
La funzione sociale dei movimenti di lotta per la casa
La condizione di “povertà assoluta”, come viene chiamata da politici, analisti, media e istituzioni, passa oggi più che mai dalla difficoltà per un numero crescente di famiglie di avere accesso e/o mantenersi un tetto sopra la testa. Basta elencare pochi dati per rendersi conto dell’enormità del problema. Secondo un’indagine Nomisma-Federcasa, nel 2016 circa 1.7 milioni di famiglie in affitto verteva in condizioni di precarietà abitativa[1]. Nello stesso anno, in Italia è stata sfrattata in media 1 famiglia ogni 419 residenti: un aumento significativo rispetto, per esempio, al 2007 quando la media era 1/519. In molti contesti urbani i numeri sono ben più alti, per esempio a Firenze (1/360) o a Roma (1/279). Senza contare le famiglie costrette alla co-abitazione (solo a Roma sono circa 6mila), quelle in attesa di una casa popolare (solo a Roma oltre 3mila). In questo scenario le politiche abitative che ruolo hanno? Non lo hanno, dal momento che non ci sono o, al massimo, hanno un ruolo marginale. La casa, si sa, è in primis una merce e come tale deve circolare, essere messa a valore. La rendita fondiaria è nel capitalismo del XXI secolo ancora un asse portante e tutto ciò che impedisce al mercato immobiliare di svilupparsi –come un piano di edilizia residenziale pubblica, per esempio –non può certo trovare terreno fertile.
Se le politiche abitative non ci sono, i movimenti di lotta per la casa sì, e in questo panorama il loro ruolo è innegabile. Spesso sono l’ultimo baluardo organizzato che si frappone fra le famiglie e la strada. La loro funzione sociale è difficile da mettere in discussione, per vari motivi. Prima di tutto, attraverso le occupazioni di immobili abbandonati (per lo più di proprietà pubblica), i movimenti danno di fatto un’alternativa a tutte quelle persone che il welfare non intercetta: immigrati senza permesso di soggiorno, giovani che si staccano dalla famiglia, disoccupati, lavoratori precari. Inoltre, nei territori i movimenti si organizzano spesso attraverso sportelli anti-sfratto. Tentano cioè di mettere in campo muri di solidarietà in modo da impedire (o almeno ritardare) la fuoriuscita dalla casa di una famiglia. Inoltre, in molti casi, come per esempio a Roma, alcuni movimenti hanno ottenuto un riconoscimento da parte delle istituzioni locali, spingendo (e a tratti collaborando) all’elaborazione di strumenti legislativi attraverso cui affrontare il problema della casa. Poca cosa, ma nel nulla della politica istituzionale, è qualcosa. Un esempio è la delibera della regione Lazio 110 del 2016[2] che destina 200 milioni di euro per il recupero e l’auto-recupero di immobili abbandonati e occupati dai movimenti, nonché per rendere agibili molte case popolari in stato di semi-abbandono.
In sintesi, in mancanza di un sistema di welfare, i movimenti di lotta per la casa raccolgono fette importanti di proletariato e sotto proletariato urbano: quello che non ha –o non può mantenersi con continuità –un tetto sopra la testa. Anche se censimenti precisi non sono possibili, solo a Roma intercettano oltre 15mila persone all’interno di occupazioni che sono disseminate su tutto il territorio urbano. Ciò tradotto significa che queste organizzazioni riescono a coprire con presidi di resistenza spazi urbani (e centri storici) costruiti e dominati da dinamiche di consumo e spoliticizzazione che caratterizzano l’urbanistica neo-liberista. Una potenzialità politica enorme insomma: spazi fisici attraverso cui organizzare un’ampia base sociale che si sviluppa nel cuore della contraddizione capitalistica. Ma appunto: è una potenzialità.
La loro elaborazione politica, anziché coordinarsi e rafforzarsi con la funzione sociale che le occupazioni svolgono nei territori, è passata spesso in secondo piano, messa da parte davanti a un mutualismo che in molti casi si è tradotto in assistenzialismo. Basta guardare le dinamiche interne dei movimenti per capirlo. I numeri degli occupanti, come dicevamo, sono altissimi, ma sarebbe un errore pensare che essi corrispondano a un numero altrettanto grande di militanti e attivisti. Il movimento ha messo sotto lo stesso tetto, all’interno dello stesso percorso, il proletariato urbano, sì. Ma ciò non significa di necessità che abbia intrapreso la strada per una sua ricomposizione. E come mai? Se da un lato le modalità di organizzazione interna e il rapporto fra dimensione politica e sociale tipiche dei movimenti possono essere considerati responsabili, anche le contingenze storiche hanno un loro peso.
Repressione e movimentismo
La repressione verso le organizzazioni dal basso non è certo una novità, ma ogni momento storico trova un peculiare modo di legittimare la violenza in controllo sociale. Oggi la gestione poliziesca dei conflitti sociali è supportata dalla retorica del decoro. Una retorica che ha l’effetto di negare lo spazio urbano come spazio sociale e politico e di affermarlo e difenderlo come spazio di ordine pubblico. Un paradigma che punisce molti movimenti e organizzazioni dal basso, e –data la loro rilevanza –anche i movimenti di lotta per la casa. Prima ancora di punire le azioni specifiche, si punisce la modalità con la quale i movimenti stanno nello spazio urbano. Si punisce cioè il fatto che questi poveri e senza casa diventino visibili e non si rivolgano alle istituzioni con il cappello in mano. Si punisce che si chieda (si pretenda) una casa non come individui bisognosi ma come collettività organizzata dal basso. Quello che si reprime è il tentativo di occupanti e attivisti di rifiutare e ribaltare la loro condizione. Si puniscono i tentativi, più o meno organizzati, di negarsi come “soggetti poveri” e di affermarsi come soggetti di lotta. Di fatto si negano i tentativi non solo di ribaltare una condizione economica, ma anche di sfuggire a una categorizzazione normativa. Questo paradigma punitivo si traduce in un diffuso controllo sociale che avviene su tre livelli.
Il primo strumento è di tipo legislativo, ed è in grado di colpire la totalità degli occupanti. Si tratta dell’articolo 5 del Piano Casa (legge 47/2014)[3], che porta la firma dell’ex ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi (governo Renzi). Il Piano Casa impedisce due cose: l’allaccio ad acqua, gas e luce, e la possibilità per le famiglie di ottenere la residenza nell’immobile occupato rendendo, di conseguenza, impossibile avere diritto ad un medico di famiglia, di iscrivere i figli a scuola o all’asilo nido. Così, insieme alla casa si negano altri diritti, come quello all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Il secondo livello consiste nell’erogazione di sanzioni pecuniarie a tutti quegli attivisti che, durante manifestazioni di protesta, sono identificati come soggetti che hanno messo a repentaglio un normale dispiegamento delle attività cittadine, per esempio con un blocco stradale o facendo un corteo senza averlo prima notificato alle autorità. Questo tipo di strumento diventa ancora più efficace con la cornice del nuovo decreto Sicurezza di Matteo Salvini. Ciò che fino a qualche mese fa era multabile, con questo decreto legge diventa punibile, nel caso di immigranti, con l’espulsione dal territorio italiano. Questi strumenti–di cui la polizia dispone in autonomia, senza bisogno di un procedimento giudiziario –rappresentano il primo passo verso una persecuzione individuale degli attivisti che sfocia poi nel terzo strumento repressivo: la richiesta di sorveglianza speciale. Coloro che sono identificati dalla Digos come “leader” dei movimenti vengono scoraggiati, attraverso l’avviso orale, a partecipare ad eventi pubblici di protesta e se il “suggerimento” resta disatteso, si procede con la richiesta di sorveglianza speciale che il questore inoltra al tribunale. Se la richiesta è accolta, l’attivista si vede restringere di molto le sue libertà personali attraverso obblighi o divieti come per esempio il divieto o l’obbligo di dimora, il ritiro dei documenti e infine gli arresti domiciliari. Questo è possibile perché l’individuo è stato precedentemente definito e ratificato come “socialmente pericoloso”, secondo una categoria nata per identificare reati scatenanti il cosiddetto “moral panic”, come la pedofilia, il traffico di armi e droga o crimini di natura mafiosa. Questa forma di repressione fatta su misura per un soggetto specifico non punisce nessun crimine. Punisce semmai un soggetto che assomiglia al proprio crimine, punisce l’attitudine a organizzare percorsi collettivi. Ancora una volta, questo strumento risulta doppiamente pericoloso per gli attivisti immigrati che si vedranno con molta probabilità revocato il permesso di soggiorno. Poche settimane fa, Magdalina, un attivista romana di origini rumene si è vista consegnare la notifica del suo urgente allontanamento dal territorio italiano a causa del suo attivismo (senza che nessun processo le fosse mai stato fatto), solo perché il suo attivismo testimonierebbe la sua non integrazione agli usi e costumi locali.
Stretti nella morsa di questa repressione, i movimenti resistono, ma in che forma? In molte città sono chiusi sulla difensiva, tenendosi strette con le unghie e con i denti le occupazioni in atto, ma impossibilitati a farne di nuove. Si portano avanti, nei territori dove è possibile, le attività sociali (come la lotta agli sfratti per esempio). Ma dal sociale si esce ben poco. Molto spesso, le famiglie sfrattate vengono accolte in occupazione, rischiando così di sostituire le istituzioni, più che metterle in contraddizione. Le attività politiche (i presidi, le manifestazioni, le occupazioni simboliche) sembrano svilupparsi in autonomia rispetto a quello che accade all’interno degli spazi occupati, dove la base del movimento si trova. Si produce così un duplice scenario: da un lato gli attivisti politici e sociali, sempre più esposti e nell’occhio della repressione, e una grande massa di occupanti che non sono coinvolti nella politicizzazione. Ed è su questo nodo teorico e pratico che i movimenti sono bloccati in una fase di “vorrei ma non posso”, nonostante i numeri, nonostante la centralità delle contraddizioni nelle quali si inseriscono.
Occupanti, migranti, proletari: unire le lotte, ricomporre la classe.
La resistenza che la lotta per la casa mette in atto, per essere più di una resilienza e per avere prospettive politiche e non solo sociali, ha bisogno di articolarsi su tre fronti: organizzazione di manifestazioni, proteste e azioni nell’arena urbana, il mutualismo nei territori, e la politicizzazione degli occupanti all’interno degli spazi occupati. Quest’ultimo fronte è il più complicato, e quello che con più facilità il movimento ha messo in secondo piano di fronte alle urgenze della repressione esterna. Ma forse anche per uno spontaneismo che caratterizza le organizzazioni di movimento.
I grandi numeri della lotta per la casa sono formati da persone che approcciano il movimento per l’urgenza di un tetto sopra la testa. Questo è il punto di forza di questi movimenti, perché hanno l’occasione di organizzare un disagio materiale ed economico. Ma è anche la sua debolezza, perché se la base non si politicizza, il movimento si traduce in assistenzialismo. La politicizzazione interna però richiede non solo energie, ma anche una chiara prospettiva politica. Se però ciò non avviene lo si paga a caro prezzo: al prezzo di basare un’organizzazione collettiva su alcune soggettività, quelle degli attivisti. Con un grande numero di persone che partecipa al movimento ma non alla lotta politica. Il rischio è quello di fondare un’organizzazione su gambe di argilla.
Non basta mettere persone povere sotto lo stesso tetto per ricomporre una classe. Così come non basta denunciare il problema della casa per portare avanti una lotta che mira al cambiamento radicale delle condizioni che producono la precarietà abitativa. È necessario non solo ricomporre questo segmento di classe, ma anche legarlo agli altri segmenti della classe che i movimenti non intercettano. Ma per capire di dover fare questo, e poi per farlo, è necessario interpretare, e poi praticare, il disagio abitativo come il prodotto del capitalismo e delle relazioni di potere che mette in campo. In breve: è necessario ricondurre la contraddizione sulla casa alla relazione di sfruttamento capitale/lavoro. Non basta dichiarare la lotta per la casa come lotta di classe. C’è bisogno di ricomporre la classe e porre le condizioni per agire nelle contraddizioni del capitale. E le occasioni che ci si presentano non devono andare perse. Molti occupanti sono immigrati senza permesso di soggiorno, per esempio. Immigrati che vivono i ricatti dello sfruttamento anche fuori dall’occupazione, nei luoghi di lavoro. E nei luoghi di lavoro sono iniziati processi sindacali di denuncia e riappropriazione. Un esempio su tutti: le mobilitazioni dei facchini della logistica.
Solo in quest’ottica di insieme i tre livelli nei quali si articola la lotta per la casa potranno assumere uno spessore diverso e rivoluzionario. Non basta praticare alternative, è necessario riappropriarsi di alcune rivendicazioni che colgano la contraddizione in seno alla gestione neo-liberista del problema della casa. È necessario definire (e usare) un linguaggio di classe per narrare la lotta per la casa. Mancano ancora corpo, gambe e fiato a ciò che viene denunciato nelle piazze. Il Piano Casa, la mancanza di un piano di edilizia pubblica, la presenza di immobili sfitti e abbandonati di proprietà pubbliche e di grandi enti finanziari non vanno solo denunciati. Vanno denunciati come attacchi alla classe. Dunque vanno combattuti da una collettività che si ricompone come classe. Per dare corpo a queste rivendicazioni è necessario che la classe si ricomponga, proprio all’interno dei suoi spazi.
Insomma, le contingenze storiche non mettono solo a dura
prova i movimenti con la repressione, ma forniscono anche occasioni di lotta
che permettono di ricomporre la classe nella sua base sociale. Occasioni per
fare del sociale il motore di un nuovo percorso politico. Si tratta di
riconoscerle e coglierle.
[1] Nomisma-Federcasa, 2016 Edilizia pubblica insufficiente: ne usufruiscono 700.000 famiglie, 1/3 di chi versa in situazioni di disagio. [online] http://www.nomisma.it/images/comunicatistampa/2016-01-29_nomisma_federcasa_rev.pdf
[2] Regione Lazio (2016), Attuazione del programma per l’emergenza abitativa per Roma Capitale, delibera 110.
[3] Consiglio dei ministri 2014 Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015. Decreto Legge 28 marzo 2014, n. 47.