Guida alla lettura
Questo articolo viene pubblicato senza firma sull’Ordine Nuovo l’11 ottobre 1919.
Qui Gramsci elabora quanto scritto nel giugno ’19 in “Democrazia operaia” e articola ulteriormente la parola d’ordine della gestione operaia delle fabbriche sull’esempio dei Soviet. Ora, i consigli di fabbrica vengono chiaramente individuati come quelle strutture che incarnano la democrazia operaia e forniscono il modello su cui il futuro Stato operaio dovrà essere costruito.
Il bersaglio polemico sono soprattutto i dirigenti sindacali della CGL, visti come burocrati incapaci di comprendere il proprio compito storico. L’articolo, tuttavia, non è di mera polemica, ma contiene alcuni elementi di analisi teorica fondamentali. In primo luogo, proprio in apertura, si mette in rilievo come le questioni che sorgono nel dibattito interno al sindacato sulla natura e l’organizzazione di quest’ultimo pongano già in sé il problema più ampio della democrazia operaia. In secondo luogo, e questo è il punto principale dell’articolo, viene tracciata la distinzione tra sindacato e consigli: si spiega perché questi ultimi, a differenza del primo, sono il modello della democrazia operaia e quale è l’autentico ruolo del sindacato in una società comunista.
L’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione dell’una sarà la soluzione dell’altra, poiché, risolvendo il problema della volontà di potenza nell’àmbito della loro organizzazione di classe, i lavoratori arriveranno a creare l’impalcatura organica del loro Stato e vittoriosamente lo contrapporranno allo Stato parlamentare.[1]
Gli operai sentono che il complesso della «loro» organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria.[2] Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti, cementandola col sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l’uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l’assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie. Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle; le parole e le volontà dei singoli uomini sono troppo piccola cosa in confronto delle leggi ferree inerenti alla struttura funzionale dell’apparato sindacale.
I leaders dell’organizzazione non si accorgono di questa crisi profonda e diffusa. Quanto più chiaramente appare che la classe operaia non è composta in forme aderenti alla sua reale struttura storica, quanto più risulta che la classe operaia non è inquadrata in una configurazione che incessantemente si adatti alle leggi che governano l’intimo processo di sviluppo storico reale della classe stessa; tanto più questi leaders si ostinano nella cecità e si sforzano di comporre «giuridicamente» i dissidi e i conflitti. Spiriti eminentemente burocratici, essi credono che una condizione obbiettiva, radicata nella psicologia quale si sviluppa nelle esperienze vive dell’officina, possa essere superata con un discorso che muova gli affetti, e con un ordine del giorno votato all’unanimità in un’assemblea abbrutita dal frastuono e dalle lungaggini oratorie. Oggi essi si sforzano di porsi all’«altezza dei tempi» e, tanto per dimostrare che sono anche capaci di «meditare aspramente», rivogano le vecchie e logore ideologie sindacaliste, insistendo penosamente nello stabilire rapporti di identità tra il Soviet e il sindacato, insistendo penosamente nell’affermare che il sistema attuale di organizzazione sindacale costituisce già l’impalcatura della società comunista, costituisce il sistema di forze in cui deve incarnarsi la dittatura proletaria.
Il sindacato, nella forma in cui esiste attualmente nei paesi dell’Europa occidentale, è un tipo di organizzazione non solo diverso essenzialmente dal Soviet, ma diverso anche, e in modo notevole, dal sindacato quale sempre più viene sviluppandosi nella Repubblica comunista russa.
I sindacati di mestiere, le Camere del lavoro, le federazioni industriali, la Confederazione generale del lavoro sono il tipo di organizzazione proletaria specifico del periodo di storia dominato dal capitale. In un certo senso si può sostenere che esso è parte integrante della società capitalistica, e ha una funzione che è inerente al regime di proprietà privata. In questo periodo, nel quale gli individui valgono in quanto sono proprietari di merce e commerciano la loro proprietà, anche gli operai hanno dovuto ubbidire alle leggi ferree della necessità generale e sono diventati mercanti dell’unica loro proprietà, la forza-lavoro e l’intelligenza professionale. Più esposti ai rischi della concorrenza, gli operai hanno accumulato la loro proprietà in «ditte» sempre più vaste e comprensive, hanno creato questo enorme apparato di concentrazione di carne da fatica, hanno imposto prezzi e orari e hanno disciplinato il mercato. Hanno assunto dal di fuori o hanno espresso dal loro seno un personale d’amministrazione di fiducia, esperto in questo genere di speculazione, in grado di dominare le condizioni del mercato, capace di stipular contratti, di valutare le alee commerciali, di iniziare operazioni economicamente utili. La natura essenziale del sindacato è concorrentista, non è comunista. Il sindacato non può essere strumento di rinnovazione radicale della società: esso può offrire al proletariato dei provetti burocrati, degli esperti tecnici in quistioni industriali d’indole generale, non può essere la base del potere proletario. Esso non offre nessuna possibilità di scelta delle individualità proletarie capaci e degne di dirigere la società, da esso non possono esprimersi le gerarchie in cui si incarni lo slancio vitale, il ritmo di progresso della società comunista.
La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione.[3] Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere e ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe, è sociale. La sua ragion d’essere è nel lavoro, è nella produzione industriale, in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto si vuole superare.[4],[5]
Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nella organizzazione generale della società.
Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più «civile» degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell’organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l’economia comunista rappresenta sull’economia capitalistica. Il Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrifizio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia.
L’esistenza di una organizzazione, nella quale la classe lavoratrice sia inquadrata nella sua omogeneità di classe produttrice, e la quale renda possibile una spontanea e libera fioritura di gerarchie e di individualità degne e capaci, avrà riflessi importanti e fondamentali nella costituzione e nello spirito che anima l’attività dei sindacati.[6]
Il Consiglio di fabbrica si fonda anch’esso sul mestiere. In ogni reparto gli operai si distinguono in isquadre e ogni squadra è una unità di lavoro (di mestiere): il Consiglio è costituito appunto dai commissari che gli operai eleggono per mestiere (squadra) di reparto. Ma il sindacato si basa sull’indirizzo, il Consiglio si basa sull’unità organica e concreta del mestiere che si attua nel disciplinamento del processo industriale. La squadra (il mestiere) sente di essere distinta nel corpo omogeneo della classe, ma nel momento stesso si sente ingranata nel sistema di disciplina e di ordine che rende possibile, con l’esatto e preciso suo funzionamento, lo sviluppo della produzione. Come interesse economico e politico il mestiere è parte indistinta e solidale perfettamente col corpo della classe; se ne distingue come interesse tecnico e come sviluppo del particolare strumento che adopera nel lavoro. Allo stesso modo tutte le industrie sono omogenee e solidali nel fine di realizzare una perfetta produzione, distribuzione e accumulazione sociale della ricchezza; ma ogni industria ha interessi distinti per quanto riguarda la organizzazione tecnica della sua specifica attività.
L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. Gli operai portano nel sindacato questa nuova coscienza e dalla semplice attività di lotta di classe, il sindacato si dedica al lavoro fondamentale di imprimere alla vita economica e alla tecnica del lavoro una nuova configurazione, si dedica a elaborare la forma di vita economica e di tecnica professionale che è propria della civiltà comunista. In questo senso i sindacati, che sono costituiti con gli operai migliori e più consapevoli, attuano il momento supremo della lotta di classe e della dittatura del proletariato: essi creano le condizioni obbiettive in cui le classi non possono più esistere né rinascere.
Questo fanno in Russia i sindacati di industria. Essi sono diventati gli organismi in cui tutte le singole imprese di una certa industria si amalgamano, si connettono, si articolano, formando una grande unità industriale. Le concorrenze sperperatrici vengono eliminate, i grandi servizi amministrativi, di rifornimento, di distribuzione e di accumulamento, vengono unificati in grandi centrali. I sistemi di lavoro, i segreti di fabbricazione, le nuove applicazioni diventano immediatamente comuni a tutta l’industria. La molteplicità di funzioni burocratiche e disciplinari inerente ai rapporti di proprietà privata e alla impresa individuale, viene ridotta alle pure necessità industriali. L’applicazione dei princípi sindacali all’industria tessile ha permesso in Russia una riduzione di burocrazia da 100.000 impiegati a 3.500.
La organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. Nell’organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali.
I sindacati di mestiere e di industria sono le solide vertebre del gran corpo proletario. Essi elaborano le esperienze individuali e locali, e le accumulano, attuando quel conguagliamento nazionale delle condizioni di lavoro e di produzione sul quale concretamente si basa la uguaglianza comunista.
Ma perché sia possibile imprimere ai sindacati questa direzione positivamente classista e comunista è necessario che gli operai rivolgano tutta la loro volontà e la loro fede al consolidamento e alla diffusione dei Consigli, all’unificazione organica della classe lavoratrice. Su questo fondamento omogeneo e solido fioriranno e si svilupperanno tutte le superiori strutture della dittatura e dell’economia comunista.
Note:
[1] In questo incipit, in maniera molto succinta, Gramsci mette subito in evidenza qual è il punto fondamentale alla base della crisi delle organizzazioni sindacali: si tratta di una crisi di potere e sovranità. In altre parole, il problema che si pone è chi, in ultima istanza, possieda il controllo e il monopolio del potere e in quali forme tale potere vada gestito ed esercitato. Il problema da risolvere è dunque lo stesso che emerge, su scala più ampia, nel dibattito sulla natura e la forma dello Stato operaio da contrapporre allo Stato borghese. Il dibattito interno alle organizzazioni di classe (il sindacato in questo caso) diventa, perciò, il contesto di un’elaborazione in realtà ben più ampia: l’elaborazione della risposta alla domanda capitale di quale debba essere la forma compiuta della democrazia operaia. Quindi, risolvendo il problema di come dare una forma e un’impalcatura pienamente democratiche (in senso operaio) alle proprie organizzazioni, la classe operaia avrà risolto due questioni allo stesso tempo: avrà posto fine alla crisi di quelle organizzazioni e avrà una forma di Stato da contrapporre allo Stato borghese. Le due questioni sono dunque una questione sola, non solo in astratto ma anche nei fatti, dato il contesto rivoluzionario del biennio rosso. Da un lato, c’era l’esigenza di vincere – da qui l’urgenza di risolvere i problemi interni al sindacato e, più in generale, di dotarsi di organizzazioni e (soprattutto) direzioni all’altezza. Dall’altro, a fronte della radicalità del conflitto e del dualismo di potere creatosi nella società, la posta in palio era la gestione stessa di quel potere: vincere significava non vincere una battaglia, ma l’intera guerra della trasformazione sociale. In quanto espressione della lotta di classe, lo scontro non era quindi solo tra due forze materiali contrapposte, ma anche tra due opposte concezioni della gestione del potere e, in ultima analisi, della democrazia. Da qui la necessità di riflettere sulla forma della democrazia operaia. Pertanto, il dibattito interno alle organizzazioni sindacali e dei lavoratori non era solo un dibattito sulla democrazia sindacale ma era anche, e soprattutto, un dibattito sulla democrazia operaia e sulle sue forme.
[2] Gramsci descrive qui il processo di burocratizzazione del sindacato e la trasformazione della sua dirigenza in apparato che mira a essere mediatore tra le classi e non espressione di una classe (la classe operaia). L’apparato tende a voler conservare e preservare la propria posizione di privilegio, per i benefici che da essa derivano, e in questo modo persegue il proprio interesse e non quello della classe lavoratrice. Per questo segue dinamiche e leggi che sono interne a questi obbiettivi ed estranee alla missione storica della classe operaia.
[3] Gramsci aveva già espresso l’idea di modellare le commissioni interne sui Soviet nell’articolo “Democrazia operaia” (pubblicato in questo percorso di lettura) uscito sull’Ordine Nuovo nel giugno del 1919 (vedi anche la cronologia di questo percorso di lettura, “Il Biennio rosso passo dopo passo”).
[4] La differenza fondamentale, dunque, tra sindacato e consigli è questa. Il primo organizza i lavoratori in quanto salariati, e cioè sfruttati, che vendono l’unica merce di cui dispongono, la propria forza lavoro. Al contrario, i secondi raccolgono i lavoratori in quanto soggetti produttori: non schiavi del salario, ma soggetti liberi che esercitano liberamente la propria intelligenza produttiva e, in questo modo, determinano e organizzano collettivamente la produzione industriale al servizio della collettività.
[5] Ricordiamo che i primi consigli di fabbrica nacquero a Torino e, a differenza delle commissioni interne, erano eletti da tutti i lavoratori, indipendentemente che fossero iscritti o meno al sindacato (vedi la cronologia di questo percorso di lettura, “Il Biennio rosso passo dopo passo”).
[6] La forma dello stato operaio, attraverso cui si realizza la democrazia operaia, è dunque la democrazia consiliare. La parola d’ordine da lanciare nel dibattito interno al sindacato allora doveva essere allora promuovere il movimento dei consigli di fabbrica: costruire consigli nelle fabbriche e unificarli. Ricordiamo che l’Ordine Nuovo lanciò proprio questa parola d’ordine tra il settembre e l’ottobre del ’19, prima pubblicando sulle proprie pagine il programma dei consigli di fabbrica, steso dai consigli torinesi, e poi promuovendo la riunione dei Comitati Esecutivi dei consigli di fabbrica.