Voi avete il dovere di chiamare pregiudizi i loro pregiudizi democratico-borghesi e parlamentari. Ma nello stesso tempo avete il dovere di considerare con sobrietà lo stato reale della coscienza e della maturità di tutta la classe (e non soltanto della sua avanguardia comunista), di tutte le masse lavoratrici (e non solo degli elementi di avanguardia).

(Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, 1922)

L’elemento più importante di queste elezioni europee è la sconfitta del M5S. Se è vero che da una sconfitta elettorale non discende automaticamente il crollo di una formazione politica, è anche vero che il crollo elettorale di una formazione piccolo-borghese mette a nudo la sua inconsistenza nella società. Di Maio è stato confermato leader sulla piattaforma Rousseau con poco più di 50mila voti ma ad oggi nessuno scenderebbe in strada per difendere il governo del cambiamento, esattamente come nessuno si è mobilitato per difendere la giunta Raggi.

Il M5S perde 5 milioni di voti in un anno. E’ una sconfitta frontale, che si scarica sul terreno elettorale perché priva di un terreno mobilitativo reale. Di Maio non è stato in grado di smarcarsi dalla Lega per l’inconsistenza delle sue posizioni politiche. Schiacciato dalla propaganda della Lega in tema di sicurezza, il M5S ha cercato di virare verso un antifascismo di facciata. Ma d’altronde non è possibile costruire un movimento dichiarandosi nè di destra nè di sinistra e poi pretendere di inventarsi antifascisti dall’oggi al domani. In ogni caso, questo è solo uno dei temi di logoramento a cui la Lega ha sottoposto il M5S fin dal primo giorno di governo. Lo scontro verticale dopo la tragedia del ponte Morandi, quello sul decreto Sicurezza, sulla nave Acquarius, il caso Siri, solo per citarne alcuni, descrivono precisamente un punto: nessuno di questi due partiti ha una base effettiva in grado di mobilitarsi per difendere le proprie posizioni, ma la direzione della Lega, anche facendo sponda con l’estrema destra, aveva una chiara strategia di lenta demolizione dei pentastellati.

L’empasse in cui è caduto il M5S ha ributtato nel mare dell’astensione una quota cospicua del proprio elettorato. Di fatto, accade a Di Maio sul terreno nazionale quanto è accaduto a Virginia Raggi nella sola Roma dall’inizio del suo mandato: una forza politica piccolo-borghese che raccoglie dall’indignazione passiva non ha le basi ideologiche per costruire nella società. La Raggi vinse il ballottaggio col 70% dei consensi, ma praticamente ci furono più sostenitori in piazza a difendere Ignazio Marino di quanti oggi difendano la giunta 5Stelle.

Il M5S pesca dall’elettorato di sinistra ma non è una forza concorrente nel movimento operaio. Da diversi anni esercita però una funzione di tappo politico sul movimento. Con questa sconfitta non intendiamo dire che questo tappo sia saltato. Intendiamo semplicemente indicare che la delusione verso il M5S che oggi si è espressa nell’astensionismo domani potrebbe far saltare il tappo della radicalizzazione su un settore che cercava nel M5S un modo di radicalizzarsi lontano dai tradimenti della sinistra tradizionale.

Con 9 milioni di voti la Lega si candida ad essere il nuovo asse del centrodestra senza avere le carte imprenditoriali per costituire un punto di riferimento per settori della borghesia italiana. Apparentemente questo numero sembra elevato, ma con una astensione del 44% il risultato è ben inferiore a quanto raccontato dalla stampa borghese. Salvini sta scivolando nello stesso errore commesso da Renzi nel 2014, quando si convinse di avere la maggioranza degli italiani con 11 milioni di voti.

Ad oggi, il programma politico della Lega non è il fascismo, ma un programma piccolo-borghese di destra che si riassume nell’abbassare le tasse e dare una pistola in mano ai piccoli padroncini mentre si mette tanto razzismo nel piatto dei lavoratori italiani. Certamente Salvini si appoggia sull’estrema destra, che accontenta sdoganando la RSI, la condanna della Resistenza e i grembiuli nelle scuole. Queste cortesie sono dettate da una esigenza specifica: la Lega non apre più sezioni, non ha più nè una propria radio nè un proprio giornale ma ha una sovraesposizione mediatica inedita. Non è un partito attrezzato allo scontro sociale. Sembra onnipotente semplicemente perché chi, come il segretario CGIL Landini, potrebbe mobilitare i lavoratori di tutta Italia ha paura o non vuole farlo.

Si tratta di un programma reazionario che pagheranno i lavoratori. Ogni mattino i giornali manifestano un paradosso: la stampa borghese che ha sempre difeso le misure di privatizzazione e peggioramento del tenore di vita dei lavoratori, oggi deve attaccare Salvini per l’iniquità della flat tax (una soglia del 15% sotto i 50mila euro di reddito annuale, che darà giovamento fiscale solo a chi sta appena sotto la soglia). Di fatto, la discussione attorno alla prossima manovra finanziaria invoca la folle cifra dei 50 miliardi di euro, che la contabilità dello stato capitalista italiano formalmente non può reggere. E’ precisamente questo che genera tensioni: se il governo cade prima della manovra finanziaria, il M5S verrà stritolato, ma se il governo si assume l’onere di questa manovra, tutti dovranno pagarne un prezzo.

D’altronde entro mercoledì 12 giugno l’Unione Europea dovrà chiudere il fascicolo sull’Italia, il cui debito pubblico oltre il 135% del PIL è troppo alto per i parametri europei. Lo sforamento dei parametri sul debito, dovuto al finanziamento di Quota 100 e reddito di cittadinanza, porterà l’Italia dritta alla procedura di infrazione. Le scelte economiche e monetarie del governo verranno parzialmente commissariate per almeno 5 anni da Bruxelles, che dovrà vigilare che non si sfori ulteriormente la spesa pubblica e che, allo stesso tempo, vengano implementate le misure di austerità per ridurre il debito.

Bruxelles si aspettava almeno 7 miliardi di euro di compensazione per lo sforamento del debito. Li richiederà con gli interessi in termini di aumento ulteriore dell’IVA, riduzione della spesa pubblica. Sarà una splendida ricetta di tagli, tagli e ancora tagli che nessun razzismo renderà meno amaro.

Certo, la Lega utilizzerà lo scontro con Bruxelles come moneta sovranista per continuare la campagna elettorale ma è un fatto che il capitalismo abbia la testa dura. Bruxelles piegò Tsipras perché non ebbe il coraggio di far leva sulla mobilitazione che lui stesso aveva contribuito ad innescare. Salvini è privo di tale base mobilitativa ma, soprattutto, il suo programma è quello dell’accumulazione di capitale per i pochi, non certo quello della socializzazione dei capitali e dello scontro frontale col capitale europeo.

La stampa borghese ha dato ampio risalto al recupero del PD, che sarebbe dovuto all’effetto Zingaretti. Eppure il PD ha preso 115mila voti meno delle scorse politiche e ha perso 5 milioni di voti rispetto alle elezioni europee del 2014. Per potersi candidare ad essere alternativo al M5S, Zingaretti può solo fare leva sulla posizione più arretrata che il movimento operaio conosca: quella dell’unità tra forze borghesi e della sinistra contro la destra. In altri termini, molto più semplici, la sua elezione in segreteria rappresenta la speranza di un nuovo centrosinistra. Ma cosa vi sia da governare col capitalismo italiano letteralmente in declino, è tutto da dimostrare. Un aspetto è evidente: seppur screditato, il PD rappresenta un maglio contro le fragili concezioni della sinistra moderata, che sono geneticamente attratte dal fronte unico con le forze borghesi e cercano disperatamente vie d’uscite alla cronica crisi di visibilità. Le dimissioni di Fratoianni dalla segreteria di Sinistra Italiana, condotte nel nome di una apertura anche a Calenda e al PD, sono solo il marchio di una resa ideologica che la lista La Sinistra aveva mostrato fin dalla sua costituzione.

La Sinistra prende solo 230mila voti in più del Partito Comunista di Marco Rizzo. E’ piuttosto inedito che una formazione di sinistra moderata con una indebolita eredità militante crolli a livello di una microorganizzazione stalinista che è riuscita a candidarsi solo grazie ai propri appoggi europei. Se queste elezioni fotografano qualcosa a sinistra, è il fatto che sinistra tradizionale e quella “comunista” siano oggettivamente residuali. In questo avverbio, “oggettivamente”, indichiamo un fatto preciso: senza una mobilitazione con una durata e una ampiezza superiori a quelli di una vertenza locale, qualsiasi tentativo di trovare una scorciatoia per eleggere sarà vana. Insieme, le due liste raccolgono poco più di 700mila voti.

L’aspetto più importante è che a questi 700mila voti non corrisponde nemmeno potenzialmente un numero adeguato di attivisti. E il punto principale di queste liste e delle formazioni che ne derivano è la loro incapacità di discutere il modello di società per le quali vorrebbero lottare, la strada da battere per abbattere il capitalismo. Ad oggi, il movimento di opposizione sociale in Italia è tremendamente frammentato, ma questa frammentazione prelude alla necessità di una ricomposizione che sarà tanto dolorosa quanto inevitabile. Ci possono essere organizzazioni e collettivi più o meno grandi, con una cura delle posizioni ideologiche più o meno approfondite, un lavoro più o meno aperto, ma tutte verranno esposte al banco di prova degli eventi. Ad oggi si tratta di capire dove lavorare, come lavorare, come costruire pazientemente tra le generazioni più giovani di lavoratori e tra gli studenti.

Sbaglieremmo se pensassimo che la vittoria della Lega marchi la stupidità dei lavoratori italiani e definisca una sorta di “notte della democrazia”. Se anche fosse, si tratterebbe di una notte sostanzialmente breve, che solo una idea snobistica dello sviluppo della coscienza dei lavoratori italiani vedrebbe eterna. Questa campagna elettorale si è svolta in un contesto solo apparentemente immobile. Un’intera generazione di giovani, tanto combattiva quanto vulnerabile ed acerba politicamente, è scesa in piazza e cerca di organizzarsi per difendere il pianeta. Ogni formazione o collettivo di sinistra dovrebbe prestare la più grande attenzione a queste mobilitazioni, perché hanno una carica antisistema che ricorda il movimento Occupy. Ogni comizio di Salvini è stato seguito da una resistenza più o meno simbolica, dai balconi ai fischi ai comizi, fino a selfie-trappola. Non è ancora una battaglia di classe ma solo un cieco non vedrebbe l’esistenza di un settore non organizzato in modo tradizionale che non si arrende alla svolta reazionaria in corso.

I portuali genovesi hanno dato sostanzialmente una dimostrazione cristallina di cosa sia la lotta di classe, costringendo una nave araba ad uscire dal porto senza il rifornimento d’armi che avrebbe dovuto fare. La battaglia campale che si sta giocando davanti ai cancelli di Italpizza fotografa il futuro effettivo del nostro paese: l’alternarsi di vertenze locali estremamente dure e di mobilitazioni ampie, condotte principalmente da giovani, che non ha una ricaduta effettiva sul contesto elettorale ma che poggia su una ricaduta antisistema. Ogni accumulo quantitativo porta, prima o poi, a una ricaduta qualitativa.

Questo processo sarà tanto più lento quanto più frenata sarà la discesa in campo della CGIL, unica organizzazione di massa del movimento operaio rimasta in Italia che, se venisse trasformata in una organizzazione di combattimento della classe in grado di sviluppare un fronte unico di lotta coi settori più combattivi del sindacalismo di base, potrebbe tramutare la nostra inferiorità in superiorità. Questa combinazione farebbe cadere in un colpo le difficoltà di organizzazione comune tra lavoratori italiani ed immigrati, dando al movimento una composizione ancora più esplosiva di quello del 1969.

Agli impazienti, ai delusi, non possiamo fare altro che ricordare quanto Sun Tsu aveva da dire ne L’arte della guerra rispetto alle tappe di preparazione di ogni battaglia: “Chi è in inferiorità numerica prepari gli uomini; chi è in superiorità numerica costringa il nemico a prepararsi contro di lui.”