Per anni i pestaggi di lavoratori e delegati sindacali in Italia sono rimasti fuori dalle pagine dei giornali. Non è mai stato un caso ma solo un riflesso dell’isolamento delle vittime. D’altronde i giornali industriali non si occupano delle lotte operaie, a meno che non vi siano scontri da denunciare. E in fondo i padroni non pagano i propri giornalisti perché lavorino contro di loro.

L’ondata di lotta di classe che ha investito negli ultimi anni la distribuzione e la logistica non ha solo acceso i riflettori sull’importanza di questo settore per il capitalismo italiano. Ha messo in luce anche la guerra sporca condotta dalla proprietà contro i lavoratori e chi li organizza. D’altronde da quei magazzini scorre profitto come un fiume in un argine. In un paese dove si produce poco, distribuire diventa essenziale. Quei magazzini costruiti apposta il più lontano possibile dai centri abitati, vicini alle arterie stradali, sono stati un laboratorio padronale di sfruttamento per molto tempo. Turni massacranti, subappalti di subappalti, paghe ridicole, precarietà, minacce di licenziamento e di conseguente clandestinità sono un copione che ancora oggi viene recitato a soggetto. Ma non poteva durare perché il motore della storia è la lotta di classe. Comprimi una molla e prima o poi salterà. Il gioco è stato interrotto dal lavoro pionieristico di alcuni sindacati di base, soprattutto del SiCobas, e dal coraggio di una nuova generazione di lavoratori, prevalentemente migranti, che con lotte molto dure stanno cercando di far valere i propri diritti.

Il livello di sfruttamento soprattutto in questi settori è tale che anche solo rivendicare il rispetto del contratto porta a uno scontro fisico con la proprietà. E per questo da anni assistiamo a un pestaggio scientifico e squadrista di lavoratori e attivisti. Possono rincorrerti a casa, come accaduto il 25 aprile 2016 a Kahlil El Akhimi, corriere dell’SDA di Stezzano, in provincia di Bergamo. Si sono fatti trovare nel cortile di casa per fargli pagare gli scioperi. Oppure la regia può replicare un copione fedele: il padroncino fa trovare la sicurezza privata per bastonare i lavoratori in presidio, come accaduto alla Fedex TNT di San Giuliano Milanese il 22 aprile 2021 o due mesi dopo a Tavazzano, in Provincia di Lodi, ai Magazzini Zampieri, ancora un hub della Fedex TNT.

A volte invece il padrone non ricorre nemmeno alla vigilanza privata, ma scaglia direttamente i lavoratori più ricattati contro altri lavoratori, come accaduto a Prato tra il giugno e l’ottobre 2021 sia alla Textprint che alla Dreamland. Bastoni, bottiglie, catene, non si spreca nulla per pestare i lavoratori. Infine, la vigilanza privata è usata a scopo intimidatorio: è il caso della vigilanza disposta a tenere chiusi i cancelli di GKN prima che i lavoratori entrassero in fabbrica nel luglio 2021, dopo la comunicazione di licenziamento. Quella vigilanza continuò a girovagare attorno allo stabilimento per settimane, magari covando il rischio di una qualche forma di sabotaggio che scatenasse il caos.

A volte, infine, l’aggressione si maschera da incidente e uccide: è il caso di Adil Belakhdim, investito da un tir durante un picchetto ai Magazzini Lidl di Briandrate il 18 giugno 2021.

È evidente che questi metodi riecheggiano la violenza squadrista del fascismo. La storia della più grande sconfitta del movimento operaio italiano, la marcia su Roma, ci insegna che le squadracce, le aggressioni, gli assalti hanno preceduto l’assalto finale preparando per tempo il terreno.

Il fascismo è la violenza dei padroni contro i lavoratori attraverso l’uso dei settori più avvelenati della società: commercianti in fallimento, disoccupati, emarginati. Di per sé è uno strumento di prevenzione militare contro le organizzazioni operaie, sindacati innanzitutto. Detto altrimenti, il fascismo è l’arma estrema degli industriali contro la minaccia di una rivoluzione. Suo primo comandamento è la chiusura dei sindacati, dei partiti di sinistra, del diritto a riunirsi, a scioperare, a manifestare. Ma non è uno strumento buono per tutte le stagioni. I topi escono dalle fogne solo quando la marea della lotta di classe ha fatto saltare i tombini. I padroni vi si affidano solo quando hanno paura. In condizioni normali, lo stato borghese li tollera e li coltiva ai margini dello scontro.

Oggi però possiamo ancora scioperare, riunirci, scrivere e parlare di fascismo. Quindi la crisi della classe dominante italiana non è ancora così profonda da invocare un intervento strutturato dell’estrema destra contro la lotta di classe. Vedendo attentamente tutte le aggressioni contro lavoratori e sindacalisti degli ultimi due anni, non sembra esserci traccia dell’estrema destra. Questa assenza si spiega col fatto che le vertenze aggredite erano tutte molto combattive, ma isolate. Non v’era bisogno di usare la violenza organizzata dell’estrema destra, ma solo la sua versione in borghese.

Ma il punto è un altro: è indubbio che queste aggressioni rendono normale che ci sia violenza “contro gli estremisti”. Quello che si può fare oggi davanti a un presidio può diventare una ronda cittadina domani. Quel “Basta scioperi e basta estremisti”, che oggi è sussurrato dai giornali e solo per vertenze molto radicali ma isolate, domani può essere esteso all’intero dibattito politico. Si può fermare uno sciopero a suon di bastonate, minacce, intimidazioni, pensano i padroni. Soprattutto, si può farlo prima che la lotta arrivi a uno scontro frontale con la celere, che spesso è l’ultima barriera che lo stato ha da offrire agli industriali prima di un’occupazione.

Ma c’è un aspetto che non si può sottovalutare: sdoganare la violenza squadrista contro gli scioperi significa anche sdoganare la risposta operaia. Il tema dell’autodifesa è uscito dai dibattiti del movimento e della sinistra, ma bussa impellente alla porta. Gran parte di queste aggressioni è premeditata, ma non prevedibile. I compagni accorreranno in forze sempre in ritardo. Di per sé dunque il compito di difendere un presidio spetta innanzitutto sempre ai lavoratori che lo costruiscono. Questo vale non solo da un punto di vista militare, ma ancora di più da un punto di vista politico: una mobilitazione realmente radicata, che sfida gli apparati dei sindacati tradizionali, che coinvolge settori ancora inerti della società, se colpita risponde dieci volte, perché il sostegno nella società che ha costruito le permette di reggere lo scontro. Ma se isolata, viene affondata e diventa materia per la cronaca. Un attacco fisico richiede unità nella risposta: sindacale e di movimento. A ottobre 2021 è stata saccheggiata la prima Camera del lavoro, a Roma, dal 1922. La risposta del sabato successivo mostrava un clima pronto allo sciopero ma i vertici della CGIL lo hanno scandalosamente rifiutato. I fascisti sono così rimasti impuniti, soprattutto politicamente. Viceversa le lotte della logistica hanno mostrato una sostanziale impermeabilità perfino verso gli altri sindacati di base. Questo isolamento rende le lotte più vulnerabili. I due problemi sono dunque speculari e si alimentano.

Nella tradizione operaia l’autodifesa è un principio politico, non militare. Da questo punto di vista la difesa si risolve con gli stessi principi con cui viene organizzato il picchetto: come ci vuole il cuoco e l’addetto stampa, ci vuole chi si occupa della difesa, cioè chi fa turnare chi difende il presidio e decide come si deve difendere. Ma questo aspetto tecnico non può mai esaurire il contesto politico in cui si lotta. Se nessuno conosce la vertenza, se non si lega ad altre lotte, se non mette in crisi le direzioni dei sindacati più fermi, prima o poi arriverà il rischio di aggressione anche se i lavoratori fossero tutti preparati e ben organizzati.

Per questo al movimento che avvolge queste lotte con la sua solidarietà spetta un compito centrale. Collegare lotte lontane dalla città con la città stessa, legare le vertenze in lotta, essere megafono delle parole d’ordine e costruire una rete di mediattivismo, capace di parlare a lavoratori di altre categorie e al movimento studentesco, sono compiti importanti tanto quanto la solidarietà e l’aiuto materiale per il mantenimento del presidio. Non si può pensare che tutto questo pesi solo sulle spalle dei lavoratori che già sostengono la lotta o del sindacato in cui si organizzano. Sotto la direzione dei lavoratori in sciopero, al movimento spetta anche il compito della presenza fisica coordinata. La vigilanza privata, i dipendenti ricattati che escono dai capannoni con i bastoni sono tutti strumenti aizzabili contro i presidi solo finché questi sono isolati. Il terreno dello scontro è quindi fortemente politico, più che tattico, e ci dice che il nemico ha alle spalle un nemico ancora più grande.

 

Per questo la priorità per il movimento è sempre quella di allargare il campo di lotta. Questo è il primo antidoto alla repressione. In fondo una città, una regione o un paese che solidarizza, anche scioperando, con una vertenza, non è solo una bastonata al cane aizzato contro i lavoratori, ma anche alla mano che ne impugna il guinzaglio.