L’obiezione ora può essere che laddove una macchina rimpiazza della forza lavoro, quella stessa forza lavoro sarà impiegata da altre parti. Ma è realmente così? A questo proposito Marx scrive:

Tutta una serie di economisti borghesi, come James Mill, il MacCulloch, il Torrens, il Senior, J. St. Mill, ecc., afferma che tutte le macchine che soppiantano degli operai liberano sempre, contemporaneamente e necessariamente, un capitale adeguato a occupare gli stessi identici operai.

Si supponga che un capitalista impieghi cento operai, per esempio in una manifattura di carte per parati, a trenta lire sterline all’anno per uomo. Dunque il capitale variabile che egli sborsa annualmente ammonta a tremila lire sterline. Si supponga ora che licenzi cinquanta operai e faccia lavorare i cinquanta che restano con un macchinario che gli costi millecinquecento sterline. Per semplificare si fa astrazione da edifici, carbone, ecc. Si supponga ancora che la materia prima consumata ogni anno costi, come prima, tremila lire sterline. Viene «liberato» un qualsiasi capitale mediante questa metamorfosi? Nel vecchio modo di conduzione la somma totale sborsata di seimila lire sterline consisteva per metà di capitale costante, per metà di capitale variabile. Ora consiste di quattromila e cinquecento lire sterline (tremila per la materia prima e millecinquecento per il macchinario) di capitale costante, e di millecinquecento di capitale variabile. La parte del capitale che è variabile, ossia convertita in forza-lavoro vivente, Costituisce ormai, invece della metà, soltanto un quarto del capitale totale. Qui invece di una liberazione di capitale si ha un vincolo di capitale, e in forma tale che il capitale cessa di scambiarsi con forza-lavoro; cioè si ha trasformazione di capitale variabile in capitale costante. Invariate rimanendo le altre circostanze, ormai il capitale di seimila sterline non può più occupare più di cinquanta operai. E ad ogni perfezionamento delle macchine ne occupa di meno. Se il nuovo macchinario introdotto costasse meno della somma della forza-lavoro e degli strumenti di lavoro da esso soppiantati, e dunque per esempio costasse invece di millecinquecento soltanto mille lire sterline, allora un capitale variabile di mille sterline verrebbe trasformato in capitale costante, cioè verrebbe vincolato, mentre sarebbe stato liberato un capitale di cinquecento lire sterline. Quest’ultimo, supponendo che il salario annuo rimanga lo stesso, costituisce un fondo di occupazione per circa sedici operai, mentre cinquanta sono licenziati; anzi, per molto meno di sedici operai, poichè le cinquecento sterline debbono a loro volta esser trasformate in parte in capitale costante affinché possa avvenire la loro trasformazione in capitale; e quindi possono solo in parte esser convertite in forza-lavoro.

Attraverso questo semplice esempio Marx spiega perché invece l’introduzione delle macchine distrugge semplicemente la forza-lavoro che viene soppiantata. E infatti uno studio di due economisti americani, Daren Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology e Pascual Restrepo della Boston University, dice esattamente quella che scriveva Marx qualche secolo fa. Quando i due economisti si sono immersi in uno studio dal vivo, raccogliendo dati sull’economia reale, le conclusioni si sono ribaltate in modo drammatico. Nel settore manifatturiero l’occupazione distrutta dall’automazione supera di gran lunga quella che viene creata. L’industria americana ha introdotto in media un nuovo robot industriale ogni mille operai, tra il 1993 e il 2007. In Europa l’automazione è ancora più spinta: 1,6 robot ogni mille operai. Ogni robot nuovo che viene installato per ogni mille operai, distrugge 6,2 posti di lavoro e fa calare dello 0,7 per cento il salario. Tra il 1990 e il 2007 l’automazione ha distrutto 670.000 posti. E stiamo parlando solo di fabbriche manifatturiere negli Usa.

Non ci troviamo quindi di fronte a un’opinione di Marx. I dati reali confermano la teoria. L’introduzione di tecnologia nella produzione, in questa sistema economico, produce abbassamento del salario, disoccupazione, aumenti dei ritmi di lavoro. In parole povere produce un aumento del plusvalore estratto dal singolo lavoratore.

Marx però dice di più: nel momento in cui un macchinario rimpiazza forza-lavoro umana e crea disoccupazione, va anche a impoverire il cosiddetto mercato “interno” con conseguente abbassamento dei prezzi. Questo fa sì che il capitale si riproduca in altri modi. Negli ultimi anni abbiamo visto questo fenomeno, anche se non causato esclusivamente dalla tecnologia. Il capitale si è riprodotto sempre di più per forma finanziaria. La dinamica del fenomeno è esattamente questa:

I mezzi di sussistenza per l’ammontare di millecinquecento sterline non si sono mai contrapposti agli operai licenziati come capitale. Quel che si contrapponeva agli operai come capitale, erano le millecinquecento lire sterline ora trasformate in macchinario. Considerate più da vicino, queste millecinquecento lire sterline rappresentavano solo una parte delle carte da parati prodotte ogni anno ad opera dei cinquanta operai licenziati, parte che essi ricevevano per salario in denaro invece che in natura da chi li impiegava. Con le carte da parati trasformate in millecinquecento sterline essi comperavano mezzi di sussistenza per lo stesso ammontare. I mezzi di sussistenza dunque esistevano per gli operai non come capitale, ma come merci, ed essi stessi per quelle merci esistevano non come operai salariati, ma come compratori. La circostanza che le macchine li hanno «liberati» di mezzi d’acquisto, li trasforma da compratori in non-compratori. Quindi, diminuita domanda di quelle merci. Voilà tout. Se questa domanda diminuita non viene compensata da una domanda aumentata da un’altra parte, il prezzo di mercato delle merci cala. Se ciò dura piuttosto a lungo e in una sfera piuttosto ampia, si ha uno spostamento degli operai occupati nella produzione di quelle merci. Una parte del capitale che prima produceva mezzi di sostentamento necessari, viene riprodotta in altra forma. Durante la caduta dei prezzi di mercato e lo spostamento di capitale, anche gli operai occupati nella produzione dei mezzi di sussistenza necessari vengono «liberati» di una parte del loro salario. Dunque, invece di dimostrare che le macchine, liberando gli operai dei mezzi di sussistenza, trasformano contemporaneamente questi ultimi in capitale per potere impiegare i primi, il signor apologeta dimostra viceversa, con la sperimentata legge della domanda e dell’offerta, che le macchine gettano operai sul lastrico non soltanto nella branca di produzione dove vengono introdotte, ma anche nelle branche di produzione dove non vengono introdotte.

Nel terzo libro del Capitale Marx approfondirà questo concetto che descriverà  come caduta tendenziale del saggio di profitto. Invitiamo a leggere questo passaggio in cui viene spiegato il fenomeno:

A salario e a giornata lavorativa determinati, un capitale variabile, per esempio di 100, rappresenta un determinato numero di operai messi in movimento; esso è l’indice di questo numero.

Supponiamo che 100 sterline rappresentino per esempio il salario di una settimana per 100 operai.

Se essi eseguono un lavoro necessario uguale al pluslavoro, ovvero se essi svolgono ogni giorno per se stessi, cioè per riprodurre il proprio salario, un lavoro la cui durata sia identica a quella del lavoro eseguito per il capitalista, ossia per la produzione del plusvalore, il valore totale del loro prodotto sarà di 200 Lst. e il plusvalore generato da essi sarà di 100Lst.

Il saggio del plusvalore (pv’) sarebbe

pv’ = pv : v = 100%

Questo saggio del plusvalore si esprimerebbe tuttavia, come si è visto, in saggi del profitto assai diversi a seconda della differente grandezza del capitale costante  (c) e quindi del capitale complessivo C, dato che il saggio di profitto (p’) è

p’ = pv : C = pv : (c + v)

Se il saggio del plusvalore è del 100%, si avrà:

Tab. 1

c v C pv pv% Valore prodotto p’
I 50 100 150 100 100 250 66,66
II 100 100 200 100 100 300 50
III 200 100 300 100 100 400 33,33
VI 300 100 400 100 100 500 25
V 400 100 500 100 100 600 20

A grado di sfruttamento del lavoro invariato, questo saggio del plusvalore si esprimerebbe in un saggio decrescente del profitto, dato che insieme alla sua entità materiale aumenta anche, seppure non nella medesima proporzione, la grandezza di valore del capitale costante e quindi del capitale complessivo.

Se si suppone inoltre che questo progressivo mutamento della composizione del capitale non si verifichi solo in alcune sfere isolate di produzione ma, in misura maggiore o minore, in tutte o almeno in quelle di maggiore importanza; se tale cambiamento modifica quindi la composizione media organica del capitale complessivo appartenente ad una determinata società, questo progressivo aumento del capitale costante in rapporto a quello variabile deve portare per forza di cose a una progressiva diminuzione del saggio generale del profitto, restando immutato il saggio del plusvalore o il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Tuttavia abbiamo dimostrato che, grazie ad una legge della produzione capitalistica, lo sviluppo di quest’ultima si accompagna a una relativa riduzione del capitale variabile nei confronti di quello costante, e quindi anche al capitale complessivo  messo in movimento.

Ciò significa soltanto che lo stesso numero di operai e la medesima quantità di forza- lavoro, divenuti disponibili tramite il capitale variabile di una certa grandezza, in seguito ai particolari metodi di produzione sviluppatisi nella produzione capitalistica, pongono in attività, utilizzano, consumano in maniera produttiva durante lo stesso periodo di tempo una massa sempre più grande di mezzi di lavoro, di macchine e di capitale fisso di ogni genere, di materie prime ausiliarie, e quindi un capitale costante di valore sempre maggiore.

Questa progressiva diminuzione del capitale variabile in rapporto a quello costante, e quindi di quello complessivo, è uguale al progressivo aumento della composizione organica del capitale complessivo considerato nella sua media.

Ugualmente essa è solo una nuova espressione del sempre più intenso sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo del crescente impiego di macchine e di capitale fisso in generale, nello stesso tempo vengono trasformate in prodotti, da un identico numero di operai, cioè con un lavoro minore, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie. A questo crescente incremento di valore del capitale costante — malgrado esso non rappresenti che in minima parte l’incremento della massa effettiva dei valori d’uso che formano materialmente il capitale costante — corrisponde una crescente diminuzione di prezzo del prodotto.

Ogni prodotto, preso per se stesso, contiene una somma minore di lavoro di quanto si registra nei gradi meno sviluppati della produzione, in cui la grandezza relativa del capitale investito nel lavoro nei confronti di quello investito in mezzi di produzione è molto maggiore. Ed è per questo che la tabella riportata all’inizio di questo capitolo come esempio, rappresenta l’effettiva tendenza della produzione capitalistica.

Insieme alla sempre più accentuata diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante, tale tendenza dà luogo ad una più alta composizione organica del capitale complessivo,  ciò comporta il fatto che il saggio del plusvalore, qualora il grado di sfruttamento del lavoro resti costante oppure aumenti, trova espressione in un saggio generale del profitto che decresce continuamente (più oltre faremo vedere le ragioni per cui tale diminuzione non appare in questa forma assoluta, ma piuttosto in una tendenza alla diminuzione progressiva).

La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto non è quindi che un’espressione peculiare del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altri motivi, ma significa che, in conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in un calo del saggio generale del profitto. Dato che la massa di vivo lavoro utilizzato diminuisce di continuo rispetto alla massa di lavoro oggettivato che essa ha posto in movimento (cioè rispetto ai mezzi di produzione consumati produttivamente), anche la parte di questo vivo lavoro che non è pagato e che si oggettiva in plusvalore dovrà essere in proporzione sempre decrescente nei confronti del valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto fra la massa del plusvalore ed il capitale complessivo impiegato costituisce però il saggio del profitto, che dovrà di conseguenza diminuire costantemente.