In che cosa consistono essenzialmente i mutamenti, le trasformazioni che determineranno una modificazione nell’orientamento e nel modo della vita femminile italiana?

Nel momento dell’unificazione nazionale, la base fondamentale dell’economia nazionale era ancora costituita dall’attività agricola. L’industria moderna capitalistica muoveva appena i suoi primi passi e i prodotti manifatturati offerti al fabbisogno della popolazione provenivano da piccole aziende o – più spesso – dal lavoro di artigiani e lavoratori a domicilio che, pur avendo già perduto di fatto ogni indipendenza perché lavoravano per conto di un capitalista – il quale forniva le materie prime e gli attrezzi – mantenevano alla lavorazione il suo carattere individuale.

Il lavoro salariato a domicilio si effettuava in gran parte nelle campagne, cosicché I’attività agricola e quella industriale permanevano collegate e insieme confuse. Cir­ca 300mila contadine, verso il 1870, lavoravano alla fila­tura domestica di lino e di canapa; 12mila telai erano sparsi per la campagna. Questa industria soddisfaceva di­rettamente al fabbisogno delle famiglie e forniva anche in parte rozzi filati e tessuti alle manifatture ed al com­mercio.

Dopo il ’70 – nonostante la pavidità antipopolare della nascente borghesia e dei gruppi sociali che avrebbero dovuto spingere in avanti il Risorgimento nazionale – l’unificazione obiettivamente opera e determina fatti e fe­nomeni nuovi nella vita economica e sociale della nazione.

Il nuovo Stato – pur tra gravissime difficoltà finan­ziarie – costruisce rapidamente una prima “rete ferrovia­ria italiana”, che naturalmente allarga e unifica i mercati regionali in mercato nazionale, e produce lo sviluppo e il miglioramento della rete stradale.

Si passa, nel 1870, da 1.707 chilometri, che nel 1859 costituivano il totale delle opere ferroviarie dei vari Stati italiani, a 6.077 chilometri della rete ferroviaria italiana; si arriva nel 1890 a 13.163 chilometr, e alla fine del secolo a 15.884; integrati, di mano in mano, da un corri­spondente sviluppo della rete stradale e postale.

Purtroppo la borghesia fa gravare il “costo” di que­ste opere pubbliche essenzialmente sulle grandi masse della popolazione, a cui il nuovo Stato finisce per apparire quasi esclusivamente in veste di esattore rapace. Ma lo sviluppo dei mezzi di comunicazione produce e accelera lo sviluppo commerciale e industriale: ossia lo sviluppo di quella moderna industria capitaìistica rimasta fino allora inceppata e in arretrato dispetto a quella degli altri paesi.

L’industria tessile è la prima ad affermarsi, perché ri­volta al soddisfacimento di un bisogno che, accanto a quel­lo dell’alimentazione, si può considerare primordiale. La tecnica industriale incomincia a svilupparsi in questo cam­po coi telai meccanici e col sorgere di moderne manifat­ture; sebbene il telaio a mano dell’industria casalinga resista ostinatamente al telaio meccanico delle nuove azien­de, la produzione casalinga a poco a poco cede il passo a quella industriale.

Alla fine del secolo, nel campo cotoniero si hanno 60mila telai meccanici, di fronte a 14.627 telai a mano; il linificio e canapificio nazionale concentra la produzio­ne di manufatti di lino e canapa fino praticamente a mono­polizzarla. Lo stesso avviene, con ritmo ancora più rapido, per l’industria serica e – con procedimento più comples­so – per quella della lana.

Nel Biellese e specialmente nella valle Sessera, la re­sistenza delle tessitrici e dei tessitori a domicilio è parti­colarmente intensa. Fra il 1846 e il 1875, hanno luogo lotte, ribellioni di lavoranti a domicilio contro l’irreggi­mentazione nelle fabbriche e contro la nuova ferrea disci­plina che è imposta nelle manifatture. Ma è resistenza inefficace.

Ciò che si va verificando per le attività tessili di mano in mano si estende, in misura sempre più larga, alle altre at­tività industriali. La borghesia italiana allaccia rapporti commerciali con paesi nuovi e lontani. Dallo stesso pe­ricolo che i prodotti manifatturati esteri, con il loro basso prezzo e la qualità superiore, minaccino di rovinare l’in­dustria locale, la borghesia è stimolata al perfezionamento tecnico e alla concentrazione industriale.

Questo sviluppo non procede in modo uguale in tutta la nazione, ha luogo specialmente nelle regioni del nord dell’Italia, contrapposte al Mezzogiorno nettamente agri­colo e inguaribilmente povero e arretrato, perché chiuso nei suoi residui feudali, sprovvisto di risorse, gravato di tasse e quindi condannato all’impossibilità di crearsi un’in­dustria locale. Il nuovo Stato nazionale non sa risolvere questo contrasto e non riesce perciò a realizzare la effettiva unità nazionale.

Ma, pur tra queste contraddizioni e difficoltà, do­vute alla incompiutezza della sua iniziale rivoluzione, il capitalismo italiano si sviluppa. A poco a poco trasforma a fondo la fisionomia economica e sociale di tutta la so­cietà italiana, dando luogo alla formazione di una classe operaia ben caratterizzata, che si va addensando nelle ma­nifatture e nelle fabbriche, e che – nuova e grande forza sociale e nazionale – marcia compatta in avanti, con movimento progressivo inarrestabile. In questa grande forza sociale e nazionale fa il suo ingresso la donna, come lavoratrice salariata, retribuita, come membro attivo e indipendente della vita produttiva generale.

L’ingresso della donna nel mondo del lavoro industria­le della produzione capitalistica è segnato da molti pati­menti e da profonde ingiustizie. In tutti i paesi, il capitalismo, al suo nascere, recluta in massa le donne e i fanciulli e li sottopone a uno sfrut­tamento brutale. Poiché ha bisogno di forza-lavoro a buon mercato, apre le porte delle fabbriche alle donne, alle ra­gazze, ai fanciulli e questi – spinti dall’insufficiente sala­rio del capofamiglia e dalla fame – vi affluiscono nume­rosi, per salari minimi.

Il basso salario pagato alle donne è giustificato dal ca­pitalista con l’affermazione che quanto è normalmente ne­cessario per il mantenimento della donna è già compreso nel salario del marito (o dei familiari maschi in genere) per cui la donna, passando dalle faccende domestiche al lavoro di fabbrica, deve venir retribuita soltanto per le maggiori spese che lo sforzo del lavoro in fabbrica richie­de. Alla donna, infatti, si concede meno del 50% di quan­to corrispondentemente vien dato agli uomini.

Più tardi, a questa teoria della retribuzione integrati­va o “elemosiniera”, si sostituisce la teoria della infe­riorità di forza fisica. Sull’effettivo minor grado di istruzione e specializzazione tecnica della donna – conseguen­za della sua secolare oppressione – si pretende di costrui­re una sua inferiorità ineliminabile e quindi una minore produttività del suo lavoro. Il capitalismo arriva persino a servirsi della donna lavoratrice come concorrente dell’uomo lavoratore e come mezzo di riduzione di tutti i salari. Il terrore della disoccupazione e della fame impe­dirà per molto tempo agli operai di assumere e sostenere con le donne la lotta in difesa delle lavoratrici, come momento necessario della lotta comune di tutta la classe.

La donna, al sorgere del capitalismo, entra dunque nel processo produttivo, portando con sé il triste retaggio del­la sua antica subordinazione e oppressione. In quella prima esperienza di produttrice, con retribuzioni veramen­te “da elemosina”, patisce – insieme con i piccoli suoi figli, coi fanciulli – delle condizioni di vita e di lavoro di­sumane.

Vi sono documenti e pagine di storia che riempiono di orrore e gettano una luce sinistra sul primo sviluppo in­dustriale dei paesi capitalistici: gli scritti dei coniugi Webb sulla nascita dell’industria capitalistica in Inghilter­ra, l’inchiesta di Engels su La situazione della classe operaia in Inghilterra e altri.

Engels si sofferma particolarmente sulle condizioni delle donne e, in primo luogo, delle donne addette a la­vori generalmente considerati meno gravosi, e quindi adat­ti alle forze fisiche femminili: le lavoratrici dei pizzi, le cucitrici, le modiste e cosi via.

Un ramo di lavorazione dei pizzi, quello dei pizzi al tombolo – informa Engels – in Inghilterra è assai svi­luppato in contrade già esclusivamente agricole, dove gli abitanti sono ridotti a una miseria tale da doverne fuggire a qualsiasi costo. Le donne e le fanciulle vengono, per questa generale miseria, facilmente reclutate. Sono rinchiuse in locali ristretti, mal areati, umidi, costrette per lunghe ore a rimanere curve sul lavoro. Per sostene­re i loro corpi in quella posizione faticosa, le fanciulle portano un corsetto montato in legno, che, data la te­nera età in cui viene indossato, quando le ossa sono an­cora molto delicate e data la posizione curva a cui il la­voro costringe, sposta completamente lo sterno e le co­stole, provocando un restringimento generale della cassa to­racica tanto che moltissime di queste ragazze muoiono tisiche, dopo aver patito tutti i tormenti, compresi quelli cagionati dalle continue cattive digestioni. Non ricevono alcuna educazione sono abbrutite dal lavoro e dalle sofferenze, in uno stato morale pietoso e portate a cadere facilmente nella prostituzione.

“È caratteristico – osserva Engels – che proprio la fabbricazione di quegli articoli che servono per adorna­re le dame della borghesia comporti danni gravi per la sa­lute delle operaie che vi sono occupate. L’abbiamo già vi­sto in precedenza, parlando della fabbricazione dei merlet­ti e una nuova dimostrazione ai viene ora fornita dalle modisterie di Londra.”1

Gli stabilimenti per la lavorazione dei prodotti di mo­da impiegano, infatti, un gran numero di ragazze, 15mila circa, in maggioranza originarie della campagna, che abitano e mangiano negli stabilimenti stessi e sono in tal modo completamente schiave del padrone. Nella stagione di massima occupazione l’orario di lavoro giorna­liero è normalmente fissato a quindici ore e, in caso di lavoro urgente, a diciotto. In generale, però, si lavora senza badare all’orario: le ragazze non hanno mai più di sei ore – e sovente soltanto tre o quattro – per dormi­re. Lavorano da diciannove a venti ore il giorno, quando pure non sono costrette, come frequentemente accade, a passare l’intera notte sul cucito: il limite della loro fatica è soltanto rappresentato dalla assoluta impossibilità fisica di piantare l’ago un minuto di più. Vi sono casi di ragazze rimaste per nove giorni consecutivi senza svestirsi, ripo­sando qualche ora sdraiate su di un materasso e nutren­dosi con cibo già preparato spezzettato per risparmiare tem­po nel consumarlo. A questa fatica incessante – che non sarebbe tollerabile neppure per un uomo robustissimo – si aggiunge la cattiva alimentazione e l’insufficienza d’aria nei locali di lavoro e nei dormitori. Quelle giovani donne soffrono ben presto dei mali più gravi: deformazione della colonna vertebrale, dolori atroci alla testa, gonfiori e di­sturbi tormentosi agli occhi, tosse, asma, fino a che la tisi non mette fine alla loro torturata esistenza.

“Tutti i medici – conclude Engels – interrogati dal commissario (della Child Empi. Comm.) affermarono con­cordemente che non sii potrebbe trovare un modo di vita più indicato per distruggere la salute e provocare una mor­te prematura.”2

Che dire, poi, delle condizioni in cui donne e fanciulli lavorano in altri più pesanti rami di produzione, ad esem­pio nelle miniere? Lì le donne sopportano quattordici o quindici ore giornaliere di fatica bestiale, sottoterra, nell’oscurità totale del corpo e dello spirito. Soltanto a seguito di un’ondata di sdegno generale, su­scitata da una vasta campagna condotta su queste atrocità da filantropi e da studiosi di scienze sociali, si ebbero, in Inghilterra, le prime leggi rivolte a frenare la cinica bru­talità dei padroni, ad arrestare quella spietata distruzione di tanta forza-lavoro, di tanta povera umanità. Tuttavia, anche dopo la proclamazione di quelle leg­gi, il lavoro delle donne nelle miniere resta durissimo: “Giovani ragazze portano dieci tonnellate di minerale al giorno”, dice alla Commissione d’inchiesta un minatore che “per rispetto al sesso” vuole vietata alla donna una cosi degradante fatica.

Da questo inumano trattamento è contrassegnato il primo ingresso della donna nell’attività produttiva del si­stema capitalistico: in Inghilterra prima, e successivamente negli altri paesi.

E in Italia?

Nel nostro paese gli stessi fenomeni si verificano in ritardo, per l’arretratezza del nostro sviluppo industriale, ma in modo analogo.

Anche in Italia, nell’industria tessile, che è la prima a svilupparsi, i proprietari delle manifatture reclutano in gran numero le donne, volendo compensare l’arretratezza dei loro impianti e macchinari con l accentuato sfruttamento del lavoro a buon mercato: del lavoro delle donne e dei fanciulli.

Le condizioni in cui le donne e i fanciulli sono get­tati nel processo produttivo della nuova industria capita­listica non differiscono molto da quelle presentateci da Engels con La situazione della classe operaia in Inghil­terra.

“Negli ultimi anni dell’800, in prossimità di Mon­za, a pochi chilometri da Milano – racconta un onesto informatore dell’epoca, che aveva condotto un’indagine sulla situazione della industria tessile – vi sono opifici costituiti da locali angusti, dove lavorano dall’alba fino a tarda sera delle creature che dovrebbero frequentare anco­ra l’asilo infantile; infatti in qualche località queste crea­turine arrivano al lavoro portate in braccio.”

Molti scrittori di ogni tendenza economica e politica, del resto, hanno reso nota e documentata la presenza a quell’epoca, in opifici tessili, di bambine di cinque o sei anni: presenza dovuta alla spaventosa miseria e degrada­zione delle famiglie operaie che gli industriali tentano persino di presentare come espressione del loro sentimento umanitario, del loro proposito di sottrarre i bimbi alla se­duzione dell’ozio e del vagabondaggio, tenendoli d’inverno al caldo e d’estate all’ombra, e cioè in situazioni migliori di quelle delle loro case.

La maggior parte di quei bambini sono impiegati nei filatoi di seta, con orari di lavoro di tredici ore giornaliere nell’inverno e di 15-16 ore nell’estate. Nei filatoi ad acqua il lavoro è continuo: dura tutta la notte; e in Lombardia 15mila bambini lavorano in questo modo, compensati con un salario che va dai 20 ai 24 centesimi al giorno. Nelle filande di seta lavorano in grandissimo numero le bambine dai cinque ai dodici anni; ogni operaia ne ha assegnata una per girare l’aspo e mantenere acceso il for­nello; il lavoro dura dalle 12 alle 15 ore quotidiane ed è compensato con 15-30 centesimi al giorno.

“A queste ragazzine – racconta uno scrittore del tem­po – si lasciano solo cinque o sei ore di sonno; quando non tornano a casa la sera, si ricoverano in stanze mal area­te, su miserrimi giacigli e poca o nessuna cura si ha della loro pulizia, né della loro educazione.”

Lo stesso avviene nelle filande di cotone, di lino, di canapa, di lana. Sono impressionanti certe tabelle sull’im­piego della manodopera infantile: nel 1876, secondo le statistiche del tempo, su 200.396 salariati impiegati nell’industria della seta, 64.273 sono fanciulli, 120.428 don­ne e 15.695 uomini.

Miserrimi sono in quell’epoca tutti i salari, tenuti bassi appunto dal vasto impiego di manodopera infan­tile e femminile. Anche negli anni seguenti gli aumenti sono assai lievi. Il Lanificio Rossi – per citare un esem­pio – nell’anno 1898 pagava questi salari medi femminili nei suoi stabilimenti di Schio:

  • tessitrici 1,50 Lire giornaliere
  • addette alla lana 1,30 Lire
  • rammendatrici 1,40 Lire
  • orditrici 1,30 Lire
  • spolatrici 1,40 Lire

A quel tempo il pane costava 50 centesimi il chilogrammo.

Gli opifici sono lugubri stanzoni, con finestre ermeti­camente serrate, macchine antiquate. Ai telai, agli incanna­toi, alle bacinelle colme d’acqua bollente, lavorano donne smunte, pallide, vestite di cenci; hanno davanti le piccole bimbe, già anch’esse scolorite, stanche, umiliate. Quei po­veri esseri vengono “spronati” continuamente al lavoro dai direttori, dagli assistenti di fabbrica, muniti di bastone e retribuiti con un “supplemento paga” di due o tre litri di vino al giorno!

“Sotto il Castello di Moncalieri – è detto in un’in­teressante relazione pubblicata in tempi più recenti nella Voce dei tessili – uno di quei dirigenti ha in dotazione quattro litri di vino: ubriaco, prima che giunga la sera, lancia urla orribili.”

Anche in Italia è infine aperta una campagna di in­chieste, di denunce e di proteste, che costringono il parla­mento e il governo a emanare le prime leggi (1886) sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Con queste leggi, si proibisce il lavoro notturno ai fanciulli di età inferiore ai dodici anni e si limita per gli altri questo lavoro a sei ore. Ma – narra un memoriale dell’epoca – avviene che due fabbriche si mettano d’accordo per far lavorare i fanciulli sei ore in una fabbrica e sei ore nell’altra, scambiandosi le mute. Cosicché i fanciulli lavorano dodici ore notturne consecutive, risultando impiegati soltanto per sei ore – co­me è stabilito dalla legge – da ognuna delle fabbriche concordate.

Lo stesso procedimento si applica per le donne; che in numero sempre maggiore popolano gli opifici e le fabbriche.

Alla fine dell’800 si contano in Italia 2.069 opifici tes­sili per il lino e la canapa con circa 174mila salariati, in grande maggioranza costituiti da contadine venute dalla campagna. Secondo i dati degli industriali, nell’industria della seta, nel 1890 lavorano 120.386 donne, 36.586 fan­ciulli, 15.384 uomini; nell’industria della lana del 1894, sono occupate 13.503 donne, 3.658 fanciulli, 13.464 uo­mini; in quella del cotone, nel 1901, lavorano 82.932 donne, 17.528 fanciulli, 34.750 uomini.

Un notevole e sempre crescente numero di donne pe­netra inoltre in tutti gli altri rami della produzione in­dustriale.

L’industria del tabacco si sviluppa e si organizza na­zionalmente, come monopolio di Stato, impiegando in mi­sura prevalente manodopera femminile. Le tabacchine, avvelenate di nicotina, non preservate né soccorse da mezzi di difesa e da controveleni, popolano le manifatture delle grandi città.

L’industria meccanica, che per il modo della sua attrez­zatura richiede ancora sforzo e resistenza fisica notevole, si serve invece delle donne soltanto per i servizi marginali, di pulizia dei locali o altri analoghi, retribuiti con salari minimi e considerati essenzialmente lavori servili. Il pro­gresso tecnico, nei decenni successivi, porterà poi le donne, a migliaia, nel lavoro dei torni e delle macchine, in questo ramo dell’industria, come in quello delle pelli e dei pro­dotti chimici.

Sul finire dell’800, le donne sono pure notevolmente impiegate – insieme coi fanciulli – nell’industria estrat­tiva; particolarmente nelle miniere di zolfo della Sicilia, dove la vita delle lavoratrici e dei loro bimbi si svolge in un quadro tanto duro, doloroso, disumano da suscitare persino ondate di sdegno e di protesta nel paese. “Mio padre – raccontava recentemente un giovane lavoratore siracusano – a sei anni già lavorava nelle zolfare siciliane: legata strettamente alla fronte, come a corona, portava una piccola lanterna a olio, per illuminarsi il cammino negli oscuri corridoi della miniera; trasportava pesanti carichi di minerale, per ore e ore, dal sorgere al calar del sole. Allo stesso modo si è consumata mia madre. Uomini e don­ne uscivano persino deformati nell’aspetto fisico da quel lavoro, che lasciava cosi il suo marchio doloroso su tutta la popolazione del luogo.”

Migliaia e migliaia di donne sono poi occupate nell’in­dustria dell’abbigliamento, che va creando e sviluppando i suoi magazzini e laboratori, dove gli orari di lavoro non hanno limiti e le retribuzioni sono miserrime. Le cucitrici, le ricamatrici, le sartine, le modiste, le stiratrici costitui­scono categorie di operaie in costante aumento; special­mente nelle grandi città, che riforniscono la provincia di tutti i prodotti dell’abbigliamento, e, con le variazioni stagionali della moda, danno incremento all’industria e al commercio.

Pure nel campo del lavoro commerciale penetrano le donne, particolarmente in qualità di commesse, con una specializzazione favorita dalle naturali doti femminili e con una fatica resa intollerabile dagli orari eccessivi, senza posa e senza respiro. Nelle botteghe, nei distributori, giovani commesse, sorridenti e gentili, sempre in piedi, sempre in moto, per dodici e più ore il giorno, si conquistano il pane e a fatica le scarpe e i vestiti decenti, richiesti “per il decoro del negozio e del padrone”.

Anche le donne della piccola borghesia, specialmente nelle regioni settentrionali dell’Italia, sono costrette a por­tare il loro contributo alle insufficienti risorse della fami­glia, e incominciano, in questo primo periodo di sviluppo capitalistico, a impiegarsi: come scrivane, segretarie, corri­spondenti, contabili nelle aziende, negli uffici, nelle ammi­nistrazioni pubbliche e private, nelle scuole. La minore re­tribuzione femminile ne facilita l’assunzione; la caratte­ristica diligenza, precisione, docilità ne rende proficuo il lavoro il quale, però, è sempre mantenuto nei gradi più bassi della qualifica, dal punto di vista della carriera e della retribuzione. Alle donne comunque impiegate, soggette a orari di lavoro estenuanti, sovente ricattate dal malco­stume dei padroni, si nega ogni possibilità di avanzamen­to, di autonomia e di direzione nel lavoro. Gli stipendi delle impiegate sono forse ancora più “da elemosina” dei salari delle operaie.

Si può dire in generale che alla fine dell’800 le donne sono penetrate in tutti i rami dell’attività industriale e commerciale, rappresentando una percentuale notevole e in continuo aumento della popolazione occupata in queste attività.

Per altre vie, la penetrazione della donna avviene pure nell’attività produttiva delle campagne.

Con l’avvento del capitalismo, una lenta ma profonda trasformazione si produce anche nella vita dei campi. Ri­mangono indisturbati, specialmente nel Mezzogiorno, i pri­vilegi e i residui nobiliari e feudali, ma elementi nuovi capitalistici entrano nell’agricoltura, determinando modifi­cazioni profonde di natura economica e sociale.

Si verifica in quegli anni – ad esempio – la aliena­zione ai proprietari e ai capitalisti della cosiddetta “mano morta” e cioè delle terre che, all’inizio del nuovo regno, erano in mano al demanio statale e comunale, alle opere pie, alle congregazioni, alla Chiesa, e costituivano una parte notevole delle terre italiane, specialmente nel Mezzogiorno e nelle regioni del centro.

Nell’Italia settentrionale, invece, la formazione e lo svi­luppo di aziende capitalistiche – soprattutto nella Val Pa­dana – sono favoriti dalle opere di bonifica e di irriga­zione iniziate nel nuovo Stato. In Romagna – ad esem­pio – nel corso di due decenni una distesa di nuove terre, pari ad un terzo della primitiva superficie coltivata, viene conquistata,e passata a grandi aziende capitalistiche.

Inoltre, anche nel campo dell’agricoltura, per effetto della caduta delle barriere doganali e dello sviluppo dei mezzi di comunicazione, i mercati locali e regionali si allar­gano in mercato nazionale. Le leggi della concorrenza spingono i produttori di ogni regione ad una prima spe­cializzazione delle colture: la produzione granaria aumenta nell’Italia settentrionale e diminuisce nel sud; la produ­zione vinicola si sposta; quella delle arance si specializza nella Conca d’Oro e in altre parti della Sicilia; quella del bergamotto nella provincia di Reggio Calabria; quella dei limoni nella costiera di Amalfi; quella del tabacco in pro­vincia di Lecce; quella della canapa nel Napoletano, e cosi via.

Infine, la concorrenza sul mercato nazionale di aziende meglio attrezzate e sviluppate tecnicamente dà luogo ad una crisi profonda dei piccoli produttori agricoli. Il piccolo con­tadino cerca di porre riparo alla minore produttività della sua azienda prolungando all’estremo la sua giornata lavo­rativa, impiegando nel suo campicello persino la forza di lavoro dei suoi bambini, e riducendo al minimo i consumi. La concorrenza dei più forti, l’usura, le imposte, la rovina dell’industria domestica finiscono per gettarlo nella miseria totale.

Durante i primi decenni dell’Unità, la piccola proprietà contadina subisce, infatti, dei colpi gravissimi. Il numero dei proprietari diminuisce da 4.153.645 nel 1861, a 3.351.498 nel 1881: la proprietà va di mano in mano concentrandosi nelle aziende agricole capitalistiche della nuova borghesia terriera.

Questo processo di immiserimento della popolazione povera della campagna favorisce il reclutamento, da parte delle nuove aziende agrarie capitalistiche, di larghe masse di lavoratori salariati, di braccianti, di contadini poveri che, spinti dalla fame, vanno a procacciarsi – a dure condi­zioni – un misero salario dal proprietario borghese e, per bisogno, vi portano le donne, le figlie, le spose, I’intera famiglia.

Le donne, migliaia di donne, lasciano la loro casa di campagna, e diventano salariate nelle risaie della Pianura padana e del Vercellese, nei campi, negli oliveti, negli agru­meti, nelle nuove vaste colture di canapa, di tabacco. Vanno ad ingrossare le folte schiere delle altre donne che nella campagna sono state reclutate per gli opifici e le fab­briche;e costituiscono numerose nuove categorie di sala­riate, sovente con lavori stagionali, come le risaiole, le agru­maie, le raccoglitrici di olive, le maciullatrici della canapa, le lavoratrici del tabacco, e cosi via. Inoltre, centinaia di migliaia di donne partecipano or­mai direttamente al lavoro – oltre che nelle case – nei fondi dei mezzadri, dei piccoli fittavoli, dei piccoli con­duttori di campagna. Persino nelle regioni più arretrate del Mezzogiorno le donne sono costrette, a poco a poco, dalla miseria e dal bisogno, ad uscire dalla casa, dal loro secolare isolamento, per correre nei campi, al lavoro.

La particolare inferiorità di quelle regioni nella con­correnza sul mercato nazionale rende ancor più grave, nel Mezzogiorno, il processo di espropriazione della piccola proprietà: soprattutto della espropriazione per mancato pagamento delle imposte, in quelle regioni insostenibilmen­te gravose. I contadini poveri restano cosi privi di terra e di lavoro salariato, perché in quelle regioni l’industria non si sviluppa e la coltura, generalmente ancora primitiva ed arretrata, richiede limitata manodopera. Ne nasce una disoccupazione disperata, una miseria intollerabile.

Ecco come i Sonnino ed i Franchetti – nella loro in­chiesta del 1875 – rappresentano il desolato mercato del lavoro salariato in Sicilia: “La mattina prima dell’alba si vede riunita sulla piazza di ogni città una folla di uomini e di ragazzi, ciascuno munito di una zappa: è quello il mercato del lavoro e son quelli tutti lavoranti che aspet­tano chi venga a locare le loro braccia per la giornata o per la settimana” .

Poiché pochi, troppo pochi, sono i “locati”, poiché in Italia non si può vivere del proprio lavoro, migliaia e migliaia di contadini meridionali, ridotti all’estremo della miseria e dell’abiezione, se ne vanno dalla patria, emi­grano in lontani ignoti paesi. I proprietari sono cosi costretti ad aumentare le mer­cedi e ad assumere manodopera femminile. Le donne prendono parte al lavoro dei campi, incominciano a lavo­rare come produttrici indipendenti. Ma in quali condizioni!

I borghi, causa la malaria, stanno sulle cime dei colli.

Le donne ne partono il mattino, un’ora prima del sorgere del sole; vanno al campo con un cesto sulla testa dove dorme un bambino ed una corda alla cintola che trascina un maiale o una pecora; sulle spalle una zappa, una brocca d’acqua e un po’ di pan nero sotto l’ascella. Un tempo si usavano piccole zappe per le donne: ora anch’esse devono sottoporsi a un lavoro più faticoso e proficuo e lavorano con le zappe e le vanghe degli uomini.

Corrono precipitose giù per le balze dei colli; arrivate al piano, fanno come un treppiede di canne, vi poggiano so­pra il cesto col loro bambino, e cominciano il lavoro. Un’ora prima dell’avemaria ripigliano il sentiero faticoso del mon­te e così ogni giorno, guadagnando 50 centesimi il giorno.

Tuttavia in quelle regioni meridionali, proprio per effetto di questo fatto nuovo, di questo ingresso della donna nel vivere sociale, il progresso appare maggiore nelle donne che negli uomini. Paragonando, ad esempio, il numero delle persone che sapevano leggere nel 1881 e nel 1901, si vede che questo numero è aumentato proporzionalmente più nelle donne che negli uomini.

Ecco qualche dato proporzionale in cifre percentuali:

Censimento
del 1881
 
Censimento
del 1901
 
MaschiFemmine Totale MaschiFemmine Totale
Catania 22,8910,6116,68 33,0021,5527,34
Cosenza 22,555,8113,6430,6512,8620,82
Girgenti22,708,6715,5830,8018,8824,90
Palermo 32,3719,3325,9042,3832,6837,51
Potenza22,977,4614,8232,4916,9024,61

Così le donne, a migliaia, a centinaia di migliaia, esco­no dal chiuso mondo della casa, ed entrano nel mondo produttivo del lavoro socialmente organizzato. Vi entrano impreparate a difendersi: ignare e disar­mate, anzi schiacciate dalla loro lunga storia di subordi­nazione e di servitù, vi entrano col marchio dell’inferiorità sociale che le umilia a una fatica e a una retribuzione ingiusta. Ma vi acquistano coscienza di sé e del vasto mondo sociale, di cui sentono infine di far parte; coscienza dei loro diritti di produttrici e di donne, di membri attivi della nazione e dell’intera società.

L’avvento del capitalismo ha dunque costretto la donna italiana ad una grande svolta: che nei suoi primi passi sembra segnare una strada cosparsa soltanto di intollerabili fatiche, di sofferenze e di umiliazioni; ma che tuttavia rap­presenta un primo passo – per quanto doloroso – sulla via della sua effettiva emancipazione.

Strappando la donna alla casa per gettarla sul mercato del lavoro, nella fabbrica, la grande industria – in defini­tiva – ha fatto di lei un membro produttivo indipen­dente nella famiglia: qualche volta persino il sostegno della famiglia, Ed in tal modo ha tolto ogni base alla supre­mazia dell’uomo nella casa. Modificando le basi economiche della famiglia, ne ha sconvolto i rapporti; e un mutamento di rapporti fra i due sessi si determinerà in tutta la società. Non subito: attraverso un processo che si svolge lento e faticoso; fra molti ostacoli creati da costumi secolari e da forze conservatrici che continuano a influire profondamente sulle masse femminili e popolari italiane, come la Chiesa e le istituzioni che alla Chiesa si ispirano; ma che tuttavia si intravede, come processo in marcia, inarrestabile.

Dinanzi a questa realtà si levano voci di rimpianto e di sdegno, talora appoggiate da quadri suggestivi e nostalgici della antica famiglia, minacciata di dissoluzione.

Ora, ogni istituto umano ha sicuramente avuto, nel proprio tempo, una sua valida giustificazione e una sua qualche umana bellezza. Ogni cosa vissuta e perita nel tempo, fra gli uomini, se considerata a sé, isolata dalle circostanze che l’hanno prodotta e da quelle che ne hanno determinato la dissoluzione o la modificazione, può senza dubbio essere poeticamente esaltata e rievocata. Ma, per quanto doloroso, o terribile o disgustoso possa apparire questo fatto ai nostalgici del passato e agli incapaci di guardare fino in fondo nella realtà, è certo che la vecchia famiglia esce modificata dal rivolgimento economico e so­ciale prodotto con la nascita e lo sviluppo del sistema ca­pitalistico. Non sono i marxisti, i comunisti, i “materia­listi” a produrre questa modificazione, a dissolvere la famiglia, come pretendono con rammarico e sdegno tanti dei cosiddetti difensori dell’idea familiare.

I marxisti constatano i fatti che si sono prodotti con l’avvento del sistema borghese capitalistico, ne studiano le cause, gli aspetti e ne intravedono gli sviluppi, anche pro­gressivi. Scoprono che la famiglia di vecchio tipo, del pe­riodo precapitalistico, è degradata, decomposta e distrutta o profondamente modificata nelle classi lavoratrici. È di­strutta non dal marxismo, non dal materialismo, non da ideologie ma dal mercato del lavoro apertosi con il sistema capitalistico, dal modo di impiego delle donne e dei fan­ciulli nella industria capitalistica, che ignora tutti i legami familiari dei proletari e trasforma persino i bimbi in arti­coli di commercio e in strumenti di profitto; è distrutta dalla miseria, dalla fame, dall’abbrutimento conseguenti a questo sistema, dal modo di vita sociale che esso determina.

Nella sua opera sulla situazione della classe operaia inglese, Engels descrive anche il martirio delle donne madri, dopo aver elencato i patimenti delle lavoratrici.

“Spesso le donne ritornano in fabbrica – dice En­gels – tre o quattro giorni dopo il parto e naturalmente lasciano a casa i neonati; nelle ore libere devono correre a casa per allattare il bambino [ … ] Lord Ashley riferisce le dichiarazioni di alcune operaie: “M.H. di vent’anni, ha due bambini [ … ] essa va alla fabbrica la mattina poco dopo le cinque e torna a casa alle otto di sera: durante il giorno il latte le scorre sul petto e le inzuppa le vesti [ … J “. L’im­piego di narcotici per far stare tranquilli i bambini viene favorito ulteriormente da questo infame sistema [ … ]. Il dottor Johns, capo dell’ufficio di stato civile di Manchester, è dell’opinione che tale abitudine sia la causa principale dei numerosi casi di morte per convulsioni.”3

“La donna ritorni al focolare – suggeriscono a rimedio i nostalgici del passato – quello è il suo vero posto: l’uomo deve nutrire la donna.”

La realtà che ci vive intorno risponde, meglio di ogni argomento, che nella società attuale l’uomo lavoratore non può, con il suo solo lavoro, nutrire la donna e tutta la fa­miglia. Ma, a parte questo fatto, il preteso rimedio del ritorno alla casa significherebbe un regresso per la donna e per la società attuale in generale. La partecipazione al lavoro produttivo apre alla donna la via della sua indipen­denza economica e al mondo della produzione uno straor­dinario apporto di forze, energie e capacità nuove. Non si può limitare in alcun modo il diritto – che appartiene alla donna come ad ogni essere umano – di vivere del proprio lavoro senza nulla dovere ad alcuno e, conseguen­temente, di disporre liberamente di sé. Non si può impri­gionare la donna nel suo sesso, trasformato – in certo modo – in professione. Le rivolte anarchiche contro il ma­trimonio e le storture che ne derivano sono in fondo de­terminate da questa intrusione di elementi costrittivi eco­nomici nelle relazioni fra uomo e donna.

Il male della famiglia non è nel lavoro economicamente indipendente della donna, ma nel modo di questo lavoro e negli ostacoli che il costume, non meno delle leggi, op­pone all’azione sociale della donna.

Assicurando invece alla donna – come all’uomo – lo sviluppo integrale della sua specifica personalità e la libera esplicazione di questa personalità, nella costruzione ed or­ganizzazione della vita sociale, sarà possibile giungere alla effettiva emancipazione della donna ed alla trasformazione progressiva della famiglia, senza storture né deformazioni, senza sacrificio né attenuazione di ciò che nella famiglia permane e deve permanere valido: gli affetti familiari, i motivi disinteressati ed etici della convivenza familiare, il valore della maternità, i rapporti e doveri che ne derivano.

Per quanto con mano brutale e disumana, “la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli ado­lescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di pro­duzione socialmente organizzati al di là della sfera dome­stica”4, dice Marx.

Questo tipo superiore di famiglia, questo modo supe­riore di rapporti fra i due sessi, deve essere realizzato dalla rivoluzione che nel mondo di oggi segue quella, ormai esau­rita e superata, della borghesia capitalistica: dalla rivolu­zione socialista. E’ l’obiettivo delle donne e degli uomini che marciano fiduciosi e risoluti verso il socialismo.

Non da questa esigenza, però, di effettiva e totale eman­cipazione, non da questo obiettivo di trasformazione fami­liare progressiva potevano essere mosse le centinaia di mi­gliaia di donne strappate in quella fase iniziale di sviluppo capitalistico alle loro case dalla miseria e dal bisogno e gettate nelle fabbriche, negli opifici e nei campi alle con­dizioni che abbiamo indicate. Esse obbedivano, in quel mo­mento, alfa feroce legge della necessità, senza resistenza né difesa. Ma, attraverso l’esperienza in comune, impareranno a difendersi, a lottare. A lottare in un primo tempo per con­quiste primordiali, essenziali, immediate: per un po’ più di riposo, per un poco più di pane, per un po’ meno di barbarie nel trattamento e nello sfruttamento. “È una leg­ge politica naturale – scrive John Stuart Mill – che coloro i quali subiscono un potere, un’oppressione di ori­gine antica non incomincino mai a lamentarsi del potere stesso, ma soltanto del fatto che Io si eserciti in maniera oppressiva.”

La lotta, però, di mano in mano si sviluppa, e nella lotta la coscienza si illumina e si fortifica. Le donne italiane, o meglio quel doloroso e valoroso reparto di salariate, di operaie, di braccianti, di impiegate, di lavoratrici gettate per prime nella produzione capitali­stica, quel doloroso e valoroso reparto di donne italiane percorre faticosamente i suoi primi passi; non sa ancora creare un movimento femminile -autonomo ed effettivo, ma ne crea le premesse, le condizioni; costituisce la prima forza effettiva del movimento di emancipazione femminile in Italia; e obiettivamente porterà avanti, con sé, tutte le donne del popolo italiano.

Note:

1 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Roma, 1973, pp. 239-240.

2 Ibidem , p. 241

3 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit., p. 178.

4 K. Marx, Il capitale, Roma, 19748, Libro I, p. 536.