatore è beninteso lui stesso. Egli esorta i visitatori a mettersi immediatamente all’opera per riunire a Roma il maggior numero possibile di combattenti e dà loro la divisa: Sine strage vici, strepitu sine ullo.

La commissione si riunisce subito dopo a Milano; il colonnello Amleto Pavone, oggi generale e fascista, propone di dividere l’Italia in dieci zone e di inviare in ciascuna di esse dei commissari con la missione di reclutate coloro che sono disposti a “marciare” ed eventualmente a battersi per fare trionfare il “piano” del “Comandante”.

Questi, d’altra parte, si sforza di stabilire dei legami sempre più stretti con talune organizzazioni operaie. Poco dopo la riunione del Comitato centrale del Sindacato nazionale dei ferrovieri (19 agosto), in cui è stato deciso di ritirare la adesione data all’Alleanza del lavoro e e di inviare a D’Annunzio un telegramma di auguri per il suo ristabilimento, uno dei dirigenti dello stesso sindacato dichiara: “Alcuni rappresentanti dei ferrovieri hanno avuto con D’Annunzio, qualche giorno prima del suo incidente, una lunga conversazione. Siamo certi di avere con noi la più parte dei ferrovieri. Avremo ben presto con D’Annunzio un blocco formidabile di organizzazioni operaie. Per il momento non vi sono che i marittimi e i ferrovieri. Ma altre importanti e forti federazioni sono pronte a seguire il nostro esempio”. Un giornale di Roma annuncia che “presso i dipendenti dall’amministrazione postale, si manifesta, da un po’ di tempo, una tendenza dannunziana e non è impossibile che la federazione dei P.T.T. prenda fra breve una decisione simile a quella dei ferrovieri”.

Anche la Federazione dei legionari fiumani spiega una certa attività per la preparazione di una “Costituente sindacale, che dovrebbe ricostituire, attorno a D’Annunzio e al suo programma, l’unità operaia”. D’Annunzio cerca di assicurarsi nello stesso tempo l’appoggio di eminenti uomini politici, tra cui Nitti, che ai tempi di Fiume era stato la sua bestia nera. Preferisce Nitti a Giolitti, perché non può perdonare a questo “boia” d’averlo spossessato di Fiume, Nitti, inoltre, rappresenta per il poeta, “esperto” in materia economica e finanziaria, un esperto che, pur avendo una grande cultura, non manca d’immaginazione. Un emissario di D’Annunzio si reca ad Agnano, dove Nitti si trova per una cura d’acque, e gli espone il progetto del poeta-soldato per la grande “riconciliazione di tutti i combattenti”. Nitti accetta di incontrare D’Annunzio, ma pone alcune condizioni. Egli non andrà a Gardone perché D’Annunzio, nel passato, l’ha troppo gravemente insultato e sa che D’Annunzio non si umilierà a venire da lui. L’incontro avverrà in una località “neutra”, a mezza strada tra Gardone e Roma. Nitti nota pure che ogni pacificazione è impossibile se Mussolini non partecipa al negoziato. E, infine, esige delle garanzie per la sua sicurezza personale, giacché per arrivare al luogo dell’appuntamento, in Toscana, occorre traversare delle regioni ove infieriscono le squadre fasciste, per le quali Nitti rimane sempre “buono per la forca”.

Tutte le disposizioni sono prese in questo senso: Mussolini accetta di incontrare D’Annunzio e Nitti. Questi farà il viaggio con il deputato fascista Aldo Finzi, il suo amico Schiff-Giorgini, e un certo Brambilla, proprietario della villa dove i tre dovranno riunirsi. Tutto è pronto, quando un colpo di telefono annuncia: “D’Annunzio è moribondo”. Il Comandante, infatti, è caduto dalla finestra della sua villa, “museo-convento-garconnière”, in séguito al litigio fra due delle sue amiche, le “suore”, come si compiace chiamarle. Questa grave caduta lo immobilizza per diverse settimane e lo lascia indebolito, quantunque non abbia rinunciato ai suoi progetti. Il 12 settembre, anniversario della marcia su Ronchi, lancia un appello nel quale si duole di non avere tutti i suoi legionari con sé ed augura che, nel loro spirito, “la libertà e la luce divengano una cosa sola”; ed al motto già conosciuto: Sine strage vici, aggiunge una formula di speranza: Insperata floret.

Il “Popolo d’Italia” pubblica questo messaggio in quarta pagina senza nessun commento Mussolini vuole più che mai arrivate al potere; l’idea di una “marcia su Roma” è nell’aria, come sbocco naturale delle “offensive” fasciste che, sempre più ampie, partono dai territori già conquistati per nuove annessioni. Tutta la Valle del Po, tutta l’Italia centrale – Toscana, Umbria e campagna romana – sono “occupate” dalle Camicie nere. In ottobre solo poche città restano ancora “ libere”: Torino, Parma e, inoltre, il Mezzogiorno più o meno neutro.

La velocità acquisita dalle spedizioni è dalle adunate fasciste non può condurre che a Roma, ancor più per la logica oggettiva del movimento che per la segreta volontà di Mussolini o di altri capi fascisti. Nel corso dello sciopero di agosto. Facta ha ottenuto dai fascisti che non occupino Roma, dando loro Milano, Genova e Livorno.

Roma diviene dunque, in un modo quasi del tutto automatico, per il gioco stesso dell’avanzata fascista e delle debolezze governative, l’ultima posizione dove si deciderà la sorte del regime e di cui i fascisti si devono impadronire, se non vogliono che tutte le loro precedenti vittorie siano annientate.

Il problema della presa del potere diviene,urgente anche per altri motivi. Già al Comitato centrale dei Fasci che si è tenuto a Milano verso la metà di agosto, diversi delegati hanno manifestata la loro inquietudine per il numero sempre crescente di lavoratori che il fascismo deve accogliere, dopo aver rase al suolo le loro organizzazioni.

Solo se dispone delle risorse dello stato in modo integrale, il fascismo potrà sopportare la pressione di queste masse, imbrigliandole e soddisfacendone in parte i più elementari bisogni. Alcuni avvenimenti giungono a sottolineare il pericolo che può sorgere per la politica fascista dal seno stesso di questo sindacalismo improvvisato ed ipertrofico.

In provincia di Siena i Fasci hanno occupato a Poggibonsi, a San Gimignano, a Casale, a Serra di Rapolano delle tenute agricole, non senza provocare le proteste della Federazione provinciale dell’Associazione agraria. Il suo organo, il “Solco”, scrive all’inizio di settembre:

“I fascisti di Siena vogliono che i proprietari terrieri impieghino un numero sempre crescente di operai, molti dei quali si trovano disoccupati. I fascisti di Siena hanno minacciato di invadere le fattorie, e le hanno anche invase, perché i proprietari si rifiutavano di prendere alti operai. Siamo disposti ad ammettere che questi proprietari non siano dei santi. Ma l’invasione o la minaccia di invasione non è giustificata. Altrimenti occorre dare ragione ai socialisti che si servono degli stessi argomenti per giustificare le loro violenze”.

Mussolini esige, in un telegramma in cui lascia trapelare la sua irritazione, che la Federazione fascista di Siena dia spiegazioni sulla sua condotta. Pure in provincia di Ferrara la situazione è cattiva, per motivi analoghi. Gli agrari hanno profittato della vittoria integrale del fascismo per prolungate la giornata di lavoro e ridurre i salari. Gli industriali dello zucchero, numerosi nella provincia, dove v’è una importante cultura di barbabietola, hanno falcidiato i salari di 6, di 8 lire al giorno. Tutto ciò provoca del malcontento e persino una scissione nel Fascio di Ferrara.

La Direzione del partito ordina un’inchiesta, il Fascio è disciolto e conflitti scoppiano tra fascisti “ufficiali” e fascisti “autonomi”. Il problema della “milizia” fascista comincia pure a divenire preoccupante. Non si possono più oltre lasciare queste decine e decine di migliaia di uomini sotto pressione a terrorizzare e a taglieggiare la popolazione. Una volta massacrato incendiato, occupato tutto ciò che vi era da massacrare, incendiare ed occupare, occorre trovar loro altre forme di attività, occorre che lo Stato li prenda in carico. Il loro mantenimento esige delle somme considerevoli; le sovvenzioni degli agrari, degli industriali e dei banchieri sono abbondanti, ma bisogna sollecitare e non continueranno all’infinito. Più i ranghi della milizia si ingrossano, più il problema finanziario si aggrava. Occorre trovare delle risorse regolari, che solo il bilancio statale può fornire. La milizia diverrà un organo del nuovo stato, dello stato fascista. In un articolo del 24 ottobre, il “Popolo d’Italia” ne prevede i caratteri e le funzioni:

“Alla domanda: Che faremo, quando saremo al potere, de11e squadre d’azione? Saranno disciolte? Una voce, istintiva prima di essere ragionevole, ci dice: no. Lo squadrismo non può, non deve morire. Sarebbe per noi un vero suicidio; giacché se la forza ci è utile per conquistare il potete, lo è ancor più per conservarlo. La milizia sarà trasformata. Le squadre cesseranno d’essere organi di Partito per divenire organi dello Stato; trasformate in corsi di istruzione premilitare, esse realizzeranno l’ideale della Nazione armata…. Militarizzato lo squadrismo, cesserà il pericolo di una concorrenza fra esso e gli altri corpi armati dello Stato…L’esercito volontario, inquadrato nell’organismo del nuovo Stato, sarà la più sicura garanzia per l’avvenire”.

V’è inoltre una certa minaccia da parte nazionalista, minaccia di concorrenti “sempre in agguato”. I nazionalisti pure formano le squadre d’azione; hanno le loro “Camicie azzurre” come i fascisti hanno le “Camicie nere”. Una di quelle squadre occupa a Genova, il 9 settembre, un piroscafo della Società navigazione generale, il Vulcania, perché un nazionalista dell’equipaggio è stato licenziato. Il gagliardetto nazionalista è alzato sull’albero maestro. Altrove si producono incidenti tra nazionalisti e fascisti, di cui uno grave, a Taranto, in occasione della inaugurazione della bandiera della sezione nazionalista locale. I fascisti attaccano i nazionalisti per le strade: ci si batte a pugni, a bastonate, a revolverate e pure lanciando “delle bombe a mano che spandono il terrore per tutta la città”. Il tesoriere del gruppo nazionalista è ucciso e vi sono numerosi feriti. I fascisti erano esasperati perché i ranghi nazionalisti si erano ingrossati per l’adesione di parecchi dissidenti del Fascio locale. Le Direzioni dei due partiti, fascista e nazionalista, intervengono e deplorano questi incidenti che “non possono essere utili che agli avversari comuni”. In un discorso pronunciato a Milano il mattino del 15 ottobre, il deputato nazionalista Federzoni copre di fiori il fascismo e Mussolini, ma nel pomeriggio ha luogo, nella stessa città, una adunata delle Camicie azzurre giunte da Bologna, Vicenza e Genova e ciò non può non inquietare Mussolini, sempre sospettoso, che non vorrebbe veder i nazionalisti soffiargli, alla prima occasione, i frutti del suo lavoro. Il più grave pericolo rimane quello della formazione di un governo Giolitti: il 7 ottobre il Consiglio dei ministri ha deciso di non dimettersi, ma la crisi può aprirsi da un momento all’altro.. Mussolini si pone in modo sempre più concreto il problema della conquista diretta del potere.

All’ultimo Comitato centrale del P.N.F. (13 agosto), Italo Balbo e Michele Bianchi hanno proposto il seguente ordine del giorno, approvato all’unanimità:

“I1 C. C. del Partito, esaminata la situazione militare fascista, demanda a un comando supremo composto di tre persone il compito dell’esecuzione di ogni movimento di ordine militare che le circostanze e i programmi fascisti avessero a determinare”.

La Direzione del partito forma questo triumvirato con Italo Balbo, De Vecchi ed il generale De Bono. Questi due ultimi si riuniscono il 15 settembre per redigere il nuovo regolamento della milizia fascista che, per la prima volta, è pubblicato nel “Popolo d’Italia”. Il 6 ottobre, Mussolini interroga Balbo, che si è recato a vederlo, sulle “possibilità di successo di un’azione rivoluzionaria su Roma. Non voleva garanzie generiche, ma notizie precise, particolari sicuri”. Balbo ha l’impressione che Mussolini sia disposto a tentare il colpo di mano insurrezionale.

La marcia su Roma è decisa, in principio, il 16 ottobrex, in una riunione del comando generale, che ha luogo a Milano in presenza di Mussolini e del segretario del partito Michele Bianchi e nella quale intervengono i generali Fara e Ceccherini. Ecco il resoconto di questa riunione, quale si trova nel Diario di Italo Balbo, in data 16 ottobre:

“Mussolini entra allora nel merito della questione. Con una esposizione chiarissima, a larga sintesi, dichiara che gli avvenimenti precipitano e che il Fascismo può essere, da un momento all’altro, condotto nella necessità di iniziare il movimento insurrezionale. Pensa che questo debba convergere in una marcia su Roma con la contemporanea occupazione del1a città, per costringere il Governo a cedere i poteri e indurre la Corona ad affidarli a un Ministero fascista. Aggiunge che non si può attendere una soluzione parlamentare che è contro lo spirito e gli interessi del Fascismo. Le manovre di questo giorno servono da diversivo per l’opinione pubblica e per lo stesso Governo. Soltanto la conquista diretta del potere può essere considerata una soluzione degna del nostro movimento, che ha agito al di fuori e al di sopra delle leggi di un regime decrepito. Non scenderemo a compromessi: faremo valere la nostra forza, Domanda ai presenti, facendo obbligo di un’assoluta franchezza, se ritengono le forze militari del Fascismo pronte moralmente e materialmente per il compito rivoluzionario. De Bono e De Vecchi, che, come me, hanno in queste settimane visitato personalmente tutti i centri della loro zona, ispezionato le legioni e preso contatto direttamente con gli uomini, affermano che, secondo la loro impressione, le forze fasciste non sono ancora pronte e giudicano necessario aspettare, ad ogni modo, qualche tempo. Io mi dichiaro preoccupato per la piega che hanno preso in questi ultimi giorni gli avvenimenti politici. Ritengo pericolosissimo ogni indugio. Le manovre dei vecchi partiti parlamentari si fanno più serrate. Anche non volendo, il Fascismo minaccia di restare prigioniero dell’intrigo che si ordisce ai suoi danni con la trappola delle elezioni. Penso che se non tentiamo subito il colpo di Stato in primavera sarà toppo tardi: nel tepore di Roma, liberali e sovversivi si metteranno d’accordo: non sarà difficile al nuovo Ministero predisporre più energiche misure di polizia e compromettere l’Esercito contro di noi. Oggi godiamo del beneficio della sorpresa. Nessuno crede ancora seriamente alle nostre intenzioni insurrezionali. Insomma, tra sei mesi, le difficoltà saranno decuplicate. Meglio tentare oggi l’azione definitiva, anche se la nostra preparazione non è completa, piuttosto che domani, quando insieme con la nostra sarà completa anche la preparazione degli avversari. …Michele Bianchi appoggia la mia tesi, aggiungendo stringenti argomenti di ordine politico. Mussolini si dichiara d’accordo con noi e la sua opinione trascina senza alcuna ulteriore resistenza quella di De Bono e di De Vecchi. Il Duce conclude questo rapido esame affermando che non si può decidere se l’insurrezione debba essere immediata, ma ritiene che si possa e si debba iniziare subito, qualora l’occasione si presenti: propone di rinviare la precisa designazione del giorno dell’atto insurrezionale dopo la rassegna delle forze fasciste che si terrà a Napoli il 24 ottobre. …Si passa ad esaminare la disciplina e la responsabilità dell’azione. Mussolini spiega che il Partito deve cedere i poteri a un Quadrumvirato composto dei tre Comandanti generali – De Bono, De Vecchi e Balbo – e dal segretario del partito, Michele Bianchi. Nel momento in cui starà per incominciare l’azione militare, tutte le gerarchie politiche scompariranno, sia quelle nazionali, sia quelle locali. Il Comando militare subentrerà con pieni poteri”.

Così, alla metà di ottobre, Mussolini pensa che “l’atto insurrezionale” sia inevitabile, ma, come in tutte le circostanze della sua vita, tiene a ridurre al minimo i rischi dell’impresa. L’ideale, per lui, è che tutto avvenga se la Marcia su Roma avesse luogo, ma senza farla fino “in fondo”. Nei primi giorni del mese prepara l’appello che i1 Quadrumvirato dovrà lanciare ai fascisti ed al paese al momento dell’azione, e si riserva di modificarlo all’ultimo momento secondo le circostanze. Non si tratta di annettersi Roma come una qualunque delle città o delle province che i fascisti hanno occupate; la conquista di Roma pone dei gravi problemi politici e può creare l’irreparabile. Ecco perché occorre intensificare |’azione politica destinata a perdere la diffidenza e l’ostilità degli avversari, a guadagnare degli alleati e neutralizzare una parte delle forze dello Stato. Nel corso delle ultime tre settimane, e soprattutto degli ultimi quindici giorni prima della marcia su Roma, Mussolini spiega un’attività quasi frenetica in tutte le direzioni dove si può raggiungere un risultato politico. Niente è trascurato, da D’Annunzio a Giolitti, da Salandra a Nitti, dalla monarchia ai repubblicani, dalla massoneria, al Vaticano.

La prima operazione che Mussolini conduce personalmente tende ad eliminare D’Annunzio dal circuito. Occorre, per riuscirvi, fargli alcune concessioni, lasciargli l’illusione che può continuare a sostener la sua parte di salvatore della nazione “senza strepito e senza sangue”. D’Annunzio ha legami molto stretti con la Federazione dei lavoratori del mare, diretta dal capitano Giulietti, che ha assicurato il ritorno di Malatesta in Italia e che ha facilitato in tutti i modi il vettovagliamento di Fiume. Questa federazione si è posta sotto la protezione del “Comandante”, al quale fornisce a titolo grazioso importanti somme, di cui il ritiro “francescano” di Gardone non può fare a meno. Dopo la “conquista” fascista di Genova la Federazione dei marittimi è molto minacciata: gli armatori ed i capi fascisti ne esigono la liquidazione. All’,inizio di settembre, ha luogo a Genova un Congresso della “Corporazione nazionale del Mare”, organizzazione fascista che si propone di rimpiazzare quella di Giulietti. Michele Bianchi, il segretario del partito, ed Edmondo Rossoni, il segretario dei sindacati fascisti, sono presenti e Mussolini stesso invia un messaggio. Il Congresso dichiara che occorre alzare la bandiera della rivolta contro la federazione di Giulietti; e nello stesso tempo chiede che il governo rinunci a tutte le sue esigenze circa i soprapprofitti di guerra ed a tutti i suoi crediti verso gli armatori “onde agevolare la ripresa dell’attività marittima”, nell’interesse, beninteso, dei disoccupati. È il momento in cui la lotta diviene aperta, accanita e non può sboccare che nella vittoria di irn nuovo monopolio, i1 monopolio fascista. Ma Giulietti, senza scrupoli e molto astuto, moltiplica i suoi approcci verso Mussolini, e si aggrappa a D’Annunzio 103. Il “Comandante” è per il momento in termini molto cattivi con i fascisti. Il 13 ottobre ha annunziato la mobilitazione dei suoi legionari a Fiume. Il 18 l’ufficio stampa del P.N.F. pubblica un comunicato per ordinare ai fascisti di non recarsi a Fiume lH. Ma il cap. Coselschi, segretario di D’Annunzio, fa al giornale di Roma, la “Tribuna”, questa dichiarazione: “Come sapete, il Comandante ha deliberato di organizzare, su nuove basi, la Federazione dei suoi legionari per farne un organismo puro e potente di pacificazione del Paese e di elevazione spirituale del popolo italiano, al di sopra e al di fuori di tutti i partiti… La sede centrale di Milano è trasportata a Firenze… L’organizzazione dei legionari non dovrà essere considerata come espressione di un partito, ma un insieme di discepoli che diffondono la fede di Gabriele D’Annunzio”. Quanto all’accordo tra Mussolini e D’Annunzio, continua Coselschi, “non posso fornire dettag1i… perché siamo impegnati al segreto. Posso però confermare che quest’accordo relativo alle forze sindacali esiste realmente e che si tratta di un fatto importantissimo che porterà grande contributo alla pacificazione nazionale”… importantissimo soprattutto “per le future conseguenze e per il futuro indirizzo non solo sindacale ma anche politico”.

Il fatto è che Mussolini, D’Annunzio e Giulietti hanno concluso un patto avente per oggetto la Federazione dei marittimi. Il testo di questo patto, firmato a Milano il 16 ottobre, non è pubblicato nel “Popolo d’Italia” che il 22. Eccone i punti essenziali:

“A Milano fra la Federazione italiana dei lavoratori de1 mare tutelata da Gabriele D’Annunzio e la Direzione del Partito nazionale fascista rappresentata da Benito Mussolini, dopo scambi di dichiarazioni di reciproca stima, per la necessità di conservare la unità della marina Mercantile italiana e per la pacificazione nazionale, viene deliberato e sottoscritto il seguente concordato:

1) che 1a Federazione italiana dei lavoratori del mare, convinta di chiedere all’armamento un equo trattamento per gli equipaggi, farà esaminare ben volentieri qualsiasi richiesta di tal genere al rappresentante de1 Fascismo prima cli iniziare qualsiasi pratica parlamentare o diretta coll’armamento e ciò allo scopo, di fornire al detto rappresentante la prova della legittimità di tale richiesta e dell’opportunità di una comune azione;

2) il rappresentante del Fascismo esaminerà tali richieste insieme a1 rappresentante del1a Federazione marinara allo scopo di addivenire ad un accordo entro il più beve tempo possibile e in ogni caso non più tardi di tre giorni;

3) non appena sulle richieste così formulate il rappresentante de1 Fascismo ii troverà d’accordo coi rappresentanti della Federazione marinara, questi la inoltreranno presso l’armamento per le rispettive discussioni o trattative;

4) nel caso di rottura di queste trattative, il Fascismo di cui è l’esponente Mussolini scenderà in lotta con tutte le sue forze insieme e in unione a quelle della Federazione dei lavoratori del mare, per ottenere giustizia coi mezzi diretti;

5) dalla firma di questo compromesso nel termine massimo di giorni 30, il Partito fascista prende formale impegno di sciogliere le corporazioni marinare e di ordinare la immediata rientrata dei soci di queste corporazioni nei quadri della Federazione italiana dei lavoratori del mare, che continuerà a funzionare e ad essere guidata come funziona ed è guidata adesso.”

Questo concordato, che porta le firme di Gabriele D’Annunzio, di Benito Mussolini e di Giuseppe Giulietti, riempie di stupore i fascisti delle città marittime, che dal mese di agosto lottano contro la federazione di Giulietti per sostituirla con la Corporazione del mare fascista. I fascisti non comprendono come le decisioni del Congresso di Genova 16 abbiano potuto essere annullate dalla volontà di tre persone che non vi avevano preso parte. La stampa “liberale” e conservatrice dà un posto d’onore alle loro proteste. Il “Corriere della Sera” esprime il timore che Giulietti conservi, grazie a Mussolini e a D’Annunzio, la sua potenza e che ne profitti “per continuare la sua politica poco nazionale e demagogica”. Tre giorni dopo, al Congresso di Napoli, un rappresentante fascista di Genova giudica che la Direzione del partito ha commesso, stipulando l’accordo, “una gaffe colossale che ci ha tagliato le gambe nel campo sindacale come in quello politico”. La reazione è tale che il 24 ottobre il “Popolo d’Italia” dichiara che “è un accordo di massima con obiettivi di pacificazione” e che accordi ulteriori devono seguire, entro trenta giorni, per “rendere effettivo e realmente pacificatore il trattato”. “Rimandiamo quindi – aggiunge il giornale – i commenti e le impressioni a trenta giorni”.

Nulla, nel testo dell’accordo, giustifica una tale interpretazione: l’art. 6 è formale: l’impegno che Ia Direzione del P.N.F. ha preso di disciogliere Ie “corporazioni” fasciste non è sottomesso ad alcuna restrizione. Ma Mussolini è costretto a navigare; si lascino strepitare i fascisti, “la massa”, quelli che non comprendono niente e che non possono, come lui, ricondurre tutto al piano di cui persegue febbrilmente la realizzazione. Mussolini non ha nessun dubbio sull’utilità e l’opportunità dell’operazione testé compiuta e la sua fiducia è ben giustificata. I vantaggi del “trattato” sono molteplici ed importanti. Alla vigilia d’avvenimenti decisivi, questo trattato riempie lo iato che si era creato tra il fascismo e D’Annunzio: Mussolini si presenta come un elemento conciliatore e personalmente favorevole ai fini politici che D’Annunzio persegue. Salvando per il momento la Federazione dei lavoratori del mare dall’assalto fascista, egli lascia credere a D’Annunzio che la conquista fascista del potere non cagionerà l’abbandono di quel “laburismo” al quale lui stesso ha pensato nel 1919 e nel primo semestre I92l e che D’Annunzio seguita a patrocinare. D’Annunzio è lusingato di poter mostrare che la sua protezione è efficace, d’altra parte si sente obbligato a Mussolini, il cui intervento personale è stato decisivo nella circostanza. Così il 20 ottobre ordina la “smobilitazione” dei legionari che aveva convocati a Fiume una settimana prima. È vero che la stampa del 24 ottobre annuncia che egli parlerà a Roma il 4 novembrexii seguendo il piano concepito dai combattenti d’accordo con Facta, Orlando ed Amendola. Ma già il 25 il suo segretario Coselschi dichiara a Firenze che il poeta “è molto stanco per il grande lavoro di questi giorni”, che i medici gli hanno ordinato del riposo e che o date queste condizioni, non saprei davvero dire s’egli potrà recarsi a Roma per il 4 novembre, come sarebbe suo desiderio”.

Mussolini, firmando quel trattato, alimenta inoltre certe speranze che da parte della C.G.L. e di alte organizzazioni operaie si erano poste in D’Annunzio. La Federazione dei lavoratori del mare, il cui compito è così importante dal punto di vista tecnico, giacché controlla praticamente tutti i trasporti marittimi, non impedirà più l’azione fascista. Il capitano Giulietti avrebbe persino – annuncia l’ “Avanti!” – posto a disposizione di Mussolini i piroscafi della federazione per il trasporto e il vettovagliamento dell’esercito fascista in caso di un’azione in Dalmazía.

Se i vantaggi previsti si mostrassero fallaci, se difficoltà troppo grandi sorgessero nell’applicazione del concordato, Mussolini ha, come sempre, preso le sue precauzioni. 11 concordato non sarà valido che entro trenta giorni. Nel frattempo avrà luogo la marcia su Roma o la conquista fascista del potere sotto altra forma. Mussolini non avrà più gran che bisogno di D’Annunzio e di Giulietti e potrà mantenere o distruggere il trattato secondo le esigenze della nuova situazione.

Con Giolitti la partita è più dura. È un uomo che non ha né grande immaginazione, né progetti straordinari. Vuol fare delle nuove elezioni, non subito, ma in primavera, dopo qualche mese di governo. Mussolini è in trattative con lui per mezzo del prefetto di Milano, Lusignoli, che ha già servito come intermediario fra loro all’epoca dell’azione contro Fiume. Giolitti vuol fare entrare i fascisti nel suo ministero e insiste affinché sia Mussolini stesso che li rappresenti. Ma le esigenze dei fascisti, che si sentono o si credono padroni del paese, sono ben più ambiziose che qualche mese prima e le trattative diventano difficili.

“I fascisti avrebbero chiesto all’on. Giolitti – precisa il “Corriere della Sera” del 19 ottobre – una rappresentanza nel nuovo Gabinetto, adeguata alla forza che essi hanno nel paese, e non proporzionata soltanto al numero dei seggi conquistati da essi nelle ultime elezioni. I fascisti chiederebbero tre portafogli importanti, anche la scelta del titolare del portafoglio degli Esteri dovrebbe rispondere ai loro desideri. D’altra parte, l’on. Giolitti desidererebbe la partecipazione dell’on. Mussolini al Ministero e gli avrebbe offerto un posto di ministro senza portafogli. Sulla riforma elettorale un accordo non sarebbe difficile, perché tanto l’onorevole Giolitti quanto l’on. Mussolini sarebbero favorevoli ad una revisione della legge vigente, in senso maggioritario, con applicazione della proporzionale alla minoranza”.

Lo stesso giorno, il “Popolo d’Italia” smentisce l’esistenza di un accordo politico Mussolini-Giolitti e smentisce pure che conversazioni abbiano avuto luogo, mentre il segretario del P.N.F., Bianchi, spiega a Montecitorio che le conversazioni sono fallite perché non si è voluto concedere ai fascisti un’adeguata partecipazione. I rapporti tra Giolitti e Mussolini non sono rotti, ma Giolitti ora dichiara che è disposto a formare il governo ad ogni costo, anche senza i fascisti, se questi continuano a porre delle condizioni esorbitanti. Il 23 ottobre, inaugurando la riunione del Consiglio provinciale di Cuneo, precisa la sua posizione nei loro riguardi: “In mezzo alle lotte – egli dice – aspre in alcune parti d’Italia, pacifiche in altre, un nuovo partito si affaccia alla vita politica italiana. Esso deve prendere quel posto al quale il numero dei suoi aderenti gli dà diritto, ma nelle vie legali, le sole che possano dare vera e durevole autorità ad un partito nell’orbita costituzionale, le sole per le quali si può attuare la parte fondamentale del programma di quel partito, di rialzare cioè l’autorità dello Stato per la salvezza, la grandezza e la prosperità della Patria”. Fino all’ultimo momento Mussolini lascia credere a Giolitti che essi sono d’accordo sulla sostanza e che le differenze non sorgono che sulla spartizione dei posti. Giolitti, da parte sua, intende forzare le trattative, facendo ripetere dai suoi amici che eventualmente farà a meno del concorso fascista.

II 23 ottobre egli riceve a Torino Corradini, già suo sottosegretario agli Interni, il prefetto Lusignoli, i ministri Beitone (popolare) e Teofilo Rossi, Armando Zanetti, direttore della “Sera” di Milano, e Giovanni Borelli che, al recente Congresso liberale di Bologna, si è pronunciato in favore di un’alleanza coi fascisti. Queste conversazioni e trattative riguardano la formazione di un nuovo governo: ogni decisione è rinviata a dopo il discorso che Mussolini pronunzierà a Napoli. In quello stesso giorno Lupi, che nell’agosto è stato il portaparola di Mussolini alla Camera, dichiara che i fascisti accettano che le elezioni si facciano in marzo, il che costituirebbe una concessione a Giolitti e una base possibile di compromesso con lui.

Salandra casca in pieno nella rete: egli accarezza la segreta speranza di ridiventare, grazie all’appoggio dei fascisti, presidente del Consiglio. All’occasione del Congresso dei Fasci della Capitanata che ha luogo il 25 settembre, una delegazione di congressisti si reca a rendergli omaggio. Salandra, molto lusingato, risponde che “si considera come fascista onorario, ma che si iscriverebbe fascista effettivo se non avesse settant’anni”. Che non gli si parli di dittatura in Italia. “Non c’è nessun pericolo, – dice -. E poi manca l’uomo, il dittatore”. L’Italia ritroverà un ministero Salandra, in cui sarà fatta, beninteso, larga parte ai fascisti. Quanto a Nitti, Mussolini sa che diffida e che occorre preparare un’esca capace di tentarlo. L’incidente che ha immobilizzato D’Annunzio verso la metà di agosto ha interrotte al tempo stesso le trattative tra Nitti e Mussolini. Ma Mussolini le riprende da solo verso la fine del mese di settembre. Invia ad Acquafredda Schiff-Giorgini, che fa a Nitti il seguente ragionamento: “Io vengo a nome di Mussolini. L’Italia va in rovina. Facta è un imbecille. Mussolini ha delle proposte da Giolitti, ha una intesa con Salandra, ma è convinto che voi solo potete riuscire. Bisogna che provocare una crisi extra-parlamentare. Bisogna che facciate un discorso che determini una situazione di crisi, che imponga le dimissioni di Facta, la formazione di un ministero di concentrazione”. Nitti risponde che non può trattare con Schiff-Giorgini, che non ha nessuna autorità per fado. Vuole delle serie garanzie per non compromettersi inutilmente. Che Mussolini gli mandi una personalità di rilievo per una tale missione. Mussolini si piega e incarica l’ambasciatore Romano Avezzana di continuare i colloqui: questi viene personalmente ad Acquafredda, conferma il primo messaggio di Mussolini e insiste affinché Nitti faccia al più presto la dichiarazione che Mussolini gli chiede. Nitti pone allora una serie di domande precise: 1) Quali sono attualmente le esigenze di Mussolini? si contenterà di un ministero e di due sottosegretariati? 2) Perché Mussolini ha trattato pure con Giolitti e Salandra? 3) Che farà dei Fasci? 4) È disposto a sopprimerli anche con misure militari repressive?

Mussolini gli risponde: 1) È impossibile che ora ci possiamo contentare di un ministero e di due sottosegretariati. I Fasci si sono sviluppati; essi hanno liquidato 1o sciopero. La situazione è mutata: noi vogliamo due ministeri e tre sottosegretariati di Stato, rinunciando ai portafogli politici e militari. 2) Mi meraviglio che Nitti si formalizzi a proposito dei miei colloqui. Ho trattato con Giolitti perché iI suo amico, il prefetto Lusignoli, mi lascia via libera a Milano e devo tenermelo buono. Quanto a Salandra. non conta nulla. 3) e 4) I Fasci saranno immediatamente disciolti. I1 barone Romano Avezzana fa ancora una volta la spoletta tra Milano ed Acquafredda e si stabilisce la procedura da seguire: Nitti preciserà in un discorso il suo pensiero sulla gravità della situazione ed affermerà la necessità di ricorrere a nuove elezioni; il “Popolo d’Italia” riprodurrà questo discorso senza commenti. Mussolini, che non vuol saperne di una Marcia su Roma, parlerà al Congresso di Napoli attaccando tutti, meno Nitti; la crisi parlamentare si produrrà e allora si formerà un ministero con Nitti e Mussolini per salvare l’Italia.

Secondo il piano convenuto, Nitti pronuncia, il 20 ottobre, nel piccolo teatro di Lauria, in Basilicata, un discorso dedicato soprattutto alle questioni finanziarie. Eccone i punti principali, quali sono enumerati dal “Popolo d’Italia”:

1) L’Italia ha bisogno soprattutto cii ricostruire l’unità economica dell’Europa continentale.

2) Data la situazione d’insicurezza dell’Europa, l’Italia deve tenere il suo esercito in assetto, sviluppando soprattutto i quadri degli ufficiali e restaurando l’aviazione.

3) Per avere i mezzi per la difesa, occorre restaurare il credito, occorre una finanza austera ed è necessario ridare fiducia al capitale. Finita l’inchiesta sui contratti di guerra, che ha reso insicura la vita di tante industrie, bisogna rivedere la materia degli extra-profitti. Bisogna riprendere il mercato dei titoli e abolire senz’altro ogni progetto di nominatività.

4) Il bilancio dello Stato deve essere ricondotto al pareggio.

5) Lo Stato deve rinunciare a tutti i servizi non necessari alla sua funzione… Occorre dar sicurezza ai servizi pubblici e dichiarare che 1o sciopero in essi costituisce reato.

6) Occorre ridare fiducia al capitale. Bisogna dunque rinunciare a tutte le riforme, quando possano comunque ostacolare 1a produzione o scoraggiare gli investimenti del capitale”.

Dopo questo discorso vi è un banchetto in cui Nitti si esprime come gli era stato chiesto da Mussolini:

“Il Governo attuale – dice – non è in condizione di affrontare alcuno dei problemi essenziali e le forze vive, in ogni campo, sono fuori dal Governo. Dopo quanto è avvenuto in questi giorni, è lecito domandarsi se non occorra risolvere le difficoltà attuali fuori dei metodi dell’ordinaria amministrazione e se non sia opportuno che il Paese venga rapidamente consultato. Troppo antagonismo si è manifestato tra la situazione parlamentare e la situazione che si è determinata nel Paese… La democrazia esiste, il socialismo esiste, ma il Fascismo, come fenomeno etico sociale. esiste ed ha assunto un’estensione che nessun uomo di Governo può trascurare… Noi dobbiamo utilizzare tutte le forze vive per raccogliere dal Fascismo la parte ideale, che è stata la causa del suo sviluppo, dobbiamo utilizzare insieme le forze più sane e più operose che vengono dalle masse popolari, incanalandole nelle forme legalitarie delle nostre istituzioni… I1 solo modo di avere un Governo forte è consultare i1 Paese. Ogni ritardo può essere un danno”.

Nitti riprende così una grande parte delle rivendicazioni del P.N.F. per l’ “assestamento” finanziario dello stato, quelle stesse che avevano guadagnato al fascismo le simpatie e il concorso degli ambienti economici italiani; sul problema militare adotta una posizione molto lontana da quella del 1919-20; e, infine, aderisce alla tesi fascista sulla necessità di elezioni molto vicine e si pone, ancora una volta, in conflitto con Giolitti, che vorrebbe consultare il paese solo entro sei mesi.

Il “Popolo d’Italia” pubblica 1e dichiarazioni di Nitti senza commenti, come era convenuto, ma sotto un titolo poco benevolo: “Un discorso disinvolto di Nitti”. Italo Balbo, nel suo Diario, fa notare che: “Anche Nitti ha virato di bordo col suo ultimo discorso; ma il vecchio filibustiere ha poco da sperare dal Fascismo. Ossia, sì; può sperare in un plotone d’esecuzione”. Che avrebbe detto Balbo se avesse saputo che il discorso era stato preparato in collaborazione con Mussolini e a sua richiesta?

Fino ad allora la massoneria italiana aveva avuto una attitudine molto favorevole al fascismo: gli elementi piccolo- borghesi, per spirito patriottico o nazionalista o perché attirati dalla “tendenza repubblicana” messa avanti da Mussolini; gli industriali e i capitalisti, per istinto di conservazione e di difesa contro la spinta socialista; e l’ “Ordine”, stesso, perché poneva le sue speranze nelle formule violentemente anticlericali del programma fascista del 1919 e nella crescente ostilità del fascismo verso il Partito popolare. A Milano un gruppo di industriali massoni è strettamente legato a Mussolini; fra essi v’è Cesare Goldmann, che è stato candidato nel novembre 1919 sulla lista presentata da Mussolini e Ceresola, che porterà a De Bono una forte sovvenzione della massoneria per la marcia su Roma. Il generale Capello è al tempo stesso fascista e membro 33 del Grande Oriente. Un gran numero di fascisti appartiene alla Grande Loggia della piazza del Gesú: Cesare Rossi, Italo Balbo, il marchese Perrone Compagni, i deputati Edoardo Torre, Acerbo, Terzaghi, Lanfranconi, Oviglio, Capanni. Tra il I9I9 e il 1922, un certo numero di Fasci sono costituiti per iniziativa massonica e Domizio Torrigiani, Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani, si vanta – per pentirsene più tardi e troppo tardi – d’avere “rimesso a galla” a più riprese 11 Fascio di Milano. A Firenze i dissensi interni del Fascio si ripercuotono sul piano massonico, con creazione di logge dissidenti e scomuniche reciproche. Tuttavia in certi ambienti fascisti si delinea una tendenza contro la massoneria, man mano che il fascismo si afferma come movimento antidemocratico. Alla fine del settembre 1922 il deputato De Stefani fa votare, da una riunione di segretari dei Fasci della provincia di Vicenza, un ordine del giorno dichiarante “incompatibile l’appartenenza al Partito Nazionale Fascista ai militanti nella Massoneria”. Qualche giorno dopo De Stefani interpella a questo riguardo Mussolini, che gli risponde: “Quanto alla Massoneria – verso la quale io ho immutato atteggiamento di avversione – non mi sembra tempestiva la discussione. Dovrà essere rifatta in tempi meno tempestosi; non mettiamo troppo pane sulla bilancia”. Mussolini modera, così, lo zelo di De Stefani, che rischia di fargli perdere preziosi aiuti. Il 19 ottobre, il Gran Maestro Domizio Tomigiani trasmette a tutte le logge del suo rito una circolare nella quale sottolinea l’importanza dell’apporto della massoneria al fascismo de1 primo periodo:

“A noi, che appena incominciata la terribile crisi del dopoguerra stabilimmo doversi l’Ordine adoperare con ogni mezzo alla difesa dello Stato, non può essere ingrato affermare oggi… che a dare vita ed alimento a quel moto nel suo inizio furono anche nuclei di Fratelli nostri molto autorevoli. I Fratelli si trovarono nei Fasci in numero ogni ora crescente. Essi cercarono di svolgere, nel contrasto interno delle tendenze ideali e sentimentali che accompagnò nel suo decorso il fenomeno fascista, gli elementi conformi allo spirito massonico. Come per tutti gli altri Fratelli, militanti nei partiti diversi, non pretendemmo di menomarle la loro libertà. di condotta, che è limitata soltanto dai nostri postulati essenziali. I capi del Fascismo conoscono e riconoscono, ne sono certissimo, la lealtà dei fascisti massoni.

La massoneria ha collaborato all’opera di pacificazione nazionale, pur rendendosi conto del compito benefico del fascismo.

“E quando vedemmo – continua la circolare – la gioventù volgersi con fervore d’entusiasmi a questo movimento, e unirsi a centinaia di migliaia gli operai organizzati (slc), fummo solleciti a considerare e far considerare che questo grande fenomeno politico doveva corrispondere, più o meno oscuramente, a qualche bisogno profondo della Nazione. Crediamo che sarebbe superficialità giudicarlo solamente dalle enunciazioni teoriche dei suoi capi. Bisogna osservarlo nel suo contenuto e nella sua realtà. …In senso politico si nota nei movimento un istinto impetuoso di rinnovazione… Nell’ordine economico bisogna soprattutto notare che, il fascismo già porta con se parecchie centinaia ai migliaia di lavoratori organizzati.. Ora, in rapporto ai princìpi massonici, una tale realtà contraddice qualche teoria fascista diretta contro ogni dottrina democratica. Una .vasta compagine di operai, organizzati per le conquiste economiche, non può condursi in definitiva a negare la libertà né la fratellanza né l’uguaglianza, ma a ben altro. La media borghesia idealista che ispira i Fasci e vi predomina non può tendere a fondare oligarchie ì a menomare la libertà. Ma altra cosa è la critica contro e democrazie parlamentari e contro i partiti esausti; altra è la negazione della realtà, la quale oggi è, nei moti delle masse, incoercibilmente democratiche”.

L’ottimismo di una tale analisi, che mostra nel Gran Maestro e nei suoi amici ciò che si potrebbe chiamare un “intelligente accecamento”, non giunge a sopprimere certe inquietudini del resto presto ricacciate:

“Che se – si noti bene – si sopraffacesse la libertà, o si menomassero le libertà singole, tutte essenziali, se si imponesse una dittatura. una oligarchia, tutti i Liberi Muratori sanno quale sarebbe il loro dovere: sanno che queste sono cose sacre per le quali la nostra tradizione gloriosa ed eroica ci insegna che si può vivere e si può morire. Ma noi non crediamo a codeste minacce. Una forza nuova entra a partecipare a1la vita della Nazione. La Massoneria non può augurare se non che questo accada per il bene d’Italia, il quale è religione per noi”.

È così che essa verserà per il finanziamento della marcia su Roma la somma di tre milioni e mezzo.