La maggiore acquisizione della lotta di classe proletaria nel corso del suo sviluppo fu la scoperta che il punto di partenza per la realizzazione del socialismo è da ricercarsi nei rapporti economici della società capitalistica. Con ciò il socialismo, che era stato vagheggiato per millenni dall’umanità come un “ideale” è diventato una necessità storica. Bernstein contesta l’esistenza di queste premesse economiche del socialismo nella società attuale. Su questo argomento egli stesso, nel corso della sua dimostrazione, compie un’interessante evoluzione. All’inizio, nella Neue Zeit egli contestò solamente la rapidità della concentrazione nell’industria, basando le sue argomentazioni su un confronto tra i dati delle statistiche professionali in Germania del 1895 e del 1882. A questo scopo, per utilizzare tali dati per i suoi fini, dovette ricorrere a procedimenti del tutto sommari e meccanici. Ma anche nel caso più favorevole, Bernstein non avrebbe potuto intaccare minimamente, col suo accenno alla persistenza delle medie aziende, l’analisi di Marx. Perché questa non presuppone un determinato ritmo della concentrazione dell’industria, cioè un determinato termine fissato per la realizzazione dello scopo finale socialistico, e neppure, come abbiamo dimostrato, una scomparsa assoluta dei piccoli capitali, vale a dire la scomparsa della piccola borghesia, come condizione della realizzabilità del socialismo. Ora nell’ulteriore sviluppo delle sue vedute Bernstein dà nel suo libro nuovo materiale dimostrativo e precisamente la statistica delle società per azioni, la quale dovrebbe dimostrare che il numero degli azionisti aumenta sempre, e quindi la classe dei capitalisti non si restringe, ma al contrario diventa sempre maggiore. E’ sorprendente quanto poco Bernstein conosca il materiale che tratta e quanto poco sappia adoperarlo in suo favore! Se per mezzo delle società per azioni voleva dimostrare qualche cosa contro la legge marxista dello sviluppo industriale, avrebbe dovuto portare tutt’altre cifre. Infatti chiunque conosca la storia delle società per azioni in Germania, sa che il loro capitale medio di fondazione per singola impresa è in fase di diminuzione quasi regolare. Così prima del 1871 questo capitale ammontava a circa 10,8 milioni di marchi, nel 1871 soltanto a 4,01 milioni di marchi, nel 1873 a 3,8 milioni di marchi, dal 1883 al 1887 a meno di un milione di marchi, nel 1891 a solo 0,56 milioni di marchi, nel 1892 a 0,62 milioni di marchi. Da allora gli importi oscillano intorno a un milione di marchi o addirittura da 1,78 milioni di marchi raggiunti nell’anno 1895, caddero di nuovo a 1,19 milioni di marchi nel primo semestre del 1897[1].
Cifre sorprendenti! Probabilmente Bernstein costruirebbe, con ciò tutta una tendenza antimarxista del regresso dalle grandi alle piccole aziende. Ma in questo caso ognuno potrebbe ribattergli: se volete dimostrare qualche cosa con questa statistica, dovete anzitutto dimostrare che essa riguarda le stesse branche dell’industria, che le aziende minori sorgono ora al posto delle antiche grandi aziende e non là dove finora esisteva il capitale individuale o l’artigianato o un’azienda minima. Ma voi non riuscirete a dare questa dimostrazione perché il passaggio dalla fondazione di società per azioni gigantesche alle medie e piccole è spiegabile proprio soltanto col fatto che l’azionariato penetra sempre in nuove branche e se da principio valeva soltanto per poche imprese colossali, si è adattato ora sempre di più alle medie imprese e qua e là anche alle piccole. (Saltano fuori persino società per azioni con un capitale di 1000 marchi!). Ma che cosa significa dal punto di vista dell’economia la sempre maggiore estensione dell’azionariato? Significa la progressiva socializzazione della produzione in forma capitalistica, la socializzazione non soltanto della grande, ma anche della media e persino della piccola produzione, qualche cosa, quindi, che non contraddice la teoria marxista, ma la conferma nel modo più brillante che si possa immaginare. Infatti! In che cosa consiste il fenomeno economico della fondazione di società per azioni? Da un lato nella riunione di molte piccole disponibilità di denaro in un capitale produttivo, dall’altro nella separazione della produzione dalla proprietà del capitale, dunque, in un duplice superamento del modo di produzione capitalistico – sempre su base capitalistica. Che cosa significa in rapporto a questo la statistica addotta da Bernstein del grande numero degli azionisti che prendono parte a un’impresa? Appunto nient’altro, se non che ora una impresa capitalistica non corrisponde a un capitalista come prima, ma a tutto un complesso, a un numero sempre crescente di proprietari di capitale, che cioè il concetto economico del “capitalista” non coincide più con quello di un singolo individuo, che l’odierno capitalista industriale è una persona collettiva, composta da centinaia, e magari da migliaia di persone, che la stessa categoria dei “capitalisti” nella cornice della economia capitalistica è diventata una categoria sociale, si è socializzata. Ma come si spiega, a questo riguardo, che Bernstein consideri il fenomeno delle società per azioni proprio al contrario come un frazionamento e non come una concentrazione del capitale, che egli veda una diffusione della proprietà capitalistica là dove Marx vede un “superamento della proprietà capitalistica”? Per uno strafalcione molto semplice dell’economia volgare: perché Bernstein intende per capitalista non una categoria della produzione, ma del diritto di proprietà, non un’unità economica ma politico-fiscale, e per capitale non un complesso produttivo ma semplicemente una disponibilità di denaro. Perciò nel suo trust dei filati cucirini inglesi non vede la fusione di 12.300 persone in un capitalista, ma 12.300 capitalisti completi perciò per lui anche l’ingegnere Schulze, che ricevette dal redditiero Müller come dote per sua moglie “un notevole numero di azioni” (p. 54) è un capitalista, perciò per lui tutto il mondo formicola di capitalisti[2]. Ma qui come altrove lo strafalcione dell’economia volgare in Bernstein non è che il terreno teorico per una volgarizzazione del socialismo. Mentre Bernstein trasferisce il concetto del capitalista dai rapporti di produzione ai rapporti di proprietà, e “parla di uomini anziché di imprenditori” (p. 53), trasferisce anche la questione del socialismo dal campo dei rapporti di produzione al campo dei rapporti di ricchezza, del rapporto tra capitale e lavoro al rapporto tra ricco e povero. Così da Marx ed Engels, siamo riportati indietro all’autore del Vangelo del povero peccatore[3], con la sola differenza che Weitling con giusto istinto proletario riconobbe proprio in questo antagonismo tra povero e ricco l’antagonismo di classe in forma primitiva e volle farne la molla propulsiva del movimento socialista, mentre Bernstein al contrario vede nel cambiamento del povero in ricco, cioè nell’affievolimento dell’antagonismo delle classi, quindi nel processo piccolo-borghese, le speranze del socialismo. Naturalmente Bernstein non si limita alla statistica del reddito. Ci dà anche una statistica delle aziende desunta da diversi paesi: dalla Germania e dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Svizzera, dall’Austria e dagli Stati Uniti. Ma che razza di statistiche sono queste? Non sono dati paragonabili di diversi momenti in ciascun paese, ma di un momento in diversi paesi. Egli paragona quindi – esclusa la Germania, per la quale ripete il suo vecchio paragone del 1895 e del 1882 – non la quantità di aziende di un paese in diversi periodi, ma soltanto le cifre assolute di diversi paesi (per l’Inghilterra dell’anno 1891, per la Francia del 1894, per gli Stati Uniti del 1890 e così via). La conclusione cui arriva è “che se le grandi aziende hanno realmente già oggi il sopravvento nell’industria, esse, comprese le aziende che ne dipendono, persino in un paese così progredito come la Prussia, rappresentano al massimo la metà della popolazione attiva nella produzione”, e lo stesso in tutta la Germania, l’Inghilterra, il Belgio e così via (p. 84). Ciò che egli dimostra in questa maniera evidentemente non è questa o quella tendenza dello sviluppo economico, ma semplicemente il rapporto assoluto di forze delle diverse forme aziendali e rispettivamente delle diverse classi professionali. Se si deve dimostrare con ciò l’irrealizzabilità dei socialismo, questa dimostrazione si basa su una teoria, secondo la quale la riuscita di aspirazioni sociali è determinata dal rapporto di forze numerico, fisico , dei contendenti, cioè dal solo momento della forza bruta. E qui Bernstein, che fiuta dappertutto blanquismo, ricade per distrazione proprio nel più grossolano malinteso blanquista. Con la differenza tuttavia che i blanquisti, come tendenza socialista e rivoluzionaria, presupponevano come evidente la realizzabilità economica del socialismo e su di essa basavano le speranze della rivoluzione violenta di una minoranza anche piccola, mentre Bernstein al contrario dalla mancanza della maggioranza numerica della popolazione deduce l’irrealizzabilità economica del socialismo. La socialdemocrazia non deriva il suo scopo finale né dalla forza vittoriosa della minoranza, né dal sopravvento numerico della maggioranza, ma dalla necessità economica (e dalla consapevolezza di questa necessità), la quale conduce all’eliminazione del capitalismo per opera della massa popolare e che si manifesta anzitutto nell’anarchia capitalistica. Per ciò che riguarda quest’ultima questione decisiva, dell’anarchia nell’economia capitalistica, Bernstein stesso rifiuta soltanto le grandi crisi generali, ma non crisi parziali e nazionali. Con ciò esclude soltanto molta anarchia e contemporaneamente ammette l’esistenza di un po’ di anarchia. Succede all’economia capitalistica secondo Bernstein – per parlare una volta ancora con Marx – come a quella ragazza folle che aveva un bambino, ma “era piccolissimo”. Lo spiacevole in questa faccenda è infatti che in cose come l’anarchia poco e molto sono ugualmente cattivi. Se Bernstein ammette un po’ di anarchia, il meccanismo stesso dell’economia mercantile si incarica di far aumentare enormemente questa anarchia – fino al crollo. Ma se Bernstein spera – mantenendo contemporaneamente la produzione delle merci – di dissolvere progressivamente quel pochino di anarchia nell’ordine e nell’armonia, cade nuovamente in uno degli errori più fondamentali dell’economia volgare borghese, considerando il modo di scambio come indipendente dal modo di produzione. Non è qui il caso di mostrare nel suo complesso la straordinaria confusione sui princìpi più elementari dell’economia politica, che Bernstein ha manifestato nel suo libro. Ma un punto almeno dev’essere lumeggiato, al quale ci conduce la questione fondamentale dell’anarchia capitalistica. Bernstein dichiara che la legge del valore-lavoro di Marx è una pura astrazione, ciò che secondo lui nell’economia politica è evidentemente un’ingiuria. Ma se il valore-lavoro è puramente un’astrazione “una creazione della fantasia” (p. 44), ogni onesto borghese, che abbia fatto il servizio militare e pagato le sue tasse, ha lo stesso diritto di Karl Marx di fare di qualunque assurdità una simile “creazione della fantasia”, cioè la legge del valore.”Tanto è permesso a Marx di prescindere a tal punto dalle proprietà delle merci, che alla fine esse rimangono soltanto come incarnazione di quantità di semplice lavoro umano, quanto è permesso alla scuola di Böhm-Jevons astrarre da tutte le proprietà delle merci, all’infuori della loro utilità” (p. 42). Dunque il lavoro sociale di Marx e l’utilità astratta di Menger per lui sono zuppa e pan bagnato: tutto mera astrazione. Bernstein con ciò ha completamente dimenticato che l’astrazione marxista non è un’invenzione ma una scoperta, che essa esiste non nel cervello di Marx, ma nell’economia mercantile e porta in sé una non immaginaria ma reale esistenza sociale, così reale che può essere tagliata e martellata, pesata e coniata. Il lavoro umano astratto scoperto da Marx infatti nella sua forma spiegata non è altro che il denaro. E questa è veramente una delle più geniali scoperte economiche di Marx, mentre per tutta l’economia borghese, dal primo mercantilista fino all’ultimo classico, l’essenza mistica del denaro è rimasta un libro con sette sigilli. L’utilità astratta di Böhm-Jevons è invece realmente una pura creazione della fantasia o meglio un prodotto del vuoto mentale, una assurdità individuale, della quale non può esser responsabile né la società capitalistica né un’altra società umana, ma puramente e semplicemente l’economia volgare borghese. Con questa “creazione della fantasia” in capo, Bernstein e Böhm-Jevons con tutta la loro confraternita soggettiva possono starsene fermi vent’anni davanti al mistero del denaro, senza arrivare ad altra soluzione se non a quella che sapeva senza di loro ogni calzolaio: che il denaro è anche una cosa “utile”. Con ciò Bernstein ha perduto completamente la comprensione della legge del valore di Marx. Ma per chi ha una qualche confidenza con il sistema economico marxista sarà chiaro senz’altro che senza la legge del valore l’intiero sistema rimane del tutto incomprensibile oppure, per parlare più concretamente, se non si comprende l’essenza della merce e del suo scambio, tutta l’economia capitalistica con le sue concatenazioni deve rimanere un mistero. Ma che cos’è la chiave magica di Marx, che gli ha permesso di aprire proprio i più intimi segreti di tutti i fenomeni capitalistici, che gli ha permesso di sciogliere con la facilità di un gioco problemi dei quali i maggiori spiriti dell’economia borghese classica, come Smith e Ricardo, non avevano nemmeno sospettato l’esistenza? Nient’altro che la concezione di tutta l’economia capitalistica come di un fenomeno storico, e non soltanto dietro di sé, come li comprendeva, nel migliore dei casi, l’economia classica, ma anche davanti a sé, non soltanto con uno sguardo retrospettivo al passato economico feudale, ma particolarmente con uno sguardo nel futuro socialista. Il segreto della dottrina marxista del valore, della sua analisi del denaro, della sua teoria del capitale, della sua dottrina del saggio di profitto e con ciò di tutto il sistema economico, è la transitorietà dell’economia capitalistica, il suo crollo, e quindi – questo è solo l’altra faccia – lo scopo finale del socialismo. Proprio e soltanto perché Marx considerava anzitutto da socialista, cioè sotto il punto di vista storico, l’economia capitalistica, poté decifrare i suoi geroglifici; perché egli faceva del punto di vista socialista il punto di partenza dell’analisi scientifica della società borghese, poté viceversa dare così solide basi teoriche al socialismo. Con tutto questo bisogna confrontare le osservazioni di Bernstein nella conclusione dei suo libro, dov’egli deplora il “dualismo” “esistente in tutta la monumentale opera di Marx”, “consistente nel fatto che tale opera vuol essere una ricerca scientifica e contemporaneamente vuol dimostrare una tesi già pronta fin da prima del suo concepimento, che essa si basa su uno schema nel quale il risultato, cui dovrebbe condurre lo sviluppo del lavoro, era già fissato a priori. Il ritorno al Manifesto comunista [cioè allo scopo finale socialista!] dimostra qui un residuo effettivo di utopismo nel sistema marxista” (p. 177). Ma il “dualismo” di Marx altro non è che il dualismo dell’avvenire socialistico e del presente capitalistico, del capitale e del lavoro, della borghesia e del proletariato, è il riflesso scientifico monumentale del dualismo esistente nella società borghese, degli antagonismi borghesi di classe.
E quando Bernstein vede in questo dualismo teorico di Marx “un residuo di utopismo” non fa che riconoscere ingenuamente di aver rinnegato il dualismo storico della società borghese e gli antagonismi capitalistici di classe, e che ormai il socialismo stesso è divenuto per lui un “residuo di utopismo”. Il “monismo”, cioè la coerenza di Bernstein è la coerenza dell’ordine borghese eternato, la coerenza del socialista che ha lasciato cadere il suo scopo finale per vedere nella società borghese una ed immutabile il termine finale dell’evoluzione umana. Ma se Bernstein nella struttura economica del capitalismo stesso non vede il dualismo e l’evoluzione verso il socialismo, deve ricorrere, per salvare almeno nella forma il programma socialista, a una costruzione idealistica che stia al di fuori dell’evoluzione economica e trasformare il socialismo stesso da una determinata fase storica dell’evoluzione sociale in un “principio” astratto. Il “principio del cooperativismo” di Bernstein, del quale dovrebbe adornarsi l’economia capitalistica, questa “decantazione” estremamente rarefatta dello scopo finale socialista, appare come nient’altro che una concessione fatta dalla sua teoria borghese, non al futuro socialista della società, ma al passato socialista di Bernstein.
[1] VAN DER BORGHT, Handwörterbuck der Staatswissenschaften, 1 (n.d.a.).
[2] Nota bene! Bernstein vede evidentemente nella grande diffusione dì piccole azioni una prova che la ricchezza sociale comincia a distribuire la sua benedizione azionaria alla piccola gente. Infatti, chi se non piccoli borghesi o addirittura operai potrebbe comprare p. es. azioni per la bagatella di 1 sterlina o 20 marchi! Purtroppo quest’idea si basa su un elementare errore di calcolo; si opera col valore nominale delle azioni, anziché col loro valore di mercato, che è ben diverso. Ecco un esempio: sul mercato minerario fra l’altro si commerciano le Randmines sudafricane; le azioni, come la maggior parte delle azioni minerarie sono di 1 sterlina = 20 marchi di carta. Ma il loro prezzo era già nei 1899 di 43 sterline (vedi il listino dei corsi di fine marzo), cioè non 20 ma 860 marchi! E lo stesso è in media dappertutto. Le “piccole” azioni dunque, nonostante la loro denominazione così democratica, sono “assegni sulla ricchezza sociale” destinati per lo più all’alta borghesia e niente affatto alla piccola borghesia e tanto meno al proletariato, perché vengono acquistate al valore nominale soltanto da una minima parte degli azionisti (n. d. a.).
[3] Rosa Luxemburg cita in questo modo lo scritto dei Weitling, il cui titolo esatto è invece Das Evangelium eines armen Sünders (Il vangelo di un povero peccatore).