“Ogni passo nella via del progresso è stato invariabil­mente accompagnato dalla elevazione di un grado nella posizione sociale delle donne; ciò che ha condotto storici e filosofi ad assumere la elevazione o l’arretratezza delle donne come il più sicuro e miglior criterio per la misura della civiltà d’un popolo o d’un secolo.” Con queste pa­role John Stuart Mill riassume le sue interessanti conside­razioni sul problema della donna; Engels, nell’Anti­-Duhring, cosi sviluppa il giudizio di John Stuart Mill: “In una società, il grado di emancipazione della donna è la misura naturale del grado di emancipazione generale”.

In relazione a questo giudizio, e volendo riferirci sol­tanto ai tempi nostri, possiamo domandarci: a quale grado di emancipazione è giunta la donna con le rivoluzioni na­zionali democratiche del secolo passato, nella società mo­derna uscita da quelle rivoluzioni?

Durante le giornate della grande rivoluzione francese le donne del popolo di Francia combattono strenuamente contro la tirannide e per la libertà e nel momento della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, una donna, Olympe de Gouges, presenta la Dichiarazione dei diritti della donna.

“La donna nasce libera, ed è, in diritto, uguale all’uomo. Il principio della sovranità risiede nella nazione, ossia nella riunione degli uomini e delle donne. Tutte le citta­dine e tutti i cittadini – uguali dinanzi alla legge – debbono essere ugualmente ammessi a tutte le cariche, a tutti i posti e gli impieghi pubblici, secondo le loro capacità, senza altre distinzioni all’infuori delle loro virtù e del loro talento. La donna ha il diritto di salire al patibolo; deve avere il diritto di salire alla tribuna. Donne, desta­tevi!”

Ma gli uomini della grande rivoluzione borghese non accolgono quella dichiarazione. Le dirigenti delle prime or­ganizzazioni di donne – Olympe de Gouges e Rose La­combe – periscono sulla ghigliottina e le loro organiz­zazioni sono disciolte e vietate. La donna esce dalla ri­voluzione francese senza il riconoscimento dei suoi diritti, senza la conquista del suo posto nella costruzione e dire­zione della nuova vita economica, politica e sociale.

Al contrario, la legislazione civile e politica uscita dalla rivoluzione francese, che costituisce poi il modello per la legislazione di quasi tutti gli Stati d’Europa, sancisce l’inferiorità della donna. Il codice di Napoleone – di colui il quale pensava che la donna è proprietà dell’uo­mo, a cui dà dei figli cosi come un pero dà al suo pro­prietario delle pere – mette la don­na sposata sotto tutela. La società capitalistica del seco­lo XIX poggia sulla famiglia consacrata da quel codice, esclusiva, antisociale, rivolta alla conservazione e trasmis­sione del patrimonio, caratterizzata dall’egoismo e dalla menzogna: il padre guadagna e comanda; la donna assi­cura la discendenza; il figlio eredita e succede; la figlia si sposa, e la verginità e le femminili attrattive fanno parte del suo capitale. La maternità al di fuori del matrimonio è onta, quasi delitto.

Diderot aveva detto: “La crudeltà delle leggi civili si unisce – contro le donne – alla crudeltà della natu­ra”; gli enciclopedisti avevano proclamato la donna ugua­le all’uomo. Ma quelle affermazioni erano rimaste nel mon­do delle astrazioni, delle chimere e delle effusioni gene­rose.

Le donne – come tutti gli oppressi – dovranno esse stesse, raccogliendo il richiamo di Olympe de Gouges, con dure lotte, conquistarsi il proprio diritto, il proprio posto nella società, in una società rinnovata anche per ope­ra loro.

E nel nostro paese, quale situazione crea alla donna Ira rivoluzione nazionale, il Risorgimento?

La donna italiana è sempre stata in una situazione più arretrata di quella delle donne degli altri paesi. Anche nel Risorgimento manifesta questa sua inferiorità. La don­na italiana è madre, moglie di eroi; ma non è eroina essa stessa, non partecipa in modo diretto, attivo, alla lotta per l’indipendenza e l’unificazione nazionale. Nella storia del Risorgimento sono ricordate delle donne: la contessa Maf­fei, che nel suo salotto riunisce i patrioti intellettuali di Milano; Maria Alighieri Gozzadini, che a Bologna fa della propria casa un “focolare acceso di patriottismo”; Ade­laide Ristori, la grande artista drammatica e patriota; Giu­seppina Galimberti, ispiratrice fiera e democratica del vec­chio giornale di Cuneo, La sentinella delle Alpi, di cui gui­da persino le sorti in momenti particolarmente difficili; e la Cairoli, la Mameli, la Confalonieri, la Menotti, la Set­tembrini, Anita Garibaldi: donne mirabili, celebrate, ma più per riflesso delle grandi personalità cui vissero accan­to che per se stesse, per i loro pensieri o atti.

Nomi di umili donne del popolo appaiono nella storia del Risorgimento italiano: le popolane di Milano, durante le cinque giornate, aiutano a portar viveri e munizioni ai combattenti sulle barricate, e talora combattono esse stesse fino alla morte, come Giuseppina Lazzeroni e Luisa Sassi; popolane animose, nelle dieci giornate di Brescia, parteci­pano alla lotta. Si tratta, però, nel complesso, di centinaia di donne e cioè di una piccola minoranza, che non ha die­tro di sé un movimento patriottico femminile.

Questa scarsa partecipazione delle donne al nostro Risorgimento nazionale, la generale arretratezza – cosi so­vente denudata – delle masse femminili italiane, deri­vano da molte cause economiche e sociali. In primo luogo, derivano dall’arretratezza della società italiana nel suo complesso.

La rivoluzione nazionale italiana, il Risorgimento, fu in­dubbiamente anche nel nostro paese un movimento di ri­sveglio nazionale e – sebbene limitatamente – di risve­glio popolare. La unificazione del 1870 significò anche per l’Italia la creazione di uno Stato moderno: borghese, ma unitario e indipendente, laico e costituzionale, nonostan­te la sua incompletezze rivoluzionaria, tale, insomma, da suscitare l’interesse, l’intervento, l’iniziativa delle masse popolari.

Ma la borghesia italiana ebbe sempre paura delle mas­se popolaci; non volle una rivoluzione democratica, che di­struggesse la proprietà nobiìiare, i privilegi e i residui feu­dali, e rinnovasse a fondo la società nazionale.

Per eludere anzi questa rivoluzione popolare, la bor­ghesia italiana degradò di fatto la sua stessa rivoluzione; sostituì al moto di liberazione delle masse del popolo la “conquista regia”; e anziché far proprie, e soddisfare, le rivendicazioni delle popolazioni rurali povere, senza terra, oppresse dai grandi proprietari feudali, sii alleò in pavido compromesso a quelle stesse vecchie classi, all’aristocrazia terriera, con cui sparti il potere. Cosi, la rivoluzione na­zionale non raccolse intorno a sé le popolazioni delle cam­pagne, né le masse popolari della città. Il popolo diventò estraneo, anzi ostile al nuovo Stato, e la società italiana non fu rinnovata, non fu sollevata dalla sua arretratezza economica e civile.

Emilio Sereni, nel suo volume Il capitalismo nelle cam­pagne, ci presenta un quadro efficacissimo di questa arre­tratezza economica e sociale negli anni che accompagnano e immediatamente seguono l’unificazione nazionale: del modo come, in questo quadro, si svolge la vita della donna, tutta chiusa e ristretta nella propria casa, esclusa da ogni attività produttiva sociale.

Nelle regioni meridionali, e particolarmente in Sicilia, tutta la vita è dominata dai grandi proprietari terrieri. Nei loro immensi latifondi non vi è, teoricamente, servitù della gleba, ma i contadini, se vogliono vivere, devono assog­gettarsi alla legge del feudo. È abolito, in teoria, il “dirit­to alla prima notte”, ma ancora nel 1875 il Franchetti scrive che in molti luoghi il diritto del signore esiste di fatto. Attraverso i loro servi armati, i signori seguitano tranquillamente a “farsi giustizia”.

La costituzione sociale del latifondo, la malaria e il brigantaggio costringono la popolazione a vivere agglome­rata in grossi borghi lontani dai luoghi di lavoro. Il brac­ciante deve compiere spesso molte miglia di cammino per recarsi ai campi, e resta assente dalla casa da prima dell’’alba a dopo il tramonto, all’epoca dei grandi lavori per tutta la settimana. In queste condizioni riesce impos­sibile alla donna combinare il lavoro domestico col lavoro agricolo, e partecipare alle cure della terra, a questa fon­damentale attività produttiva.

Nelle campagne desolate della Sicilia e del Mezzogior­no si costituiscono cosi quasi due mondi separati, fra i qua­li ogni contatto è limitato, si può dire, alla notturna inti­mità delle pareti domestiche. Nei borghi, abbandonati dagli uomini, le donne vivo­no chiuse nel loro piccolo mondo, fra le faccende dome­stiche e le fatiche del telaio e del lavatoio, accompagnate dai canti e dalle conversazioni, interrotte talora da violen­te dispute: in totale isolamento sociale.

Né molto diversa è la loro situazione nelle campagne dell’Italia centrale, dove prevale la mezzadria, e nelle pia­nure del Piemonte, della Lombardia e di parte del Ve­neto, dove incominciano a costituirsi le prime aziende ca­pitalistiche: la donna rimane chiusa nel ristretto e isolata nel mondo della casa, esclusa da ogni lavoro indipendente. L’esclusione dall’attività produttiva socialmente organizza­ta comporta necessariamente per la donna una netta infe­riorità sociale che si manifesta nel regime ereditario, nella ripartizione dell’eredità paterna e soprattutto nella totale subordinazione della donna all’uomo. Il marito è, di fat­to, non solo il capo incontestato della famiglia, ma il si­gnore, il padrone della donna.

Un tempo la donna aveva avuto un proprio campo di attività in cui era stata signora: il campo dell’ammini­strazione domestica nel senso più largo della parola. Ma la penetrazione capitalistica distrugge a poco a poco l’in­dustria casalinga e toglie alla donna le sue attività pro­duttive, senza peraltro attrarla in altro lavoro sociale, e aggravandone quindi ancora l’inferiorità e I’arretratezza.

In generale si può dire che nella società italiana del primo Risorgimento la persistenza di residui feudali nelle campagne e il tardo e limitato sviluppo industriale danno a tutta la vita nazionale un’impronta di arretratezza in vivo contrasto col progresso tecnico ed economico già rea­lizzato in altri paesi, dove una rivoluzione borghese con­seguente ha liberato le masse contadine dalla servitù e aperto la via a una larga produzione industriale.

Questi rapporti sociali e civili arretrati si estendono a quasi tutti gli strati della popolazione maschile e femmini­le, entrano nella famiglia e vi creano un’atmosfera di di­suguaglianza, di oppressione, di grettezza antisociale, che pesa specialmente sulle donne, e illusione anche sugli strati femminili più elevati.

Infatti, mentre nei paesi di piè avanzato sviluppo de­mocratico si incomincia, tra questi strati femminili, ad agi­tare – sfa pure in termini astratti e romantici – il pro­blema della emancipazione della donna, e nascono i primi movimenti femministi, le donne italiane, salvo rarissime eccezioni, restano estranee a questi movimenti, li ignorano del tutto.

Il movimento femminista appare in Francia nell’otto­cento, come espressione della profonda delusione lasciata nelle donne dal mancato riconoscimento dei loro diritti, già tanto solennemente affermati dai filosofi e dai poeti dell’illuminismo e della rivoluzione. Assume la denomina­zione di ”femminismo” al tempo di George Sand che, nei suoi romanzi, sostiene la libertà dell’amore e protesta con­tro I’autorità maritale e I’asservimento della donna nel ma­trimonio. Chiusa nel suo ristretto mondo di intellettuale piccolo-borghese, fra le cosiddette “donne superiori”, George Sand ignora però le donne del popolo, i loro gravi e fondamentali problemi, la radice vera del loro asservi­mento familiare e sociale. E per questa limitatezza il suo femminismo si sviluppa in una linea astratta, asociale. Letterario essenzialmente e romantico, si gingilla, e si esau­rirà intorno al problema dell’“amore libero” nelle sue molteplici, e talora stravaganti, interpretazioni; fino a im­prigionare, in tempi più recenti – col freudismo – la donna nel suo sesso, avulsa dalla realtà economica e socia­le, esclusa dalla storia e da ogni speranza di liberazione.

In Italia questo genere di femminismo giunge soltanto di riflesso in ristretti circoli intellettuali. Le donne nella loro grande maggioranza vi rimangono estranee; né po­trebbero comunque collegarlo con la reale situazione in cui si svolge la loro vita familiare e sociale.

Neppure il “femminismo” dei paesi nordici (In­ghilterra, Germania, Russia, Svezia, Norvegia, Danimarca), tendente ad affermare l’uguaglianza di diritto fra i due sessi, la loro parità giuridica e politica, ha in generale mag­gior fortuna fra le donne italiane. Questo femminismo con­ta in Inghilterra grandi e valenti agitatrici: Emmeline Goulden Pankhurst, ad esempio, che sviluppa una vasta lotta per la rivendicazione del diritto di voto, dando ori­gine al movimento detto delle “suffragette”, noto alle donne italiane soltanto in alcuni dei suoi aspetti più este­riori e stravaganti, e talora anche burlescamente caricaturali, è tuttavia significativo. Perché, se questo movimento poté apparire arido, ristretto negli orizzonti, e addirittura fanatico, si deve tuttavia riconoscere che esso risale alla rivoluzione francese, ai Cahiers des doléances des femmes, in cui le rivendicazioni femminili erano unite a quelle del Terzo stato e delle classi rivoluzionarie.

La rivendicazione del diritto di voto, ossia del diritto di partecipare alla formazione delle leggi e alla direzione politica del proprio paese, ispira ed anima vasti e seri mo­vimenti di donne, non soltanto in Inghilterra, ma in tutti i paesi dove la democrazia si va affermando e sviluppando.

Nell’America del Nord, fin dal 1776, ossia fin dal mo­mento in cui quel paese riesce a conquistare la propria indipendenza e il popolo si pone il problema di crearsi uno Stato libero e democratico, una donna d’avanguardia, Abi­gail Adams, scrive al marito, uno dei padri della Costitu­zione americana: “Noi donne non ci considereremo tenute a seguire alcuna legge che sia stata votata senza di noi, o senza aver sentito il nostro parere”. Per molti anni ancora le donne americane devono obbedire a leggi fatte senza il loro intervento. Soltanto nel 1920 esse conquistarono completamente il diritto di voto, ma la lotta condotta dalle donne americane ebbe valore ed efficacia nello sviluppo democratico generale di quel paese.

In Italia – e questa è un’altra delle cause di arretra­tezza delle donne italiane – non vi fu mai una vita effettivamente democratica. Vi furono regimi ed istituti che si chiamarono liberali, ma una reale democrazia, e cioè una direzione dello Stato esercitata e controllata dalle mas­se popolari, mancò. E mancò – anche per questo – alle donne italiane la visione dei problemi nazionali e sodali e lo stimolo all’azione per la soluzione di questi, alla lotta per la conquista di diritti civili e politici.

Le donne dei ceti più elevati – e in certa misura li­bere dalle occupazioni domestiche, affidate alla servitù – se talora sentirono il bisogno di attività sociale, furono por­tate dall’ambiente e dal modo stesso della loro vita a trasferirlo nel campo della beneficenza, esercitata essen­zialmente nelle associazioni clericali, nelle congregazioni di carità che durante gli anni del Risorgimento avevano avuto un notevole incremento, suggerito forse alla Chiesa dalla necessità di fronteggiare la rivoluzione laica e le nuove dottrine sociali nascenti nel mondo.

Sorgono infatti, in quell’epoca, numerosissimi nuovi ordini religiosi femminili – come le marcelline per l’edu­cazione delle giovani, le misericordine per l’assistenza dei malati a casa, le Figlie di Maria ausiliatrice con compiti, nel campo femminile, analoghi a quelli dei salesiani, le Suore del Buon pastore per l’assistenza alle donne traviate, le Suore della carità per l’educazione e istruzione delle fanciulle povere, le Suore dei poveri per l’assistenza ai poveri vecchi e cosi via. E nascono, insieme, congregazioni di donne laiche con compiti differenziati nei vari campi della beneficenza .

Cosi, a Roma, verso il 1870, si forma la Pia unione delle donne cattoliche per la difesa della fede e l’esercizio delle opere filantropiche; in tutte le città si costituiscono le Con­ferenze di san Vincenzo; e ovunque altre numerose istitu­zioni, che confluiranno poi, nel primo decennio del ‘900, nella grande organizzazione dell’Azione cattolica, con fini, compiti e modi di organizzazione di mano in mano più vasti e complessi.

Appaiono, in quell’opera caritatevole, figure di donne che danno prove notevoli di capacità e iniziativa: figure isolate, però, donne della ricca aristocrazia, che, anche per questa via, in certo modo affermano la loro posizione do­minante, di classe.

Per citarne una: Teresa Ravaschieri Fieschi, nata princi­pessa Filangieri di Satriano, nipote di Gaetano Filangieri: bellissima donna, scrittrice e filantropa, che in morte della figlia fonda a Napoli un ospedale per la cura dei figli dei poveri e poi un dormitorio per monelli e un ospedale per reduci e feriti; infine scrive la Storia della carità na­poletana.

Altre, eguali o minori, operano nell’una e nell’altra città d’Italia; generalmente legate alle congregazioni cat­toliche, che vanno assumendo, tentando di monopolizzarla, la funzione della beneficenza, e vi inquadrano le donne per mantenerle sulle vecchie posizioni ideologiche, che vo­gliono la donna, come i poveri, pia, caritatevole, sotto­messa e subordinata sempre.

Le donne italiane, in generale, sono sempre state pro­fondamente legate alla religione cattolica e questa consta­tazione suggerisce talvolta l’idea che la loro tradizionale arretratezza debba essere messa in relazione con questo fatto.

Ora, è indubbio che tutte le religioni hanno sempre sanzionato la subordinazione della donna. Nel libro di Mosè, nei libri sacri dell’India, delle religioni dell’oriente e dell’antichità greca e romana, e delle religioni più re­centi, in tutti i testi, si afferma questa subordinazione. Il primo cristianesimo porta alle donne, come agli schiavi, una grande speranza di liberazione. Le prime co­munità cristiane, infatti, si presentano nella storia miste di uomini e di donne e costituiscono un ordine di vita e un costume nuovi, che ridanno dignità alla donna. Ma quando, da religione dei poveri e degli oppressi, diviene religione di Stato, religione del potere dominante, anche il cristianesimo abbassa la donna.

I dottori e i padri della Chiesa considerano la donna come “la nemica”, “la tentatrice eterna”, “lo strumen­to del maligno”. “Donna, – grida Tertulliano, – tu sei la porta del diavolo!” E San Giovanni Crisostomo: “Fra tutte le bestie selvagge non se ne trova di più nocive delle donne”. “La donna – scrive San Tommaso d’Aquino – è destinata a vivere sotto l’impero dell’uomo.” La subordinazione della donna all’uomo diviene il principio co­stante del diritto canonico.

Da questo principio discende tutta l’impostazione che la Chiesa e le sue associazioni danno al problema della donna e che, per l’influenza che la Chiesa esercita in ge­nerale, ispira molte delle idee correnti e dominanti nella società italiana: le donne appartengono esclusivamente alla famiglia, sono fatte per le cure domestiche e non per le fun­zioni pubbliche; possono rendersi socialmente utili nelle opere di beneficenza, negli ospedali, negli orfanotrofi, nella raccolta e distribuzione delle elemosine ai poveri, e cosi via; ma senza indagare le cause dei mali che vanno curan­do, senza uscire dalla loro subordinazione, dal loro isola­mento, essenzialmente preparate e rivolte alfa loro funzio­ne subordinata nella casa dell’uomo.

Tutto questo contribuisce a creare nelle stesse donne una mentalità chiusa, ristretta; a formare quella che poi viene chiamata “la natura della donna”; e che – come dice John Stuart Mili – è invece essenzialmente un pro­dotto artificiale: il risultato di una compressione forzata, che isterilisce capacità ed energie specifiche e preziose;  un insieme di uno stimolo contro natura, che tende a fare della donna un puro strumento di dominio e di piacere per gli uomini.

Bisogna tuttavia riconoscere che in molti paesi d’Euro­pa e d’America le donne, pur essendo profondamente le­gate alla religione cattolica, o ad altra religione, riescono, negli anni dell’ascesa democratico-borghese, a con­quistarsi un posto notevole nella vita della nazione e con­cludere, perciò, che ove non intervengano da parte della Chiesa elementi di propaganda conservatrice e reazionaria estranei al sentimento religioso della donna, ed estranei al sentimento religioso in generale, non nella loro religio­sità si deve ricercare la causa della arretratezza delle don­ne italiane, ma essenzialmente, come si è detto, nell’arre­tratezza generale dei rapporti economici e civili della società italiana e nel tardo e manchevole suo sviluppo de­mocratico.

Le origini, le prime radici o almeno le condizioni di un effettivo movimento femminile italiano si scoprono, infatti, nei mutamenti, nelle trasformazioni che, per quan­to lente e tardive, si producono in questa società, come effetti inevitabili dell’unificazione nazionale e del gene­rale sviluppo industriale e capitalistico; mutamenti e tra­sformazioni che hanno un immediato riflesso nella vita delle donne.