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Siamo all’epilogo della “rivoluzione” fascista. Una rivoluzione che si prepara a pranzo con la regina, a colloquio con gli industriali e con gli agrari, forse per un pugno di ministeri o forse per un incarico da primo ministro. Una “rivoluzione” che altro non è che un colpo di teatro reso possibile dal fatto che il re stesso toglie lo stato d’assedio a Roma per far entrare nella capitale i teatranti. L’unico vero atto di potenza è quello che si gioca nei “salotti bene”: Vaticano, Corriere della Sera, Confindustria, Associazione dei Banchieri, agrari, apparato dello Stato e infine monarchia stessa, spingono con tutta la propria forza per un Governo Mussolini.

 


La marcia su Roma, terza parte

Mussolini si oppone a che si sollevi ora la questione della massoneria, giacché non vuole alienarsela e non vuole nemmeno prendere un atteggiamento favorevole, che potrebbe costargli le simpatie del Vaticano e frenare lo scivolamento del Partito popolare verso destra. Già il 19 settembre, un gruppo di otto senatori popolari ha indirizzato a don Stuzo una lettera per sottolineare l’impossibilità di ogni collaborazione con i socialisti: “Non è inutile ribadire il convincimento che certi connubi ripugnanti ai princìpi più santi e più necessari della vita sociale non devono essere ammessi e molto meno cercati”. Un mese più tardi, il 21 ottobre, il Consiglio nazionale del P.PI. lancia un appello al paese che, pur contenendo delle affermazioni vigorose ed anche coraggiose in favore della libertà e della democrazia, non rappresenta meno, nel suo insieme, il “colpo di timone” a destra che hanno dato tutte le forze politiche del paese dopo la fine di agosto. L’appello si pronuncia in favore di nuove elezioni, ma o in quell’atmosfera di libertà nella quale l’atto di sovranità popolare deve essere compiuto”, e sulla base della proporzionale che Mussolini, Giolitti e Nitti vorrebbero abolire. Le elezioni debbono sboccare “nella politica finanziaria dello Stato ed economica del Paese e-nel rinsaldamento delle istituzioni costituzionali, nelle quali dovrebbero decidersi a vivere quelle nuove forze della Nazione che sappiano a tempo rinunziare a velleità insurrezionali e ad organizzazioni armate”. Questo appello “centrista” passa quasi inosservato, perché l’autorità del partito è stata intaccata da diverse manifestazioni venute dal Vaticano. La stampa italiana pubblica suppergiù nello stesso tempo una circolare indirizzata dal cardinale Gasparri, segretario di Stato, alle autorità ecclesiastiche, che suona nella circostanza come una disapprovazione del Partito popolare:

“È noto alla S.V. Ill.ma come negli ultimi tempi la Santa Sede sia stata fatta bersaglio di accuse e di attacchi da parte della stampa liberale sotto pretesto di accordi col Partito popolare, quasi fosse un’emanazione della Santa Sede o l’esponente dei cattolici nel Parlamento e nel Paese. Contro tali insinuazioni assolutamente false e calunniose 1a Santa Sede non ha mancato mai di protestare energicamente, dichiarando a più riprese che, fedele al principio di non lasciarsi trascinare nel gioco delle competizioni politiche, essa era rimasta sempre e intendeva rimanere totalmente estranea al Partito popolare come ad ogni altro partito politico, pur riservandosi di assumere verso di esso come verso altro partito, un’attitudine di riprovazione e di biasimo ove fosse venuto a mettersi in contrasto con i princìpi della religione e della morale cristiana”.

La destra del Partito popolare ottiene a Milano un successo considerevole, quando si deve formare una lista di candidati alle elezioni amministrative della città, dopo la dissoluzione “legale” del Comune socialista. In una prima assemblea, l’idea di fare lista a parte era prevalsa,prima assemblea, l’idea di fare lista a parte era prevalsa, ma il 23 ottobre, nel corso di un referendum per il quale l’Arcivescovo di Milano ha mobilitata tutta la sua influenza, la tesi dall’adesione pura e semplice alla lista del blocco nazionale ottiene una forte maggioranza.

Il Partito repubblicano non conta allora in Italia che forze assai ridotte, con qualche nucleo più importante nelle Romagne e a Genova, la città di Mazzini. Nelle Romagne l’odio pei socialisti ha gettato una parte dei repubblicani nelle braccia del fascismo, che sbandiera di tanto in tanto la sua “tendenza repubblicana”. In agosto, dopo 1o sciopero generale, il Partito repubblicano ha ritirato “l’adesione morale” che aveva dato all’Alleanza del lavoro. Nella seconda metà del 1922, le numerose dichiarazioni “lealiste” di Mussolini e di altri capi fascisti hanno un po’ attenuato l’entusiasmo dei repubblicani e la loro speranza di installare una qualsiasi “Repubblica”, grazie al fascismo. Mussolini s’adopera tuttavia a creare, nel seno del piccolo Partito repubblicano, un movimento di scissione. Verso la fine di agosto sono sorti alcuni “Fasci Repubblicani”, di cui il primo, quello di Genova, afferma la perfetta identità dei mezzi di lotta con quelli del Partito Nazionale Fascista per combattete sul terreno politico ed economico i partiti antinazionali di tutte le tendenze. Il 16 ottobre si è costituita a Roma la “Unione mazziniana nazionale”, su iniziativa di un avventuriero della peggiore specie, Carlo Bazzi, massone pure lui e uno dei dirigenti di quel “Sindacato nazionale delle cooperative” i cui fondi serviranno a finanziare la marcia su Roma.

Ma le cure più premurose Mussolini le consacra al Quirinale, dal quale dipende in ultima istanza la sorte del movimento fascista. Dalla sua polemica con il “Giornale d’Italia” fino al discorso di Udine, non ha cessato di enfatizzare i suoi “consigli” e le sue minacce alla Corona, pubblicamente, affinché si sappia a Roma di che si tratta. Non esita ad applicare alla monarchia la stessa tattica di divisione e di noyautage1, di cui s’è servito con i socialisti, i popolari, i liberali e i repubblicani. Il re è rimasto troppo fedele a Giolitti, che spera di veder tornare ben presto al potere, trascinando dietro il suo carro trionfale le forze dorate del fascismo e quelle ormai inoffensive del socialismo. A metà di ottobre, a Bruxelles, in occasione del fidanzamento del principe ereditario Umberto e della principessa Maria Josè, confida a re Alberto il suo ottimismo nei confronti della situazione italiana: Giolitti ha già il suo ministero in tasca e costituirà il governo fin dall’apertura della Camera fissata al 7 novembre . Ora, Mussolini ha delle buone carte nella stessa famiglia del sovrano. Il cugino del re, il duca d’Aosta, sposato a una Orléans, intrigante e ambiziosissima, è disposto a favorire i piani di Mussolini, che fa brillare ai suoi occhi la speranza di una reggenza. Il duca d’Aosta è un reazionario di tre cotte, che già nel 1920 proponeva al re di instaurare in Italia un regime analogo a quello di Horthy in Ungheria, cioè una dittatura spietatamente antioperaia e antisocialista.

Nel 1919-20 ha favorito l’impresa di Fiume e coperto col suo atteggiamento e colle sue iniziative nella zona di guerra la sedizione di una parte dell’esercito. Ora egli pensa d’esser vicino al traguardo, perché D’Annunzio, la massoneria di piazza del Gesù e certi fascisti – fra cui Mussolini – hanno, ciascuno dal suo canto, pensato a lui come a un eventuale candidato al trono, se re Vittorio Emanuele non si adattasse alla nuova situazione. In ogni caso Mussolini lascia correre le voci più inquietanti in proposito: il duca d’Aosta non è per lui che uno strumento una pedina nel suo gioco, estremamente preziosa, giacché Vittorio Emanuele sa ora che gli è stato trovato un successore pronto a tradirlo, anzi che già lo tradisce. A corte un’altra influenza si esercita a favore del fascismo, quella della regina madre, Margherita di Savoia, la vedova di Umberto I, del quale ha ispirata la politica liberticida che doveva sboccare nell’attentato di Bresci. Allorché i tre “comandanti generali” delle forze militari fasciste De Bono, De Vecchi e Italo Balbo si recano il 18 ottobre a Bordighera, per mettere a punto i preparativi della marcia su Roma, la regina li invita a cena nel suo palazzo. De Bono e De Vecchi accettano l’invito e si rendono conto che la regina conosce i motivi della loro presenza a Bordighera. Congedandoli, essa formula, racconta Balbo nel suo Diario, “i più grandi auguri per la realizzazione dei nostri piani, che – sono sue parole – non potevano che essere indirizzati alla salvezza e alla gloria della Patria”. Il “comando generale” fascista stabilisce a Bordighera il suo piano per la marcia su Roma; il generale De Bono ha scelto come punto di concentramento per l’ammassamento delle truppe fasciste Santa Marinella, presso Civitavecchia, Monterotondo e Tivoli. Non si fa assegnamento sulle forze del Mezzogiorno. Si pensa di stabilire a Perugia la sede del quadrumvirato e di concentrare a Foligno, sempre in Umbria, le truppe che arriveranno in ritardo e che costituiranno così una riserva. I1 20 si riuniscono ancora a Firenze i tre “comandanti” militari – De Bono, De Vecchi e Balbo – Michele Bianchi e il deputato Giuriati; prendono le ultime disposizioni per l’adunata di Napoli e nominano gli “ispettori generali” delle dodici zone nelle quali è divisa l’Italia: la prima e la seconda zona Liguria, Piemonte, provincia di Pavia, Lombardia sono assegnate al capitano Cesare Forni; la terza (Alto Adige, una parte della Venezia) a Italo Bresciani; la quarta (una parte della Venezia e tutta la Venezia Giulia) al deputato maggiore Giovanni Giuriati; la quinta (Emilia e Romagne) al maggiore Attilio Teruzzi; la sesta (Roma e Perugia) al sottotenente Ulisse Igliori; la settima (Toscana) al marchese Dino Perrone Compagni; l’ottava (Marche e Abruzzi al capitano Giuseppe Bottai; la nona (Campania e Basilicata)

al capitano Aurelio Padovani; la decima (Puglie e Calabria) al deputato capitano Giuseppe Caradonna; la undicesima (Sicilia) al capitano Achille Starace; per la dodicesima (Sardegna) la nomina è rinviata. Le colonne fasciste di Santa Marinella saranno comandate dal marchese Dino Perrone Compagni, con la collaborazione del generale Ceccherini; quelle di Monterotondo saranno agli ordini di Ulisse Igliori e del generale Fara; quelle di Tivoli agli ordini di Bottai. Il generale Zamboni sarà più tardi designato per comandare le riserve di Foligno. Il 24 ottobre ha luogo a Napoli la rivista delle forze fasciste, la quale comincia con un discorso di Mussolini, il mattino, al teatro San Carlo. Dopo aver ricordata la vittoria del 1918, mutilata perché “la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sulla circonvallazione di Vienna e per le arterie di Budapest”, Mussolini afferma che si è arrivati al momento “in cui la freccia si parte dall’arco, o la corda troppo tesa dell’arco si spezza”. Precisa in seguito la posizione e le rivendicazioni fasciste nei riguardi della situazione politica italiana:

“Voi ricordate che alla Camera italiana il mio amico Lupi edio ponemmo i termini del dilemma, che non è soltanto fascista, ma italiano: Legalità o illegalità? Conquiste parlamentari o insurrezione? Attraverso quali strade il Fascismo diventerà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato! Perché il giorno 4 ottobre io avevo già risolto il dilemma… Occorreva, o signori, affrettarsi verso di me, perché io non fossi più ancora agitato da1 dilemma interno. Orbene: con tutto ciò í1 deficiente Governo che siede a Roma, ove accanto al galantomismo bonario ed inutile de1l’on. Facta, stanno tre anime nere della reazione antifascista – alludo ai signori Taddei, Amendola ed Alessio – questo Governo mette il problema su1 terreno della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico!… Degli uomini politici domandano: che cosa volete, o fascisti? Noi abbiamo risposto molto semplicemente: lo scioglimento di questa Camera, la riforma elettorale, 1e elezioni a breve scadenza. Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca, conservata tra Ie forze della Nazione e quelle de1l’antinazione. Abbiamo chiesto dei severi provvedimenti di indole finanziaria, abbiamo chiesto un rinvio dello sgombero della zona dalmata ed abbiamo chiesto cinque portafogli, più il Commissariato dell’Aviazione. Abbiamo chiesto precisamente il Ministero degli Esteri, quello della Guerra, quello della Marina, quello del Lavoro e quello dei Lavori Pubblici. Io sono sicuro che nessuno di voi troverà eccessive queste richieste. Ed a completarvi il quadro aggiungerò che in questa soluzione legalitaria era esclusa la mia diretta partecipazione al governo, e dirò anche 1e ragioni che sono chiare alla mente, quando pensiate che per mantenere ancore nel pugno il Fascismo io debbo avere una vasta elasticità di movimenti anche ai fini, dirò così, giornalistici e polemici. Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora, si è risposto in un modo ridicolo… Si è parlato di ministri senza portafogli, di sottoportafogli: ma tutto ciò è irrisorio. Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fascisti non intendiamoì rinunciare alla nostra formidabile progenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali!… Il problema, non compreso nei suoi termini storici, diventerà un problema di forza”.

Mussolini termina il suo discorso facendo un elogio della monarchia e dell’esercito ed elevando un inno a Napoli “regina del Mediterraneo”. Nel pomeriggio del 24, assiste alla sfilata di 40.000 fascisti concentrati a Napoli, poi a una riunione in piazza del Plebiscito, dove prende congedo dalle Camicie nere in questi termini: “Vi dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il Governo o ce lo prenderemo calando su Roma. Ormai si tratta di giorni e forse di ore”. Il Corriere della Sera , nel suo editoriale del giorno dopo, nota che “la marcia su Roma, negata in articoli e in interviste di tutti i giorni, è riapparsa nettamente in queste parole di congedo: anzi al marciare su Roma è stato sostituito il calare su Roma – come su una preda”. Volontariamente sordo e cieco, il grande organo “liberale” aggiunge: “Noi vogliamo credere che il discorso di Napoli sia più un segno di impazienza che di risoluzione”. Non era questo il parere delle Camicie nere che in piazza del Plebiscito gridavano a squarciagola: “Roma! A Roma!”.

In questa atmosfera surriscaldata, dopo questa cerimonia delirante, si ha all’albergo Vesuvio, nella stessa Camera di Mussolini , alle 22, l’ultima riunione che deve pprendere le decisioni finali. Con Mussolini e con i Quadrumviri De Bono, De Vecchi, Balbo e Bianchi, sono presenti Teruzzi, Starace e Bastianini. Mussolini propone che le gerarchie politiche del partito passino i loro poteri al quadrumvirato al1a mezzanotte del 26 ottobre. “Lo scopo del movimento dev’essere la conquista del potere con un ministero che conti almeno sei ministri fascisti ai posti più importanti”. Viene decisa la mobilitazione per il 27:

“Quindi, il 28, scatto sugli obiettivi parziali, che sono prefetture e questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi, stazioni radio, giornali e circoli antifascisti, camere del lavoro. Una volta conquistate le città, nella stessa giornata, si proceda al concentramento delle squadre sulle colonne designate per la Marcia su Roma: a Santa Marinella, a Monterotondo, a Tivoli. Lì dove la conquista della città è facile e sicura, perché tutta la popolazione è fascista, come nella valle Padana e in Toscana, si lascino pochi fascisti di guardia alle posizioni: tutto il resto si invii ai concentramenti; dove invece la conquista della città non sia possibile o sl presenti problematica, non si tenti neppure 1’assalto agli uffici pubblici e si mandino tutti i fascisti ai concentramenti delle colonne. Il piano dovrà svilupparsi secondo l’ordine stabilito a Milano e Bordighera, e al comando degli ufficiali designati a Firenze. La mattina del 28 scatto sincrono delle tre colonne sulla Capitale. Nella stessa mattinata del 28, sabato, sarà pubblicato i1 proclama del Quadrumvirato, da Perugia, dove avrà sede. …Quanto alle armi, i Quadrumviri hanno già individuato due o tre depositi, sui quali può essere compiuto un colpo di mano. Comunque i fascisti potranno procedere al disarmo dei piccoli distaccamenti dei carabinieri nella campagna. Azioni particolari sono previste per Milano, Torino, Parma”.

A partire dal giorno dopo (25) hanno luogo alla sede del Fascio le riunioni del comando, che si prolungano sino a tarda ora, in cui sono fissate “dettagliate istruzioni” pei comandanti di zona, che devono raggiungere ciascuno la sua residenza e preparare la mobilitazione occulta del 27. Per far fronte ad ogni eventualità, il piano militare. vi è meglio precisato. Esso deve svolgersi in cinque tempi:

“1) Mobilitazione ed occupazione degli edifci pubblici nelle principali città del regno;

2) Concentrazione del[e camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo, Volturno;

3) Ultimatum al Governo di Facta per la cessione generale dei poteri dello Stato;

4) Entrata in Roma e presa di possesso ad ogni costo dei Ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste avrebbero dovuto ripiegaee verso l’Italia Centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria;

5) Costituzione del Governo fascista in una città dell’Italia Centrale. Radunata rapida delle camicie nere della Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria e al possesso!”

Come si vedrà più oltre, solo il primo di questi tempi riuscì e parzialmente; il secondo si attuò in modo caotico, sicché ne sarebbe certamente risultata la sconfitta della “marcia” se la situazione politica non avesse evoluto altrimenti: questa evoluzione rese superflui gli altri tempi.

Nella serata del 24 comincia la dislocazione delle squadre: alcuni treni speciali riportano alle loro sedi i fascisti venuti a Napoli da ogni parte d’Italia. Mussolini lascia la città il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, e partono pure altri capi fascisti per portare nei loro paesi l’ordine di mobilitazione.

La “marcia su Roma” dunque, avverrà…Mussolini l’ha veramente voluta? Gli storiografi ufficiali del fascismo non lo pongono in dubbio; altri lo negano fondandosi sulla testimonianza di certi collaboratori del “duce” che ce lo descrivono esitante, desideroso di un compromesso: essi assicurano che si è dovuto “spingerlo a Roma a calci”; altri infine ce lo rappresentano mentre gioca su tutte le poste, tratta con tutti e tutti tradisce, per decidersi solo all’ultimo, secondo le circostanze ed il proprio interesse. Ognuna di queste “istantanee” – e soprattutto l’ultima – coglie la reale attitudine del “duce” in un momento determinato ma non ci dà, da sola, la chiave del problema. Tra la primavera del 1921 e lo sciopero generale dell’agosto 1922, Mussolini ha considerato i1 proprio avvento al potere sotto la forma di una partecipazione ad un governo di coalizione: governo dei tre “partiti di massa” nel luglio 1921, governo di unione nazionale orientato a destra nel 1922, eventualmente con una puntarella socialista. Dopo 1o sciopero d’agosto egli si prospetta ancora, durante alcune settimane, la formazione di un ministero di coalizione che non sarebbe presieduto da lui: pensa a Giolitti, a Salandra, a Nitti. Ha voluto ingannarli solo per meglio mascherare i preparativi della “marcia”? Si potrebbe ammetterlo, se Mussolini fosse stato interamente certo di scegliere la sua strada e se avesse potuto trascurare il fattore “tempo”. Già in seguito alle grandi “offensive” fasciste, egli ha sentito che occorreva giungere al potere al più presto ed ora questa esigenza è divenuta imperiosa. Mussolini non è per nulla sicuro che il fascismo possa giungervi con l’azione diretta e violenta. Egli sa troppo bene che 1o Stato, per debole che sia, può – con misure anche elementari – impedire un colpo di mano, A volte l’idea di consacrare la “sua” vittoria con un teatrale ingresso a Roma alla testa delle sue truppe gli sorride, ma il suo più profondo istinto lo mette in guardia contro ogni “romanticismo” e gli suggerisce soluzioni meno brillanti e meno rischiose. Se la “marcia su Roma” presenta troppe incognite, occorre trovare, ad ogni costo, altri mezzi: di qui le conversazioni con i vecchi uomini politici. Quando Mussolini pone l’alternativa: conquista legale o azione violenta, egli è “sincero”, perché segue la logica della situazione e dei suoi interessi e perché la scelta realmente si impone a lui ed a tutto il movimento fascista. Da un lato egli sa quanto la situazione sia mutata in suo favore e quale forza le offensive fasciste, la carenza dello stato e gli errori dei suoi avversari hanno messo a sua disposizione. Questa forza intende utilizzarla fino in fondo e tradurla sul piano del potere politico.

D’altra parte si rende conto che la situazione ha raggiunto una tale tensione che la decisione non può

essere ulteriormente rimandata. Già all’inizio di ottobre ha temuto di essere ridotto alla scelta tra un governo Giolitti e l’insurrezione ed ha fatto di tutto per non lasciarsi impigliare in questa alternativa. Verso la metà di ottobre, tra tutte le ragioni che lo spingono a una decisione, due soprattutto gli forzano la mano: la volontà di Giolitti di formare un governo anche senza i fascisti, e la messa in scena progettata da Facta per il 4 novembre a Roma con D’Annunzio ed i combattenti riuniti davanti all’Altare della Patria. A questo punto il P.N.F. Chiede l’immediata convocazione della Camera e nuove elezioni. Secondo Italo Balbo si tratta d’una manovra. “Si gioca a rimpiattino. – scrive nel suo Diario- Questo spettro delle elezioni è più che sufficiente ad accecare gli occhi dei vecchi parlamentari, che sono già tutti in moto per invocare la nostra alleanza. Con questa lusinga faremo di loro quel che vogliamo. Siamo nati ieri, ma siamo più intelligenti di loro”. È probabile che questa spiegazione gli venisse da Mussolini stesso. Ma Ia manovra è più complicata di quanto essa non appaia agli occhi dei suoi più ardenti collaboratori. Mussolini può permettersi di parlare di elezioni, tanto più che in questo campo è sicuro di ottenere un grande successo. Il 15 e il 22 ottobre, le elezioni amministrative nelle province di Rovigo e Reggio Emilia hanno dato delle grandi maggioranze alle liste fasciste: i socialisti, che nel 1920 erano ovunque vittoriosi, hanno dovuto rinunciare alla lotta. A Milano, popolari e democratici sono entrati con i fascisti nella lista del blocco nazionale per strappare il Municipio ai socialisti. Le conversazioni con Giolitti sono fallite, ma Mussolini continua a prospettare la “marcia su Roma” o piuttosto la mobilitazione delle forze militari del fascismo come un mezzo per imporre la soluzione che Giolitti non ha voluta: il movimento, com eegli ha precisato nella riunione all’albergo Vesuvio, deve ottenere “la formazione di un ministero che conti almeno sei fascisti dei dicasteri più importanti”. Anche dopo il 16 ottobre , Mussolini non si lascia sedurre dalla mistica della “marcia”. Questa resta, per lui, un mezzo, un mezzo come tutti gli altri, più pericoloso degli altri e fino l’ultimo minuto spera in cuor suo di non doverlo impiegare. I comandanti della milizia, i capi squadristi, al contrario, non concepiscono altra soluzione. Sono essi che nella riunione di Napoli, chiedono “la immediata mobilitazione per arrivare fino alla meta”. Mussolini cerca di conservare una maggiore libertà d’azione e continua le conversazioni, senza comunicarne agli altri il contenuto preciso, o anche senza lasciarne trapelare alcunché, come nel caso delle trattative con Nitti. È certo durante questo periodo che, secondo Massimo Rocca, si sarebbe inalberato ed irritato per le impazienze dei partigiani dell’azione diretta: “Io mi sono creato per la seconda volta nel fascismo una forza personale; se il fascismo non vuole sentirmi, lo schiaccerò”. Il segretario della Confederazione generale dell’industria, il deputato Gino Olivetti, che partecipò alle conversazioni politiche con Mussolini alla vigilia della marcia su Roma, dirà più tardi a un deputato socialista: “Mussolini manovrò con abilità diabolica. Fino all’ultimo trattò con tutti e quando ebbe la certezza di essere ben piazzato in qualunque ministero, diede il via alla marcia e la lasciò fare”. Ma Mussolini non ha solo voluto stornare l’attenzione dei suoi avversati ed ingannarli, ma anche riservarsi delle soluzioni di ricambio. Nel suo spirito la “marcia su Roma” è, nella linea delle sue trattative, un mezzo di pressione per condurle con successo. Infine Mussolini, rimettendo tutti i poteri al quadrumvirato fascista, si è sganciato da ogni responsabilità diretta nell’avventura e si è conservata la possibilità di agite al di fuori del quadro della “marcia su Roma”. In fondo, ha più fiducia nella sua abilità manovriera che nelle risorse militari del “comando generale”. Ben a ragione Gaetano Salvemini, in uno studio penetrante dedicato all’avvento di Mussolini, nota che Mussolini, partito da Napoli il 25, ha attraversato Roma senza fermarvisi, si è astenuto dal raggiungere a Perugia il quadrumvirato fascista e si è recato a Milano. Se avesse creduto allo sbocco vittorioso del movimento “si sarebbe sicuramente recato a Perugia per attribuirsi tutta la gloria del ” combattimento ” e della vittoria nel centro dell’insurrezione”. Ora preferisce restarsene a Milano a 800 chilometri da Roma. ma a due ore dalla frontiera svizzera, conservandosi così non solo delle posizioni politiche di ripiego, ma la possibilità stessa di una fuga, se la situazione volgesse al peggio. Dopo la giornata del 24, il Congresso fascista di Napoli, che si apre il giorno seguente, ha perso ogni interesse. Tuttavia si tiene. “Il Congresso – nota Italo Balbo – resta semi deserto. Ma ci sono gli ostinati, la gente che ha preparato il discorso e non vuole rinunciarvi… Eppure bisogna che la commedia del Congresso continui ancora, per lo meno fino a tutto domani. Solo così potremo ingannare il Governo e l’opinione pubblica”. In realtà questo Congresso può ingannare solo coloro che voglion essere ingannati, giacché le allusioni all’azione imminente vi si ripetono spesso. Michele Bianchi, nella sua breve relazione proclama: “Oggi il peso maggiore nella bilancia politica e nella Nazione italiana è dato da Noi. Eravamo esitanti fino a qualche giorno fa; ma, o signori, è nell’animo vostro come è nell’animo mio che tutte le esitazioni hanno lasciato libero il campo ad una precisa ostinata volontà che vorrà e dovrà essere vittoriosa. Come la conquisteremo noi questa vittoria? Non è il caso, mi pare, di discutere in pieno Congresso e non è neppure il caso di convocare il Comitato segreto di 70 e più membri. Basta guardarci per intenderci e io credo che già ci intendiamo a pieno”. E siccome i dibattiti si prolungavano, lo stesso Bianchi interrompe la discussione gridando: “Insomma, fascisti, a Napoli ci piove, che ci state a fare?”. I dibattiti proseguiranno tuttavia fino al giorno dopo, 26 ottobre. Si esprimono voti su diverse questioni, ma non se ne risolve alcuna, poiché esse saranno tra poco affrontate dal punto di vista delle responsabilità di governo e delle risorse del potere. Così, a proposito del problema elettorale Grandi nota: “Le gerarchie politiche del Partito non contano più ed hanno trasmesso i loro poteri al Comando generale. Oggi qui non si discute, ma si obbedisce”.

Il rapporto di Dudan sulla politica estera insiste sugli interessi italiani nel Mediterraneo e nell’Adriatico; richiama la necessità di “stringere rapporti amichevoli con gli Stati dell’Europa centrale e orientale che non sono strumenti in mano dei nostri avversari”; indica le direttive di una politica italiana in quanto concerne il Montenegro, l’Albania, la Turchia, il Levante. Nel corso del dibattito che segue son votati degli ordini del giorno la protezione dell’emigrazione italiana in Tunisia e ovunque sulla Dalmazia, su una politica più energica in Tripolitania e in Cirenaica. Un congressista, parlando del vicino Oriente, afferma che “l’attuale momento di caos é favorevole a noi perché in quest’opera possiamo sperare in una revisione dei trattati e in un miglioramento della nostra situazione” e raccomanda di serbare la più grande libertà d’iniziativa: “Un partito che si trova alla vigilia di assumere il Ministero degli Esteri fa bene a non promettere nulla”.

A Roma, gli ambienti governativi hanno seguìto le giornate di Napoli con sentimenti diversi. Chi temeva di vedere le squadre fasciste marciare direttamente da Napoli sulla capitale è ora rassicurato; chi sperava, grazie a qualche incidente, in un’azione repressiva vigorosa, è deluso. Ma i discorsi di Mussolini, le sue minacce e le sue allusioni mettono il ministero Facta in una situazione insostenibile: bisogna prendere posizione, non è più possibile aspettare fino al 7 novembre, data della convocazione della Camera. La destra vigila e decide di precipitare la crisi, per impedire ogni combinazione Giolitti. Su preghiera dei deputati fascisti De Vecchi e Grandi, Salandra invita Facta a dimettersi. Siccome questi esita, l’uomo di fiducia dei fascisti e della destra nel ministero, Riccio, minaccia di dimettersi lui solo ed è così che si arriva, nel pomeriggio del 26, ad un compromesso: dopo una riunione che è durata dalle 18 alle 19, i ministri non sidimettono, ma decidono di mettere i portafogli “a disposizione del Presidente del Consiglio per lasciargli la facoltà di esaminare con più libertà la situazione. Nella notte tra il 26 e il 27, all’una del mattino, Michele Bianchi telefona a Mussolini per informarlo sulla situazione, e riceve la risposta: “Nulla da mutare a quanto deciso”. L’indomani, venerdì 27, il Consiglio dei ministri si riunisce di nuovo, e, dopo una discussione di tre ore, che finisce alle 19,30, rassegna le dimissioni. Nello stesso tempo, appena si ha sentore che la mobilitazione fascista è cominciata, vengono prese alcune misure già predisposte, e tutti i poteri vengono trasmessi all’autorità militare. a decorrere dalla mezzanotte. Le dimissioni del ministero aggravano la crisi ed indeboliscono ancor più ii governo, che rinuncia alla sua autorità nel momento stesso in cui sarebbe stato necessario affermarla con la massima energia. La destra vuol prevenire la marcia su Roma con una combinazione ministeriale presieduta da Salandra, utilizzando, per imporla, la pressione fascista, come nel 1914. Tutti i giornali conservatori e liberali, dal “Corriere della Sera”, al “Giornale d’Italia”, chiedono un “governo forte”, del quale dovrebbero fare parte i fascisti. L’ “Idea Nazionale”, organo nazionalista, esige apertamente una soluzione extra-parlamentare della crisi: “Facta- essa constata – ha dimostrato di comprendere le necessità del momento presentando le dimissioni del gabinetto senza aspettare il voto del parlamento. Ma le dimissioni del gabinetto non bastano… La soluzione della crisi presente non può trovarsi sul piano parlamentare. Non è stata determinata da uno spostamento di forze parlamentari, ma da una rivolta della coscienza del paese, e dalla maturazione di energie nuove pronte ad esplodere da un momento all’altro”.

Nell’attesa, le trattative e le manovre continuano. Orlando e il prefetto Lusignoli si recano a Cavour da Giolitti, che festeggia il suo ottantesimo compleanno. D’Annunzio, che dopo il concordato con Mussolini, non è più tanto deciso a recarsi a Roma il 4 novembre, cede sempre più. I dirigenti dell’Associazione dei mutilati di guerra, Ruggero Romano e Carlo Delcroix, vanno a Gardone per persuadere il “Comandante a non rinunciare al suo progetto. Questo tentativo si rivela inutile, poiché il 27 si annuncia che la cerimonia non avrà più luogo “per evitare che anche questa nobile iniziativa dei mutilati e che il nome e la figura del Comandante possano servire ad oscure trame politiche” Facta, messosi in contatto con il re e con Mussolini, chiedea tutti e due di venire a Roma. Il re, che è in villeggiatura a Sab Rossore, ritorna alla capitale alle 8 di sera; Mussolini si rifiuta. La sera stessa, Facta va a render visita al re e gli comunica le dimissioni del Gabinetto. Il re sembra assai irritato dagli avvenimenti, ma Facta cerca di dimostrargli che le misure prese daranno il tempo per trovare una soluzione 1e3. Poiché Facta ha, lui pure, una soluzione. Nel discorso di Napoli, Mussolini ha reso omaggio alla sua “onestà” ed ha denunciato “l’antifascismo” dei ministri Taddei, Amendola ed Alessio rea. Non potrebbe forse arrivare a un terzo ministero Facta, sostituendoli con tre ministri fascisti? Ma le dichiarazioni che il segretario del P.N.F., Bianchi, fa alla stampa nella notte dal 27 aI 28, non lasciano quasi speranza per una soluzione di questo genere: “La crisi è extra-parlamentare. La Camera è messa da parte. Essa non ha dato una designazione. La successione non può dunque toccare se non a coloro che, fuori dal Parlamento, hanno determinato la crisi, cioè ai fascisti… Al lume del buon senso, si dovrebbe avere un ministero Mussolini… Un ministero Salandra, uno Giolitti o Orlando o Giolitti-Orlando sarebbe fuori anche del buon senso, e ricordatevi poi ad ogni modo che una qualsiasi combinazione coi fascisti dovrebbe comportare fra l’altro il ministero degli Interni per noi”. E Bianchi termina le sue dichiarazioni smentendo “nuovamente e recisamente la voce di una marcia su Roma, di una mobilitazione generale e di un colpo di Stato”. “La conquista di Roma è in atto, non c’è bisogno di mobilitazione, né di colpo di Stato”. Nello stesso tempo arrivano a Roma notizie che non è più possibile ignorare sulla mobilitazione fascista in corso, e sulla occupazione delle caserme e di edifici pubblici in alcune città della Toscana. Il “Popolo d’Italia” esce la mattina dopo con questi titoli: “La storia d’Italia ad una svolta decisiva”.

La mobilitazione dei fascisti è già avvenuta in Toscana2. Tutte le caserme di Siena occupate dai fascisti. I grigioverde fraternizzano con le Camicie nere. Facta è quindi obbligato a convocare nella notte il Consiglio dei ministri, che decide la proclamazione dello stato d’assedio a decorrere dal sabato 28, a mezzogiorno. È nella mattina del 28 che si decidono le sorti d’Italia. Le dimissioni del governo hanno messo tali sorti nelle mani del re, diventato ad un tratto arbitro della situazione. Al Quirinale ed al Viminale si sta giocando una partita decisiva, della quale si possono seguire ora per ora le fasi e ove tutti i personaggi hanno una parte di tragediante-commediante che complica ancor di più la trama. Alle 9, Facta si reca dal re per fargli firmare il decreto di stato d’assedio annunciato al paese da un proclama del governo. Ma già prima di questo colloquio, sono stati fatti dei tentativi per impedire l’esecuzione della decisione ministeriale. Fin dalle prime ore del mattino, il re è oggetto di pressioni da varie parti. Alle 7,30, racconta Chiurco3 “il dott. Ernesto Civelli- solo e primo fra tutti – illustrava al Sovrano la situazione, annunciandogli il concentramento di 70.000 fascisti che chiudevano Roma. Gli comunicava che i fascisti erano col Re, sicuri che il Sovrano sarebbe stato coi fascisti”. Intanto, alle sei del mattino, il deputato nazionalista Federzoni e Roberto Forges Davanzali, redattore del’ “Idea Nazionale”, si recano da Facta e gli chiedono se mantiene ancora qualche contatto con i dirigenti del movimento fascista. Alla sua risposta negativa si offrono di ristabilire questi contatti e dal gabinetto stesso del presidente del Consiglio telefonano a De Vecchi, a Perugia, sede del quadrumvirato fascista, ed a Mussolini a Milano, invitandoli a venire a Roma. De Vecchi accetta, Mussolini rifiuta ancora una volta. Rientrato al Viminale, Facta riferisce al Consiglio dei ministri sulle esitazioni del re. Il Consiglio lo incarica di recarsi di nuovo dal sovrano, e di insistere affinché firmi stato d’assedio già proclamato. Probabilmente tra la prima e la seconda visita di Facta, che ha avuto luogo alle 10, si sono avuti altri interventi presso il re: quello di Federzoni, che annuncia la mobilitazione nazionalista, quello dell’ammiraglio Thaon di Revel, che chiede al re di evitare ogni possibile conflitto tra i fascisti e l’esercito. Gli si fa pure sapere che suo cugino, il Duca d’Aosta, si trova a Bevagna, non lontano da Perugia. in contatto con il quadrumvirato, disposto a lasciarsi mettere sul trono qualora il re fosse deposto dai fascisti o rinunciasse alla corona. Così Facta si vede opporre un secondo e definitivo rifiuto dal re ed al Consiglio dei ministri non rimane altro che ritirare il decreto. Alle 11.30, l’agenzia Stefani è “autorizzata ad annunciare che il provvedimento della proclamazione dello stato d’assedio non ha più corso”. La decisione del re che sconfessa il suo governo toglie a quest’ultimo quel po’ di autorità che poteva rimanergli e rovescia completamente la situazione. Questa decisione crea sotto ogni riguardo l’irreparabile.

“Revocando lo stato d’assedio – scrive Gaetano Salvemini – il re aveva non solamente esautorato il gabinetto dimissionario, aveva pure rinunciato alla facoltà di designare liberamente il nuovo presidente del Consiglio. Fino-alle 12.15 del 28 ottobre – ora alla quale il comunicato Stefani fu trasmesso ai giornali – Salandra avrebbero potuto negoziare con i fascisti -p-er iuti .”it”t. nel gabinetto in qualità di subalterni. A partire dalle 12.15 del 28 ottobre Mussolini diviene il padrone della situazione”.

Nel pomeriggio del 28 il re continua le consultazioni. De Vecchi arriva a Roma all’una e vede il re, che riceve anche il presidente della Camera, De Nicola, e i deputati Cocco-Ortu, Orlando, De Nava e Salandra. Giolitti e Mussolini, chiamati, non sono venuti. Alle 17 il re riceve ancora una volta Facta e per una seconda volta De Vecchi, che “ha esposto al re le finalità altamente Patriottiche del movimento”. Nel parlare, scrivono i giornali, il quadrumviro De Vecchi eri molto commosso, ed anche il re, che lo ha abbracciato dichiarandogli d’essere stato lui, lui solo, a rifiutare la firma al decreto dello stato d’assedio e che, pure “osservando scrupolosamente le garanzie costituzionali, avrebbe dato all’Italia il governo che meglio rispondesse alle necessità nazionali”. Per formare questo nuovo governo, il re chiama, verso le 18, Salandra, che si mette subito in contatto con i capi del movimento fascista: De Vecchi, Ciano e Grandi, ed espone loro le sue intenzioni. Il “Giornale d’Italia” esce nella sua sesta edizione, fra le 9 e le 10 della sera, con la notizia della costituzione del gabinetto Salandra-Mussolini con quattro portafogli riservati ai fascisti. Manovra per preparare l’opinione pubblica e per impegnare i fascisti? Forse. Ma questa manovra è fondata su un elemento positivo: l’accettazione di principio da parte dei capi fascisti che si sono riservati solamente di ottenere il consenso di Mussolini, del quale non dubitano. Che la maggioranza dei capi fascisti fosse d’accordo nell’accettare le proposte Salandra ne fa fede un articolo di Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del P.N.F. e tesoriere della “marcia su Roma”. Questi ha raccontato, più tardi, in qual maniera furono interrotti i negoziati:

“Alle. ore 23 (deI 28) dopo le ultime conversazioni al Quirinale alle quali parteciparono Salandra, De Vecchi ed altri, nella redazione del giornale “Il Resto del Carlino”, in piazza Colonna, convennero 1’on. De Vecchi, l’on. Ciano, Giovanni Marinelli, l’on Grandi, l’on. Postiglione e l’on. Polverelli. Una serena e obiettiva relazione degli avvenimenti, delle trattative intercorse e dei nuovi tentativi svoltisi nelle faticose giornate, venne fatta da De Vecchi, Ciano, Grandi e Polverelli. Con longanimità senza pari, fu affacciata una combinazione con un governo Salandra-Mussolini. Chi scrive queste righe e 1’on. Postiglione ebbero l’incarico penoso di telefonare al Duce la relazione della laboriosa vicenda. Ciò che adempiemmo, pur con anima presaga di ben altro sbocco. All’una dopo la mezzanotte entrammo al Viminale, pressoché deserto. Salimmo alle stanze del Gabinetto del Ministro dell’Interno. Taddei era irreperibile, e ivi incontrammo l’on. Fumarola, il dimissionario Sottosegretario all’Interno, e il suo capo di gabinetto. L’on. Fumarola ci ricevette con viso sorpreso e spaventato, mettendo subito a nostra disposizione la comunicazione telefonica con Milano, che era 1o scopo della nostra visita. L’on. Postiglione, postosi in comunicazione col Duce, lesse la nota relazione con la proposta combinazione, che Mussolini ascoltò tutta, senza mai interrompere. Mussolini, finita la lettura della comunicazione, dopo aver chiesto se null’altro ci fosse da partecipargli, rispose con le seguenti parole: “Non valeva la pena di mobilitare l’Esercito fascista, di fare una rivoluzione, di avere dei morti, per una soluzione Salandra Mussoloni e per quattro portafogli. Non accetto “. Sentii il colpo secco del ricevitore battere forte sull’apparecchio. Con l’anima piena di commozione comunicammo all’on. De Vecchi, che ci attendeva all’Hote1 Moderno, la superba indeclinabile risposta del Duce”.

Nel momento in cui riceveva la telefonata di Postiglione all’una, l’una e mezzo del mattino del 29, Mussolini aveva già redatto l’editoriale del “Popolo d’Italia” che sarebbe uscito il mattino stesso del 29:

“La situazione è questa: gran parte dell’Italia settenrionale è in pieno potere dei fascisti. Tutta l’Italia centlale, Toscana, Umbria, Marche, Alto Lazio è occupata dalle Camicie Nere. Dove non si sono prese d’assalto le questure e le prefetture, i fascisti hanno occupato stazioni e poste, cioè i gangli nervosi della Nazione… La vittoria si delinea già vastissima. Ma la vittoria non può essere mutilata da combinazioni dell’ultima ora. Per arrivare a una transazione Salandra, non valeva la pena di mobilitare. Il Governo dev’essere nettamente fascista… Ogni altra soluzione è da respingersi. Comprendano gli uomini di Roma che è ora di finirla coi vieti formalismi, mille volte e in occasioni meno gravi calpestati. Comprendano che sino a questo momento la soluzione della crisi può ottenersi rimanendo nell’ambito della più ortodossa costituzionalitàxix, ma che domani sarà forse troppo tardi. Si decidano!”

I1 Fascismo vuole il potere e lo avrà. Il 28 a sera, Mussolini si rende conto che la prima parte del piano fascista è riuscita quasi senza incontrare difficoltà, e che l’abolizione dello stato d’assedio gli consegna Roma ed il potere. A Roma l’idea di una combinazione Salandra-Mussolini prevale ancora, poiché alcuni capi fascisti, come De Vecchi e Ciano, il re, gli alti ufficiali dell’esercito, i nazionalisti sono favorevoli ad essa. Ma Mussolini, che avrebbe probabilmente accettato questa soluzione qualche giorno prima, e che si sarebbe ad essa rassegnato in caso di fallimento della mobilitazione fascista, non vede ora perché dovrebbe rinunciare a sfruttare fino in fondo per i suoi scopi la vittoria che ha riportata. All’inizio del movimento, ha scritto a D’Annunzio proponendogli la instaurazione di una dittatura a tre: Mussolini, D’Annunzio ed il duca d’Aosta. D’Annunzio ha rifiutato. Ma la sera stessa del 28, vetso le 10, Mussolini è già in grado di spedire a Gardone questo nuovo messaggio: “Mio caro Comandante, le ultime notizie consacrano il nostro trionfo. L’Italia di domani avrà un governo. Saremo abbastanza discreti e intelligenti per non abusare della vittoria. Sono sicuro che voi la saluterete come la migliore consacrazione della rinata giovinezza italiana. A voi! Per voi!”. E gli emissari che hanno portato questo messaggio a D’Annunzio gli spiegano che il re ha rifiutato di firmare il decreto dello stato d’assedio, e che “affiderà certamente a Mussolini il compito di formare il nuovo governo”. Ciò che dà questa certezza a Mussolini non è solo lo sviluppo della situazione in generale, ma anche gli appoggi decisivi che egli sente attorno a sé.

Mentre a Roma si insegue il miraggio di una soluzione Salandra, a Milano si lavora seriamente per una soluzione Mussolini. Attive conversazioni si svolgono tra Mussolini, il prefetto Lusignoli ed i dirigenti della Confederazione generale dell’industria4, i deputati A. Stefano Benni e Gino Olivetti. I dirigenti dell’Associazione bancaria, che avevano versato 20 milioni per finanziare la “marcia su Roma”, e quelli della Confederazione dell’industria e della Confederazione dell’agricoltura telegrafano a Roma per avvisare Salandra che la situazione non permette altro sbocco che un governo Mussolini. Il senatore Ettore Conti, grande magnate dell’industria elettrica, ed il senatore Albertini, direttore del “Corriere della Sera”, al quale l’indomani i fascisti impediranno di uscire, telegrafano da parte loro a Facta per pregarlo di chiedere al re di affidare a Mussolini la formazione del ministero. Lo stesso giorno il papa pubblica un appello alla pacificazione, che è praticamente un appello al disarmo ed alla tolleranza verso la sedizione fascista. Chiurco rivela che il Vaticano ha preso le sue precauzioni a tempo: “Frattanto – scrive – la Santa Sede fa sapere, attraverso un alto emissario, che sarebbe grata di conoscere i propositi politici del Fascismo verso la Chiesa”. Da parte fascista si risponde “dando le più leali assicurazioni”. Mussolini è dunque il candidato della plutocrazia e delle “congregazioni economiche”, dei “liberali” – che lo preferiscono ai vecchi uomini politici come Salandra -e del Vaticano. Tra qualche ora sarà anche il candidato della monarchia. Salandra, che si era riservato di rispondere al re entro ii giorno seguente (domenica 29), si reca alle dieci al Quirinale per declinare l’incarico di formare il nuovo Gabinetto, e designa Mussolini come il solo che abbia la possibilità di riuscirvi. Il re allora prega De Vecchi di chiedere per telefono a Mussolini di venire a Roma. Mussolini risponde che non lascerà Milano finché non avrà ricevuto un telegramma del re che 1o incarichi esplicitamente di formare il ministero. Il generale Cittadini, aiutante di campo del re, spedisce subito un telegramma così concepito: “S. M. il Re ia prega recarsi al più presto a Roma desiderando darle incarico di formare il Ministero. Ossequi. Cittadini”. Mussolini decide allora di partire con un treno speciale verso le tre del pomeriggio, poi cambia parere e lascia Milano solo la sera, con il treno delle 20.

Mentre si sviluppa la crisi politica aperta dalle dimissioni del Gabinetto Facta, tra il pomeriggio del 27 ed il mattino del 29, le gerarchie fasciste hanno eseguito la prima parte del piano di cui avevano fissato gli ultimi particolari la sera del 24 ottobre a Napoli. Era stato deciso che la trasmissione di tutti i poteri al quadrumvirato sarebbe stata effettuata nella notte dal 26 al 27 ottobre e che la mobilitazione delle squadre fasciste avrebbe avuto luogo clandestinamente nella notte dal 27 al 28 ottobre. Nella mattinata del 28 gli obiettivi locali del movimento dovevano essere raggiunti e nello stesso tempo dovevano mettersi in marcia le tre colonne destinate alla azione sulla capitale. I delegati fascisti che lasciano Napoli tra il 24 e il 26 potando dovunque1’ordine di mobilitazionee le istruzioni per le azioni locali. Secondo il piano iniziale, quasi tutte le forze fasciste avrebbero dovuto muoversi verso i luoghi di adunata, donde sarebbero partite le colonne per la “marcia su Roma”. Le mobilitazioni delle azioni locali non erano che le tappe preliminari di questa marcia, alla quale tutto doveva essere subordinato. Ma tra il mattino del 25 ottobre ed il 26, 27, questo piano è profondamente modificato: solo alcun “legioni” della Toscana, qualche “centuria” della Valle del Po’, le squadre degli Abruzzi e della provincia di Roma sono destinate a “marciare” sulla capitale. Ciò che era secondario, le azioni locali, diviene principale e questa modificazione del piano militare riflette certamente una modificazione del piano politico: Mussolini ed i suoi diretti collaboratori riiengono che la mobilitazione e le azioni locali eserciteranno una pressione sufficiente a far sì che la crisi sia risolta secondo le esigenze fasciste. La grande preoccupazione dei capi politici del Fascismo sarà di tenere le colonne di Camicie nere il più lontano possibile da Rona, nella misura compatibile con la messa in scena della “marcia”. Questa deve costituire una minaccia senza disturbare lo sviluppo “normale” della crisi politica, quale si impone dopo la rinuncia di Salandra a formare il Gabinetto. Nella notte fra il 27 ed il 28 i prefetti hanno trasmesso i loro poteri alle autorità militari e queste non intervengono in nessun luogo per impedire le occupazioni fasciste o sloggiare i fascisti dagli edifici pubblici. Tutti gli alti funzionari civiii e militari conservano, quasi senza eccezione, davanti alla mobilitazione ed alla strategia fascista, una benevola neutralità, che si trasforma in complicità aperta. I pochi episodi di resistenza sono dovuti all’iniziativa particolare di questo o quell’ufficiale o funzionario ed avvengono, del resto nella mattina del 28., in regime di stato di assedio; quando la Stefani annuncia che lo stato di assedio è tolto, le autorità si sentono più che mai incoraggiate nel loro complice atteggiamento; e tutto si trasforma in una corsa teatrale e clamorosa verso il nuovo goveerno, appena si viene a sapere che il re ha chiamato Mussolini a costituirlo.

 

 

Note:

1Infiltrazione

2 La mobilitazione in Toscana parte prima per un errore dei nuclei squadristi di Firenze e Siena. Sul piano militare è un errore grave che costringe Balbo a recarsi a Firenze. Un errore che permetterebbe allo Stato, se solo lo volesse, di giocare d’anticipo sull’intera marcia.

3 Giorgio Alberto Chiurco; squadrista della prima ora, accusato di omicidio plurimo in scontri con i socialisti, è uno storiografo fascista che scrive il libro “La Storia della Rivoluzione Fascista”. Si tratta di un documento privo di qualsiasi valore storico, ma utile a ricostruire le tappe della violenza fascista e a ricostruire il punto di vista dello squadrismo fascista, leggendo tra le righe di questo stesso testo.

4 Confindustria