Nel 1875 Marx fu chiamato a rispondere alla richiesta del partito socialdemocratico tedesco di aderire al cosiddetto Programma di Gotha. Il documento gli venne inviato pochi giorni prima del congresso: le posizioni espresse all’interno del documento, la necessità di difendersi dai continui attacchi degli anarchici bakuniani e l’urgenza di correggere l’indirizzo preso dal movimento a seguito delle pressioni dei lassalliani spinsero Marx alla stesura di un documento a tratti complesso, in apparenza squisitamente pensato per polemizzare con una dirigenza che si scostava e reinterpretava gli studi compiuti da lui e da Engels, in sostanza una vero e proprio monito contro il germe del riformismo e dell’opportunismo, valido ancora oggi per preservarci dal sottovalutare gli errori di valutazione – nella buona e nella cattiva fede – di chi voglia prendere la testa della lotte.

Nella lunga lettera che inviò ai dirigenti della corrente eisenachiana, Marx contesta con toni aspri molte delle posizioni lassalliane espresse nel documento. Secondo Marx, l’intero programma andava respinto, e al suo posto sarebbe stato sufficiente un accordo che permettesse l’azione contro il nemico comune. Il primo e più grossolano errore sottolineato da Marx fu  quello di non evidenziare a che prezzo veniva comprata l’unificazione, che sempre in qualche modo appaga i desideri dei lavoratori.

Nel testo che vedremo Marx si sofferma sulla concezione errata del lavoro come fonte di ogni ricchezza e civiltà, sulla mancanza di accenni alla società divisa in classi, sulla suddivisione del frutto del lavoro in parti uguali, in contraddizione con quanto già espresso all’interno del Manifesto del Partito comunista, dove è invece chiaramente spiegata la necessità di ricevere da ciascuno secondo le sue capacità e di ridistribuire a ognuno secondo i suoi bisogni. In questi passaggi vedremo come vi fosse scarsa comprensione da parte della dirigenza del movimento della necessità, per la classe lavoratrice, di appropriarsi dei mezzi di produzione prima di procedere alla redistribuzione delle risorse. La stessa cecità che verrà dimostrata di fronte al concetto di giustizia borghese, alle leggi sul salario, alla libertà, al ruolo storico delle classi e alla questione internazionale.

Ma la polemica più aspra si accende intorno al ruolo dello Stato, concepito dai lassalliani come un arbitro super partes in grado di intervenire positivamente nei processi di costruzione della classe in lotta, attraverso l’istituzione di cooperative, l’intervento nell’educazione scolastica e l’introduzione dell’imposta progressiva. Queste misure, considerate un fine ultimo e non un mezzo, travalicano completamente la necessità della dittatura del proletariato, snaturando di fatto la concezione marxista dello Stato. Non si tratta certo di sottigliezze linguistiche, dunque, ma di una vera e propria stortura che Marx smonta pezzo per pezzo.

Nonostante la complessità del testo e la durezza dei toni, l’intervento di Marx fu decisivo per stroncare in quella fase storica l’intervento a gamba tesa dei lassalliani e permise, con una chiarezza tutt’oggi indispensabile, di fare luce sui pericoli dell’opportunismo e sulla china scivolosa sulla quale i dirigenti del movimento, se non strettamente sorvegliati dalla classe rivoluzionaria, rischiano di scivolare.

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