Abbiamo visto come il destino della democrazia sia legato ai quello del movimento operaio. Forse che lo sviluppo della democrazia anche nel migliore dei casi rende superflua o impossibile una rivoluzione proletaria, intesa nel senso della conquista del potere statale, dei potere politico? Bernstein risolve la questione soppesando minuziosamente il pro e il contro della riforma legislativa e della rivoluzione, con la stessa tranquillità con cui si peserebbe cannella e pepe in una cooperativa di consumo. Nel corso legale dello sviluppo egli vede l’azione dell’intelletto, nel corso rivoluzionario quella del sentimento, nel lavoro di riforma un metodo lento, in quello rivoluzionario uno rapido, del progresso storico, nell’opera legislativa una forza metodica, nell’assalto violento una elementare (p. 183). E’ una storia vecchia, che il riformatore piccolo-borghese, vede in tutte le cose del mondo, un lato “buono” e uno “cattivo”, e coglie fiori in tutte le aiuole. E’ una storia altrettanto vecchia che il corso reale delle cose si cura molto poco di tali combinazioni piccolo-borghesi, e che il mucchietto di lati “buoni” di tutte le cose possibili del mondo, per quanto preparato con cura, salta in aria per un semplice buffetto. In pratica, nel mondo, noi vediamo agire riforma legislativa e rivoluzione per motivi ben più profondi che non siano i vantaggi o gli svantaggi di questo o quel metodo. Nella storia della società borghese, la riforma legislativa ha servito al progressivo rafforzamento della classe ascendente, fintantoché essa si è sentita matura per conquistare il potere politico e rovesciare tutto il sistema giuridico costituito, per costruirne uno nuovo. Bernstein, che si scaglia contro la conquista del potere politico in quanto teoria blanquista della violenza, ha la disgrazia di considerare errore blanquista di calcolo proprio quello che è da secoli il perno e la forza propulsiva della storia umana. Dacché esistono società classiste, e la lotta delle classi costituisce il contenuto essenziale della loro storia, la conquista del potere politico è sempre stata tanto la meta di tutte le classi ascendenti, quanto il punto iniziale e terminale di ogni periodo storico. Questo noi vediamo nelle lunghe lotte dei contadini con i capitalisti del denaro e con i nobili nell’antica Roma, nelle lotte del patriziato con i vescovi e degli artigiani con i patrizi nelle città medievali, nelle lotte della borghesia contro il feudalesimo nell’era moderna. Riforma legislativa e rivoluzione non sono dunque metodi diversi del progresso storico, che si possono scegliere al buffet della storia, come salsicce calde o fredde, ma sono momenti diversi nello sviluppo della società classista, che si condizionano e completano a vicenda ma nel medesimo tempo si escludono a vicenda, come il polo nord e il polo sud, la borghesia e il proletariato. E in verità in ogni tempo la costituzione giuridica è semplicemente un prodotto della rivoluzione. Mentre la rivoluzione è l’atto politico creativo della storia delle classi la legislazione rappresenta la continuità della vegetazione politica della società. Giacché il lavoro di riforma sociale non ha in sé una propria forza di propulsione, indipendente dalla rivoluzione, bensì, in ogni periodo della storia, si muove solo nella direzione e per il tempo corrispondente alla spinta che gli è stata impressa dall’ultima rivoluzione, o, per parlare concretamente, solo nel quadro diquell’assetto della società che è stato posto in essere dalla più recente rivoluzione. Proprio questo è il nocciolo della questione. E’ fondamentalmente falso e del tutto antistorico vedere nel lavoro di riforma legislativa solo una rivoluzione tirata per il lungo e nella rivoluzione una riforma condensata. Una rivoluzione sociale e una riforma legislativa sono momenti diversi, non per la loro durata ma per la loro natura. Tutto il segreto dei rivolgimenti storici ottenuti con l’uso del potere politico consiste proprio nella trasformazione di pure mutazioni quantitative in qualche cosa di qualitativamente nuovo; per parlare concretamente, nel passaggio da un periodo storico, da un ordinamento sociale, ad un altro. Perciò, chi si pronuncia favorevole alla via della riforma legislativa invece e in contrapposto alla conquista del potere politico e alla rivoluzione sociale, sceglie in pratica non una via più tranquilla, più sicura, più lenta, verso la stessa meta, quanto piuttosto un’altra meta, cioè, in luogo dell’instaurazione di un nuovo ordinamento sociale, soltanto dei mutamenti, e non sostanziali, dell’antico. Così, partendo dalle opinioni politiche del revisionismo, si arriva alla stessa conclusione che partendo dalle sue teorie economiche: che esse, in fondo, non portano alla realizzazione dell’ordinamentosocialistico, bensì soltanto a una riforma dell’ordinamento capitalistico, non all’abolizione del sistema salariale, bensì a un minore o maggiore sfruttamento, in una parola alla eliminazione degli abusi del capitalismo e non del capitalismo stesso. O forse queste affermazioni sulla funzione della riforma legislativa e sulla rivoluzione valgono solo nei confronti della lotta tra le classi combattuta nel passato? Forse che, a partire da questo momento, grazie allo sviluppo del sistema giuridico borghese, spetterà alla riforma legislativa anche il passaggio della società da una ad un’altra fase storica, e la conquista del potere statale da parte del proletariato sarà “divenuta una frase priva di senso” come dice Bernstein a p. 183 della sua opera? E’ vero precisamente il contrario. Che cosa distingue la società borghese dalle precedenti società classiste, antiche e medievali? Proprio la circostanza che il predominio di una classe poggia non su “diritti legittimamente acquisiti” ma su effettivi rapporti economici, che il salariato non è un rapporto giuridico ma un rapporto puramente economico. Non potrà trovarsi in tutto il nostro sistema giuridico una formula di legge che definisca l’attuale predominio di classe. Se si trovano tracce di una tale formula, esse sono semplicemente residui del regime feudale, come il regolamento della servitù. E allora, come abolire la schiavitù del salario “per via legale”, gradatamente, quando si è visto che di essa le leggi non fanno cenno? Bernstein, che si vuole accingere alla riforma legislativa, per preparare, su questa strada, la fine del capitalismo, assomiglia a quel poliziotto russo, che, in Uspenskij, racconta la sua avventura: “E allora ho subito afferrato il tipo per il colletto e che cosa è saltato fuori? Che quel dannato tipo non aveva colletto”. Qui sta il punto. “Ogni società finora esistita ha poggiato come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e le classi degli oppressi” (Manifesto comunista, p. 17). Ma nelle fasi precedenti della società moderna questo antagonismo era espresso in dati rapporti giuridici e poteva garantire fino a un certo punto che i rapporti futuri si sarebbero mantenuti entro gli antichi confini. “Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del Comune” (ivi). E in qual modo? Con l’abolizione graduale nel territorio distrettuale della città, di tutti quei diritti particolari, l’insieme dei quali costituiva la servitù della gleba: le corvées, il prelievo mortuario del vestiario e del miglior capo di bestiame, la capitazione, i diritti sul matrimonio, il diritto alla ripartizione ereditaria, ecc. Allo stesso modo, “il borghigiano pur sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese”(ivi)[1]. Per quale via? Attraverso una parziale abolizione formale e, un allentamento effettivo dei legami corporativi, attraverso una graduale trasformazione dell’amministrazione delle finanze e dell’esercito nella misura indispensabile. Se perciò si vuole considerare la questione da un punto di vista astratto anziché storico, si può per lo meno immaginare che vi sia stato, almeno nello stadio precedente, un passaggio della società da feudale a borghese, con metodi legislativo-riformistici. Ma che cosa vediamo in realtà? Che anche qui le riforme legislative anziché rendere superflua la conquista da parte della borghesia del potere politico, servivano a prepararla e a realizzarla. Una formale trasformazione politico-sociale era indispensabile tanto per l’abolizione della servitù della gleba, quanto per la soppressione del feudalesimo. Ma la situazione è ora affatto diversa. Nessuna legge obbliga il proletariato a soggiacere al giogo del capitale, bensì ve lo obbliga il bisogno, la mancanza di mezzi di produzione. Ma nessuna legge al mondo può decretargli questi mezzi nel quadro della società borghese, poiché egli non ne è stato privato da una legge, ma dello sviluppo economico. Inoltre lo sfruttamento all’interno del sistema salariale non si basa su legge alcuna, giacché il livello dei salari non viene determinato per via legale ma attraverso fattori economici. E il fatto stesso dello sfruttamento non si basa su una disposizione di legge ma su un fatto puramente economico, per il quale la forza di lavoro risulta essere una merce, che ha, fra l’altro, questa pregevole caratteristica di produrre valore, e precisamente valore in misura maggiore di quanto essa stessa consumi nei mezzi di sussistenza dell’operaio. In una parola, tutte le condizioni fondamentali del dominio di classe capitalistico non si lasciano trasformare da riforme legislative su basi borghesi, giacché esse né sono state introdotte da leggi borghesi, né da simili leggi hanno ricevuto la loro forma. Bernstein non lo sa, quando fa il progetto della sua “riforma” socialista, ma quello che non sa egli dice a p. 10 del suo libro, quando scrive che “il movente economico oggi affiora liberamente, mentre un tempo doveva travestirsi sotto le spoglie di rapporti di dominio e di ideologie”. Ma non basta. Un’altra caratteristica del regime capitalistico è che nel suo seno tutti gli elementi della società futura nel loro sviluppo prendono dapprima una forma nella quale, anziché avvicinarsi al socialismo, se ne allontanano. Nella produzione si manifesta sempre di più il carattere sociale. Ma in che forma? Di grande impresa, di società per azioni, di cartelli, istituti nei quali le contraddizioni capitalistiche – sfruttamento, oppressione della forza di lavoro – si accrescono enormemente. Nell’esercito, quest’evoluzione porta l’estensione del servizio militare obbligatorio, la riduzione della ferma, cioè, materialmente, un avvicinamento all’esercito di popolo. Ma tutto questo avviene nelle forme del militarismo moderno, nel quale il dominio sul popolo da parte dello Stato militarista, e il carattere classista dello Stato, trovano la loro massima espressione. Nei rapporti politici, lo sviluppo della democrazia, in quanto trova terreno favorevole, conduce alla partecipazione di tutti gli strati popolari alla vita politica, cioè in una certa misura, allo “Stato popolare”. Ma questo nella forma del parlamentarismo borghese, in cui gli antagonismi di classe, e il predominio di una classe, non sono aboliti, ma piuttosto dispiegati e messi a nudo. Giacché tutta l’evoluzione capitalistica si svolge in tal guisa per contraddizioni, bisogna, per estrarre il nocciolo della società socialista dall’involucro capitalistico che gli si oppone, avere anche per questo motivo ricorso alla conquista del potere politico da parte del proletariato e alla soppressione totale del regime capitalistico. Certo, Bernstein, dagli stessi dati di fatto trae conseguenze diverse: se lo sviluppo della democrazia porta ad inasprire anziché ad attutire le contraddizioni capitalistiche, “la socialdemocrazia”, ci risponde, “se non vuole rendersi da se stessa più grave il lavoro, dovrebbe sforzarsi di impedire nella misura del possibile le riforme sociali e le istituzioni democratiche” (p. 71). Questo certamente se la socialdemocrazia, secondo il metodo piccolo-borghese, trovasse gusto a questa occupazione da sfaccendati che consiste nello scegliere tutti i lati buoni della storia e nel gettar via i cattivi. Solo in tal caso essa dovrebbe conseguentemente “sforzarsi di impedire” anche tutto il capitalismo, poiché esso è incontestabilmente il ribaldo numero uno, che le oppone tutti gli ostacoli sulla via del socialismo. In pratica, il capitalismo, insieme agli ostacoli, offre anche la sola possibilità di mettere in atto il programma socialista. E questo vale pienamente, anche nei confronti della democrazia. Se per la borghesia la democrazia è diventata un elemento in parte superfluo, in parte di ostacolo, essa per la classe operaia, invece, è diventata necessaria e indispensabile. Necessaria, prima di tutto in quanto offre le forme politiche (autogoverno, diritto elettorale) che serviranno al proletariato da appigli e punti di appoggio nella sua opera di trasformazione della società borghese. Ma anche indispensabile, perché solo in essa, nella lotta combattuta per la democrazia, nell’esercizio dei diritti democratici, il proletariato diviene cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici. La democrazia insomma è indispensabile, non in quanto rende superflua la conquista del potere politico da parte del proletariato, ma al contrario perché fa di questa conquista una necessità e al tempo stesso l’unica possibilità. Quando Engels, nella sua prefazione alle Lotte delle classi in Francia rivedeva la tattica dell’attuale movimento operaio, e contrapponeva alle barricate la lotta legale, egli non trattava – e questo appare evidente da ogni riga della sua prefazione – la questione della conquista definitiva del potere politico, ma quella della lotta quotidiana attuale, non l’atteggiamento del proletariato di fronte allo Stato capitalistico al momento della conquista del potere statale, ma il suo atteggiamento all’interno dello Stato capitalistico. Engels, in una parola, ha dato le direttive al proletariatodominato, non al proletariato vincitore. Viceversa la ben nota frase di Marx sulla questione delle terre in Inghilterra, alla quale pure si richiama Bernstein “probabilmente se ne verrebbe a capo al miglior mercatocomperando in blocco i landlords”, non si riferisce all’atteggiamento del proletariato prima della vittoria, bensìdopo di essa. Giacché di “acquisto in blocco” della classe dominante, si può parlare apertamente soltanto se la classe operaia è al governo. Quel che Marx qui prendeva in considerazione è l’esercizio pacifico della dittatura proletaria, e non la sostituzione della dittatura mediante la riforma sociale capitalistica. Questa stessa necessità della conquista del potere politico da parte del proletariato fu in ogni tempo fuori discussione tanto per Marx quanto per Engels. Ed era riservato a Bernstein di scambiare il pollaio del parlamentarismo borghese con l’organo competente a realizzare la trasformazione più formidabile della storia mondiale, cioè il passaggio della società dalle forme capitalistiche a quelle socialistiche. Ma Bernstein ha iniziato la sua teoria manifestando paura e ammonendo di fronte al pericolo che il proletariato giunga troppo presto al governo! In questo caso, secondo Bernstein, il proletariato dovrebbe lasciare immutate le condizioni della società borghese, e subire esso stesso una tremenda disfatta. Ciò che traspare innanzitutto da questa paura è che la teoria di Bernstein fa una sola raccomandazione “pratica” al proletariato, nel caso le circostanze lo facessero giungere al governo: di mettersi a dormire. Ma con ciò essa si giudica senz’altro da sé come una concezione che condanna il proletariato, nei momenti più importanti della lotta, all’inerzia e al tradimento passivo della propria causa. In realtà tutto il nostro programma si ridurrebbe a un miserabile foglio di carta straccia, se non fosse in condizione di servirci per ogni eventualità e in ogni momento della lotta, e servirci grazie alla sua applicazionenon alla sua non applicazione. Se il nostro programma contiene la formulazione dello sviluppo storico della società dal capitalismo al socialismo è naturale che esso debba contenere nelle sue grandi linee la formulazione di tutte le fasi intermedie di questo sviluppo, e debba perciò indicare al proletariato, in ognimomento, la condotta più adatta, nel senso di un avvicinamento al socialismo. Ne consegue che in generale non può esservi per il proletariato nessun momento in cui esso sarebbe costretto a piantare in asso il suo programma, o in cui potrebbe a sua volta essere piantato in asso dal programma. In pratica questo si manifesta nel fatto che non può esistere alcun momento in cui il proletariato, portato dal corso delle cose al governo, non sia in condizioni e anzi non sia obbligato a prendere certe misure per l’attuazione del suo programma, e certe misure transitorie nel senso del socialismo. Dietro l’affermazione che il programma socialista potrebbe completamente fallire in qualsiasi momento del potere politico del proletariato e non dare indicazione alcuna per la sua attuazione, si nasconde inconsciamente l’altra affermazione: il programma socialista sarebbe sempre e assolutamente irrealizzabile. E se le misure transitorie sono premature? Questa domanda racchiude tutto un groviglio di malintesi circa il corso reale dei rivolgimenti sociali. La conquista del potere politico da parte del proletariato, cioè da parte di una grande classe popolare, non è, innanzi tutto, un fatto provocato artificialmente. Se si eccettuano casi, come la Comune di Parigi, nei quali il potere, anziché risultato di una lotta cosciente dei suoi scopi, è caduto eccezionalmente in grembo al proletariato come un bene di nessuno, da tutti abbandonato, questa conquista presuppone un certo grado di maturazione delle condizioni economico-politiche. Qui sta la differenza fondamentale, fra i colpi di stato blanquisti, di una “minoranza decisa” che scoppiano ad ogni momento come colpi di pistola e appunto perciò sempre fuori del tempo, e la conquista del potere statale da parte della grande massa popolare dotata di coscienza di classe, la quale altro non può essere che il prodotto iniziale del crollo della società borghese, e che porta perciò in se stessa la legittimazione economico-politica della tempestività. E se la conquista del potere politico da parte del proletariato non può quindi, dal punto di vista dei presupposti sociali, avvenire “troppo presto”, dal punto di vista delle sue conseguenze politiche, cioè del mantenimento del potere, essa deve invece avvenire “troppo presto”. La rivoluzione prematura che turba i sonni di Bernstein, ci minaccia come una spada di Damocle, e nulla vale a difenderci da essa, né preghiere, né suppliche, né ansie, né paure. E questo per due ragioni semplicissime. Innanzitutto è assolutamente impensabile che un rivolgimento così formidabile come il passaggio della società dal regime capitalistico al regime socialistico avvenga d’un colpo solo, per un solo attacco vittorioso del proletariato. Supporre questo evento come possibile, sarebbe di nuovo ragionare blanquisticamente. La rivoluzione socialista presuppone una lunga ed accanita battaglia, nel corso della quale molto probabilmente il proletariato verrà ricacciato indietro più d’una volta, cosicché, la prima volta, dal punto di vista del risultato finale della lotta, esso sarà necessariamente giunto al potere “troppo presto”. In secondo luogo, questa “prematura” conquista del potere statale è inevitabile anche perché questi “prematuri”attacchi del proletariato sono per se stessi un fattore assai importante, che crea le condizioni politiche della vittoria finale, giacché il proletariato, solo nel corso di quella crisi politica che accompagnerà la sua conquista del potere, solo nel fuoco di lunghe e dure battaglie, potrà raggiungere il grado necessario di maturità politica, che lo renderà capace di provocare il grande e definitivo rivolgimento. Così questi attacchi prematuri che il proletariato sferra alla conquista del potere politico statale si rivelano momenti storici importanti che contribuiscono a provocare e determinare il momento della vittoria definitiva. Da questo punto di vista, considerare come “prematura” questa conquista del potere pubblico da parte del popolo lavoratore, appare un’assurdità politica, che nasce da una concezione meccanica dello sviluppo della società e suppone per la vittoria della lotta di classe un momento determinato all’infuori e indipendente dalla lotta stessa delle classi. Ma dal momento che il proletariato non è in condizione di conquistare il potere pubblico se non “troppo presto”, e, in altre parole, dato che deve assolutamente conquistarlo, una sola volta o più volte, “troppo presto” e, insomma, deve conquistarlo continuamente, l’opposizione contro la conquista “prematura” del potere non è altro che opposizione contro losforzo in generale che fa il proletariato per impadronirsi del potere pubblico. Anche su questa strada – tutte le strade conducono a Roma – arriviamo, naturalmente, a concludere che la raccomandazione fatta dai revisionisti di abbandonare lo scopo socialista, sbocca in quest’altra, di abbandonare tutto il movimento socialista.

Note:

[1] “Politica mondiale” (Weltpolitik) corrisponde press’a poco a imperialismo.

[1] Porto sul Mar giallo “preso in affitto” dalla Germania nel 1898.

[1] Cfr. MARX-ENGELS, Opere scelte, Roma, 1966, p. 303.