“Certo, quando abbiamo cominciato a discutere , c’era una bibbia, il manuale di economia politica dell’Accademia delle scienze dell’Urss. Ma quella bibbia non era il Capitale, era il Manuale. Da un’altra parte, volavano le accuse di trotskismo. A questo proposito: o noi abbiamo la capacità di distruggere con argomenti le opinioni contrarie o dobbiamo lasciare che si esprimano….Come fautore del sistema centralizzato mi hanno confuso con un trotskista”. Ernesto Che Guevara[1]

 

Furono gli stessi dirigenti sovietici ad accusare per primi il Che di “trotskismo”, a seguito del cosiddetto “dibattito sull’economia”. Sul suo presunto trotskismo si svilupperanno storicamente due vulgate. Un settore della Quarta Internazionale cavalcò tale leggenda, finendo per attribuire al Che una sorta di adesione inconscia al trotsksimo. La storiografia ufficiale a sinistra al contrario rimosse completamente la questione. Le divergenze con l’Urss furono sepolte dall’icona del Che guerrigliero, uomo d’azione, combattente romantico, poco incline alla teoria e al dibattito politico. Pur divergendo nel giudizio, entrambe le vulgate convergono nel risultato: la sostanza del pensiero del Che viene distorta o rimossa.

Guevara non fu un trotskista. Ma questo non rende le sue critiche all’Urss meno interessanti o contundenti. Al contrario, esse appaiono significative proprio perchè elaborate non a partire da una convinzione teorica ma dallo scontro empirico con il tentativo di costruire il socialismo a Cuba.

Il Che non ha una base teorica avversa allo stalinismo. Tutto al contrario. Scrive nel 1957:

Appartengo per preparazione ideologica a coloro che credono che la soluzione dei problemi del mondo si trova dietro la cosiddetta cortina di ferro. Ho sempre considerato Fidel come un autentico leader della borghesia di sinistra, anche se la sua figura è caratterizzata da qualità personali e da una straordinaria brillantezza che lo pongono molto al di sopra della propria stessa classe. Con questo spirito ho iniziato la lotta: onestamente, senza la speranza di andare più in là della semplice liberazione del paese, disposto ad andarmene quando le condizioni della lotta successive volgeranno verso destra (…) tutte le azioni del Movimento.[2]

Siamo poco dopo la firma del patto di Miami, nell’ottobre 1957: un patto in cui i principali gruppi di opposizione a Batista si impegnano a istituire dopo la caduta del dittatore una Giunta di Liberazione Cubana riconosciuta dagli Usa. All’incontro partecipano anche due delegati del Movimento 26 Luglio (d’ora in poi “M267”) i quali poi verranno disconosciuti dallo stesso Fidel.

Ma la vicinanza del Che allo stalinismo non va oltre questi generici richiami. Non si basa su legami di militanza né su contatti privilegiati con i dirigenti del partito comunista cubano (d’ora in poi “Psp”). Molto semplicemente, nel contesto cubano della fine degli anni ’50, richiamarsi all’Urss significava collocarsi istintivamente alla sinistra del dibattito che attraversa il movimento guerrigliero. Significava segnare una distanza dalle correnti più moderate, e in alcuni casi apertamente anticomuniste, interne al Movimento.

Del resto gli obiettivi della guerriglia non vanno inizialmente oltre la cornice di un programma radicale democratico borghese. Le opposizioni a Batista firmano un nuovo Patto a Caracas nel luglio 1958, questa volta dando piena centralità alla lotta armata e all’azione del M267. Anche in questo caso però l’incontro avviene senza il coinvolgimento dei comunisti e il Patto non va oltre l’obiettivo della costituzione di un regime democratico borghese a Cuba.

Il Psp in realtà viene tenuto fuori dal fronte delle opposizioni più per rassicurare simbolicamente la borghesia nazionale cubana che per la radicalità delle sue posizioni. Il programma del partito non si distingue nella sostanza di fondo del patto di Caracas. Subito dopo il colpo di Stato di Batista del 1952 i dirigenti comunisti

fanno un appello alla creazione di un fronte democratico nazionale con l’obiettivo di unire tutte le opposizioni in un fronte popolare per resistere a Batista con mezzi legali. Sfortunatamente per loro, la direzione all’Avana della maggioranza del resto delle opposizioni era più anticomunista di quanto non fosse antiBatista[3]

Ma per quanto la guerriglia castrista non si ponesse soggettivamente l’obiettivo di rompere la cornice capitalista né di arrivare a uno scontro con la cosiddetta borghesia democratica, la dinamica interna stessa della rivoluzione porterà tale scontro e tale rottura. Un programma di riforme radicali a Cuba, se coerentemente portato a compimento, è destinato a cozzare contro il capitalismo stesso. Scriverà il Che anni dopo:

Era una rivoluzione che arrivava al potere; era un movimento di popolo che aveva distrutto il potere politico e militare dei fantocci dell’imperialismo yankee, ma i suoi dirigenti erano soltanto un gruppo di combattenti con elevati ideali ma scarsa preparazione (…) La sovrastruttura dello stato capitalista neocoloniale rimaneva intatta. (…) I vecchi ministeri erano tane di burocrati e parassiti, senza vita. (…) Si doveva cambiare le strutture: così abbiamo cominciato le trasformazioni ma senza un piano, senza quasi porcelo. Il gruppo di rivoluzionari, con Fidel Castro in testa, pose come esigenza primordiale la legge agraria. E questa legge indispensabile (…) scatenò un terribile gioco, quello della lotta di classe e approfondì la rivoluzione cubana al massimo. (…) e quella che poteva ancora essere ritenuta una riforma agraria di contenuto borghese, che dava la proprietà della terra ai contadini poveri e medi, si trasformò in teatro di una violenta lotta nel corso del quale furono espropriati senza indennizzo, tutti i grandi latifondisti di Cuba [4]

L’avvicinamento al Psp e all’Urss è quindi un processo di successive approssimazioni, non privo di contraddizioni, tensioni e scoperte negative. Colui che ne rimarrà più deluso sarà paradossalmente proprio colui che per primo aveva auspicato tale processo:

[Il Che] Era stato il primo filo-comunista nel ’58, durante la guerra, il primo filo-sovietico nel ’59, ’60, ’61. Nel 1962 aveva fatto molte scoperte: gli avevano venduto, approfittando della sua credulità, tutti gli scarti del socialismo reale (…). la scoperta degli errori commessi lo spinse ad avere posizioni molto critiche nei confronti del modello sovietico.[5]

 

Il calco di un modello e la questione sindacale

“Noi abbiamo meccanicamente copiato esperienze di paesi fratelli e questo è stato un errore – non certamente dei più gravi, ma un errore – che ha frenato lo sviluppo delle nostre forze e ha pericolosamente contribuito a ingenerare uno dei fenomeni che più devono essere combattuti durante la rivoluzione socialista – il burocratismo”. Ernesto Che Guevara[6]

Tra il 1959 e il 1961 il cozzo stesso contro l’imperialismo costringe la rivoluzione a radicalizzarsi. Il castrismo viene spinto oltre i limiti che si era soggettivamente posto. Uno dopo l’altro vengono nazionalizzati i gangli vitali dell’economia. Un processo che porta in sé una contraddizione: ad un avanzamento del programma economico della rivoluzione corrisponde un arretramento del suo dinamismo politico. Cuba si orienta all’Urss. Lo fa nei modelli economici ma anche nel regime politico.

Sul terreno sindacale l’impatto è immediato. Poco prima della caduta di Batista, si erano riunite in clandestinità alcune assemblee operaie elette per delegati. L’8 dicembre del 1958 si riunisce il Congreso Obrero en Armas, con 110 delegati provenienti dalle ferrovie, dalle coltivazioni di canna da zucchero, tipografie, settore elettrico e estrattivo.

A Las Villas all’arrivo della colonna guerrigliera di Cienfuegos, si assiste a un immediato rivitalizzarsi delle commissioni operaie. Il 28 novembre si tiene un’assemblea plenaria di lavoratori. Secondo la risoluzione finale sono presenti “728 delegati che si incontrano sotto la protezione della colonna Antonio Maceo comandata da Camilo Cienfuegos”. Il programma adottato riflette tutte le contraddizioni interne al processo cubano. A veri e propri appelli alla collaborazione con i padroni fa eco un programma di radicali rivendicazioni sindacali:

(…) 3. Facciamo appello a tutti i lavoratori dello zucchero di Las Villas a prepararsi a combattere per le proprie rivendicazioni in vista della prossima zafra [raccolta]. (…) 4. Facciamo appello ai padroni e agli industriali ad appoggiare le rivendicazioni politiche della guerriglia, come unico modo per sviluppare i propri affari con prosperità, rispetto e pace. (…) 9. Avanziamo le seguenti rivendicazioni economiche: – per aumenti salariali non inferiori al 10% (…) – per la riassunzione di tutti i licenziati politici (…) – per il riconoscimento dei delegati democraticamente eletti dai lavoratori[7]

Ci furono altri incontri simili tenuti nella seconda metà di novembre e all’inizio di dicembre. A Gueba ad esempio 800 lavoratori del settore dello zucchero eleggono nuovi delegati e pianificano l’espansione dell’organizzazione operaia nelle aree che non sono ancora sotto il controllo dei ribelli.

La repentina caduta di Batista paradossalmente tronca questo processo di capillare organizzazione di commissioni operaie o di comitati di lotta eletti nelle zone occupate dalla guerriglia. Pur tuttavia, il protagonismo del movimento dei lavoratori, attraverso lo sciopero generale, risulta fondamentale nel garantire che il vuoto di potere generato dalla fuga di Batista non sia occupato da una giunta militare. Lo sciopero generale aiuta forse in maniera decisiva la vittoria definitiva del M267.

Questa effervescenza operaia si riflette inizialmente nella composizione delle nuove strutture sindacali:

La democrazia sindacale era una questione molto sentita dagli operai cubani. Dopo l’uscita di Eusebio Mujal, il massimo dirigente della CTC, e di parte della burocrazia sindacale mujalista con la caduta di Batista si produce la presa rivoluzionaria dei sindacati da parte dei militanti del M267. Questi nuovi dirigenti risultano eletti nelle elezioni sindacali tenutesi all’inizio del 1959. In queste elezioni il M267 trionfa in più di 1800 sindacati. I comunisti pagano la propria attitudine ambigua durante la dittatura di Batista (…) La debole posizione dei comunisti nel movimento operaio dopo le elezioni nei sindacati di base e per il congresso delle federazioni sindacali è rivelata con la riunione, nel settembre del 1959 del Consiglio nazionale della Confederazione dei Lavoratori cubani. Solo 3 dei 164 delegati all’incontro erano comunisti[8]

Ma tra il 1960 e il 1961 la situazione cambia radicalmente. Avviene un vero e proprio processo di “statalizzazione” del sindacato il cui effetto collaterale è quello di imporre alla testa dell’organizzazione un gruppo dirigente proveniente dalla vecchia corrente sindacale stalinista. Il Congresso della Ctc del Novembre 1961 avviene con votazioni su liste bloccate e candidati unici. Viene eletto segretario generale Lázaro Peña, che aveva già ricoperto questa carica durante il primo Governo Batista.

Lo si è eletto con il sistema della candidatura unica, cioè, senza alcuna possibilità di candidature alternative. La sua nomina è stata molto più una decisione dall’alto che una elezione dal basso. I lavoratori che appoggiano e difendono fino alla morte la rivoluzione, non hanno opposto resistenza organizzata al sistema, visto che c’è una preoccupazione costante che guida ogni passo e iniziativa degli operai cubani: non causare danno alla rivoluzione, trattenersi o aspettare quando credono che qualche protesta, pur giustificata che sia, possa pregiudicare la rivoluzione. (…) Era molto difficile che Lázaro Peña potesse contare sull’appoggio operaio, visto che la sua storia come dirigente sindacale a Cuba ha molti passaggi che oggi non si possono ricordare. Per esempio, fu dirigente della Ctc nel 1939, nell’epoca dell’alleanza del suo partito, il Psp (Partito Comunista Cubano) con Batista e da lì frenò o disperse uno sciopero dopo l’altro in nome di questa alleanza e del trionfo della causa delle “democrazie” nella seconda guerra mondiale per la quale a Cuba “non si doveva fare sciopero”. Questo lo ricorda vivamente qualsiasi lavoratore cubano di 40 anni così come ricordano – o conservano – le fotografie del periodo dove dalla stessa tribuna apparivano Batista e il segretario generale della CTC-R.[9]

E non è solo una questione di vertici. La struttura del Ctc-R è completamente ricalcata da quella dei sindacati dell’Urss stalinista. Il sindacato si situa così a metà strada tra un organismo di direzione aziendale e di cinghia di trasmissione amministrativa delle direttive governative dall’alto verso il basso. Un fatto riconosciuto in seguito dallo stesso Guevara: “Qui si sono fatti sindacati meccanicamente. Poiché in Unione Sovietica ci sono sindacati amministrativi, si sono fatti sindacati amministrativi a Cuba”[10]

Così facendo però non si riduce solo la spinta dei lavoratori alla partecipazione alla vita sindacale, ma si allarga ulteriormente la forbice tra la burocrazia sindacale e la condizione operaia. Trasformati in pura appendice burocratica della direzione del lavoro, i sindacati perdono anche la capacità di rilevare le criticità operaie, di apportare eventuali correzioni alla pianificazione economica. Privandosi di una libera dialettica operaia, la direzione cubana si priva di occhi e orecchie in grado di evidenziare gli errori della pianificazione economica. Non vi è alcun modo di verificare l’attinenza reale del piano economico se non a posteriori: riscontrando la sua riuscita o la sua clamorosa débâcle.

Che Guevara si scontra con questa problematica da Ministro dell’Industria. E su questo torneremo. Intanto ci preme sottolineare questo: gli attacchi che il Che sferra contro la struttura sindacale avvengono in questo contesto. Non si tratta di attacchi rivolti alla funzione generale del sindacato né nel contesto capitalista né durante la transizione al socialismo. Il Che si riferisce alla condizione concreta dei sindacati cubani: carrozzoni burocratici doppiamente inutili. Inutili come organismi di difesa economica dei lavoratori, inutili come organi di aiuto alla definizione della pianificazione economica del nuovo Stato. Il Che li arriva a contrapporre al tentativo di costruire organismi aziendali come i “consejos” o le “commissioni di giustizia del lavoro”. Organismi che vantano una piccola differenza rispetto alla struttura sindacale, sono elettivi:

Stiamo sviluppando delle “commissioni di giustizia del lavoro”, come primo passo, come prova o esperienza, in cui sono rappresentati sia gli operai sia la parte amministrativa. Dobbiamo vedere come si sviluppano, come reagiscono. Intanto si è vista una cosa fondamentale, che era elementare, l’importanza che ha, l’entusiasmo che si crea nella gente quando sa di poter eleggere i propri rappresentanti.

Qui la democrazia sindacale è un mito, lo si può dire o non dire, ma è un perfetto mito. Si riunisce il Partito e allora propone alla massa “Tizietto tal dei tali”, candidatura unica, e da quel momento esce quell’eletto, a volte con una certa partecipazione, a volte con scarsa presenza ma in realtà non c’è stato nessun processo di selezione da parte della massa. Invece col nuovo sistema realmente la gente può scegliere il suo candidato e, da quel che ho saputo, c’è grande entusiasmo.

(…) E per questa via [queste commissioni] potrebbero avere un bel compito, eliminare i sindacati, con il loro nome e la loro impostazione ereditata dall’antagonismo di classe, e al tempo stesso si creerebbe un veicolo di democrazia, necessario per nuove istituzioni che bisogna creare, ossia ci sarebbe una base da cui partire. Perciò, al momento attuale, direi addirittura che i sindacati potrebbero smettere di esistere e trasferire le loro funzioni ai “Consigli di giustizia del lavoro” si aggiungerebbero a questi alcune funzioni concrete e la gente potrebbe essere eletta.

(…) Se facessimo un’inchiesta tutti sarebbero d’accordo con noi. Gli unici che non sarebbero d’accordo – e la cosa è certo umanamente comprensibile ma non bella – sarebbero quelli della burocrazia sindacale che si è venuta costituendo. Costoro sanno che toccherebbe loro tornare a lavorare con le manine e quindi dicono: “Senti sono diciotto anni che faccio il dirigente sindacale, dovrei ricominciare da capo?”. Ma al di fuori di questo gruppo di compagni, è certo che la maggioranza della gente è d’accordo”[11].

 

Le prime divergenze con Mosca

“Il trotskismo viene da due parti: una che è quella che mi interessa di meno, è quella dei trotskisti, che dicono che c’è tutta una serie di cose che ha già detto Trotsky” Che Guevara[12]

Tra l’estate del 1960 e la primavera 1961 a Cuba si registrano i primi attacchi e le prime misure contro il Por, l’organizzazione trotskista. Significativamente le autorità cubane impediscono la pubblicazione, sequestrano e distruggono le placche tipografiche di uno dei libri più attuali nel contesto cubano e dell’America Latina, la Rivoluzione Permanente di Trotsky.

Non entriamo qua per ragioni di brevità nella storia del trotskismo cubano. Ci limitiamo a dire che i trotskisti cubani erano tutt’altro che esterni al processo rivoluzionario. Elementi trotskisti avevano avuto un ruolo importante nella organizzazione dell’intervento operaio del M267 particolarmente nella parte orientale dell’isola. Se si poteva rimproverare loro qualcosa non era un approccio esterno al processo rivoluzionario, ma al contrario una eccessiva infatuazione nei confronti della direzione del 26 Luglio. Presentare il Por come un agente dei servizi segreti americani era per questo assai difficile. Pur tuttavia il Che approva la prima ondata di misure contro il trotskismo cubano e in un’intervista dell’agosto 1961 avalla anche la leggenda calunniosa del legame tra forze trotskiste e imperialismo:

Oltretutto il trotskismo nasce a Guantanamo. E’ una strana coincidenza, però nasce a Guantanamo e ha la sua forza lì. Guantanamo è una città che dista pochi minuti dalla Base Navale di Guantanamo e noi sospettiamo che possa esserci una certa relazione con questa “prossimità geografica”.[13]

Siamo ancora di fronte al Che infatuato dei paesi “dietro la cortina di ferro”? E’ lecito supporre il contrario. Dietro le quinte sono già cominciate le tensioni con la burocrazia sovietica. Pochi mesi prima, nell’Aprile del ’61 Jorge Ricardo Masetti è costretto a dimettersi da direttore dell’agenzia di stampa cubana Prensa Latina a causa dei crescenti attacchi provenienti dall’ambiente “comunista”. Prensa Latina è il centro “propagandistico” di espansione del messaggio rivoluzionario cubano al resto dell’America Latina. La sua fondazione è avvenuta direttamente sotto ispirazione e invito del Che. Per questo la sostituzione di Masetti con Fernando Revuelta, membro del Partito Comunista è in verità un attacco allo stesso Che:

Da un lato i comunisti allineati con Mosca sottolineavano la necessità di strutturare una relazione di convivenza con le borghesie nazionali, alle quali attribuivano caratteristiche progressiste e finanche rivoluzionarie. (…) Masetti, come il Che, stava agli antipodi di questa posizione e rifiutava senza mezze misure il presunto “progressismo” della borghesia nazionale. (…) D’altra parte Masetti aderirà, presto e pubblicamente, alle tesi guevariste della lotta armata, posizione che urtava i nervi delle alte sfere sovietiche (…). Però la lotta per la direzione di Prensa Latina non era diretta solo contro Masetti. Sul suo cammino c’era qualcun’altro: il suo sostenitore e mentore, il Che. In qualche modo l’egemonia politica su Prensa Latina si convertirà nel primo grande campo di battaglia tra i vecchi comunisti e i guevaristi.[14]

E’ questo il contesto in cui avvengono le prime misure persecutorie contro i trotskisti. E di fatto esse sembrano un tentativo della direzione del M267 di coprirsi a sinistra, per poter procedere ad attaccare verso destra. Da lì a poco infatti avviene “la denuncia del settarismo” di Anìbal Escalante.

Escalante è un membro di vecchia data del Psp, il partito comunista cubano. Dopo l’aprile del 1961 è segretario dell’Ori (Organizzazioni Rivoluzionarie Integrate). Nell’Ori sono confluiti l’organizzazione studentesca Direttorio Rivoluzionario, il Movimento 26 Luglio e lo stesso Psp. Compito dell’Ori è di portare da lì a poco alla creazione del Partito Comunista Cubano unificato. In questo processo naturalmente Escalante risponde a Mosca prima che a Castro. E si premura di piazzare elementi fedeli a Mosca in tutti i posti chiave. Nel marzo del 1962 Castro denuncia la condotta settaria di Escalante, il quale da lì a poco viene allontanato da Cuba insieme all’ambasciatore sovietico Serguei Mijailovich Kudryavtsev.

Non si tratta però di un semplice scontro “di potere”. Le tensioni politiche interne all’Ori hanno una profonda base materiale. L’economia cubana tra il 1961 ed il 1963 vive una crisi profonda. Il boicottaggio economico statunitense ha privato improvvisamente l’isola di una serie di produzioni e materie prime. Per qualsiasi economia nazionale, e ancora di più per una economia arretrata, rompere con il capitalismo significa in prima battuta recidere i legami di scambio con il mercato internazionale. Pezzi di ricambio per macchinari, assistenza tecnica, materie prime, merci di importazione e possibilità di esportazione: i vecchi legami economici vengono recisi senza che quelli nuovi siano ancora potuti nascere.

I vertici del M267 reagiscono al blocco statunitense, provando a industrializzare il più rapidamente l’isola, per diversificare l’economia e sottrarre Cuba alla condizione di “monocoltura” e dipendenza dall’esportazione di canna da zucchero. Il risultato però è disastroso. Due anni sono insufficienti a rigenerare le fondamenta dell’economia cubana, ma si rivelano abbastanza per far crollare la produzione di canna da zucchero. Il raccolto passa da 6.800.000 tonnellate nel 1961 a 3.800.000 del 1962.

 

La pianificazione economica e lo stimolo alla produzione

“Guevara aveva un atteggiamento raro in un ministro: vedeva il suo lavoro in funzione di una continua trasformazione. Cominciò a spargersi la voce che stesse davvero diventando trotskista”[15] Saverio Tutino

A Cuba quindi industrializzare è sinonimo di provare a diversificare la struttura produttiva del paese. Diversificare è a sua volta sinonimo di acquisire autonomia politica. Dipendere economicamente dall’esportazione di una coltura significa dipendere politicamente da chi la importa. Il rischio evidente è che allo sbocco del mercato statunitense si sostituisca la dipendenza dai grossi acquisti di zucchero fatti dall’Urss. Si tratta di una dipendenza assai diversa. Il mercato capitalista acquistava lo zucchero a basso costo, depredando quindi l’economia cubana. L’Urss e i paesi dell’est acquistano lo zucchero cubano a prezzi di favore. Più che di uno scambio commerciale, si tratta di un sussidio politico. Un sussidio che non è tuttavia “gratuito”. Il prezzo da pagare rimane comunque una limitata autonomia.

Non può considerarsi un caso quindi che proprio il Che dal 1961 sia a capo del Ministero dell’Industria, né che sia colui più preoccupato della dipendenza economica dall’Urss. Una dipendenza necessariamente avvertita come problematica proprio da chi più stava maturando differenze politiche.

E dal punto di vista particolare che gli è riservato come Ministro dell’Industria, le sue divergenze con l’Urss non si placano. Al contrario si caricano di nuove tematiche e nuovi significati. A una critica alla linea politica di Mosca, si sommano dubbi e riflessioni sull’economia nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”.

La prima problematica da affrontare per il nuovo governo rivoluzionario è quella della necessità di aumentare la produttività del lavoro.

Il socialismo non è una società che si crea per decreto. Esso è la negazione e il superamento delle contraddizioni ultime del capitalismo. E’ una necessità storica oggettiva che emerge dalla contraddizione tra il limite angusto della proprietà privata dei mezzi di produzione da un lato e dall’altro la possibilità di elevare alla massima potenza la produttività del lavoro. E’ attraverso la possibilità di sviluppare al massimo tale produttività, tramite l’automazione e la pianificazione economica, che la società può marciare verso una armoniosa abbondanza dove povertà, avarizia, accaparramento e violenza siano relegate a ricordi del passato. E’ sulla base dell’abbondanza che si può giungere alla massima di Marx: ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni.

Ma a Cuba, così come successo nella Russia del 1917, il capitalismo si è rotto nell’anello più debole. Le condizioni economiche di profonda arretratezza rendono difficile non solo la creazione dell’abbondanza ma addirittura la semplice ridistribuzione della ricchezza. La pianificazione economica viene quindi applicata non a compiti “socialisti” ma addirittura a obiettivi di sviluppo capitalista.

Scrive il Che:

Ricordatevi ancora una volta che il socialismo come sistema nuovo è un sistema che ha una base economica. Non è semplicemente appoggiato su una concezione filosofica diversa. Deve avere la sua base in una produzione maggiore, che basti a tutti e che si distribuisca in maniera equa per tutti. Se noi realizziamo solo la seconda parte e distribuiamo equamente, non faremo altro che distribuire la miseria, ma in questo modo non si arriva al socialismo[16]

Significativamente è un concetto perfettamente sovrapponibile a quanto Trotsky aveva spiegato nella Rivoluzione Tradita:

Il marxismo considera lo sviluppo della tecnica come la fonte principale del progresso e fonda il programma comunista sulla dinamica delle forze produttive. (…) Il giovane Marx scrive due anni prima del Manifesto del Partito Comunista: “Lo sviluppo delle forze produttive è praticamente la condizione prima assolutamente necessaria [del comunismo], anche per questa ragione: che senza questo sviluppo si socializzerebbe la miseria e la miseria farebbe ricominciare la lotta per il necessario e di conseguenza risusciterebbe tutto l’antico ciarpame”.[17]

Per non limitarsi a socializzare la miseria, l’economia cubana è costretta a lottare con urgenza per l’aumento della produttività del lavoro. In assenza però della tecnica adeguata, tale esigenza porta con sé in maniera ancora più stridente un’altra problematica: lo stimolo dell’individuo al lavoro.

Sotto il capitalismo, l’individuo è stimolato alla produzione dal ricatto, dalla paura o dall’avidità: dal ricatto del salario, dalla paura della disoccupazione o dal desiderio di arricchirsi. Sotto il socialismo questi stimoli dovrebbero venire gradualmente meno, per essere sostituiti da nuovi stimoli sociali. Lo stimolo predominante dovrebbe essere il graduale sviluppo della coscienza della natura sociale del proprio lavoro, la completa identificazione tra le finalità del proprio lavoro e il possesso da parte del lavoratore dei mezzi di produzione e della società. Ma tale stimolo non può essere creato in assenza di una reale democrazia operaia, di una presa di possesso sostanziale e non solo formale dei mezzi di produzione. In una società burocratizzata, nonostante le forze produttive siano nazionalizzate, il lavoratore sente di non avere alcuna reale incidenza né sulla pianificazione economica né sul loro controllo.

Questo si riflette nel graduale sviluppo della passività del lavoratore stesso nei confronti del proprio lavoro, nell’incuria verso i mezzi di produzione e verso la qualità del proprio lavoro. Per una prima fase questo stato di cose è mascherato dall’effervescenza rivoluzionaria della classe. Per un certo periodo l’economia si regge sul puro volontarismo di un settore del proletariato ancora fresco dell’entusiasmo rivoluzionario. Addirittura la produttività del lavoro cresce in conseguenza dell’enorme quantità di ore di lavoro volontario e gratuito fornito dal settore più cosciente del proletariato. Ma nessuna economia può reggersi alla lunga sulla sola volontà e sull’entusiasmo.

Nel tentativo di sviluppare la produttività del lavoro, il Ministero dell’Industria cozzava da tutte le parti con ritardi, assenze, incuria verso i macchinari. Tale problematica in Urss era stata risolta facendo rientrare dalla finestra alcuni dei meccanismi capitalistici fatti uscire dalla porta principale: attraverso la coercizione e gli incentivi monetari alla produzione. Vi era stata addirittura la reintroduzione e l’ampliamento del cottimo. Il Che si opponeva a tali misure non per ragioni etiche o morali, ma per una questione squisitamente politica. In una società già profondamente diversificata e parcellizzata, dove ancora dominava il piccolo commercio, introdurre premi monetari legati alla produttività significava favorire ulteriormente la diversificazione sociale. Il rischio era quello di reintrodurre gradualmente non solo una mentalità capitalista, ma il capitalismo stesso.

E’ necessario chiarire bene una cosa: non neghiamo la necessità oggettiva dell’incentivo materiale, ma rifiutiamo il suo uso come leva propulsiva fondamentale. Siamo convinti che, in economia, questo tipo di propulsione acquisti rapidamente forza di per sé e che poi imponga il suo peso nelle relazioni tra gli uomini. Non bisogna dimenticare che esso proviene dal capitalismo ed è destinato a sparire nel socialismo.[18]

Il Che sottolineava quindi la necessità di sostituire gli incentivi “materiali” con quelli morali. Come farlo? E’ evidente che la sua riflessione alludeva alla necessità di avere una democrazia diffusa, basata su una struttura consiliare, che permettesse lo sviluppo di una nuova coscienza. E questo tema verrà da lui accennato diverse volte:

Tutto ciò comporta, per il suo completo successo, la necessità di una serie di meccanismi: le istituzioni rivoluzionarie. (…) Questa istituzionalizzazione della rivoluzione non si è ancora attuata. Stiamo cercando qualcosa di nuovo che permetta un’identificazione perfetta tra il governo e la comunità nel suo insieme, adeguata alle particolari condizioni della costruzione del socialismo e che rifugga al massimo dai luoghi comuni della democrazia borghese trapiantati nella società in formazione[19]

Pur tuttavia tale questione non verrà mai realmente sviluppata. Non volendo o non sapendo giungere a una rottura organica con le concezioni staliniste, la riflessione del Che sembra quasi perdersi nel campo dell’ascetismo rivoluzionario. Finisce quasi per invertire i termini del problema: visto che il socialismo burocratico non è in grado di creare “l’uomo nuovo”, quest’ultimo va creato per superare il burocratismo socialista. La creazione di una nuova coscienza cessa così di essere il risultato del funzionamento materiale della nuova società e diventa quasi un esercizio pedagogico e di volontà:

La gioventù è particolarmente importante, in quanto è l’argilla malleabile con la quale si può costruire l’uomo nuovo senza nessuna delle vecchie tare. (…) I nostri borsisti svolgono lavoro manuale durante le vacanze o contemporaneamente allo studio. In certi casi il lavoro è un premio, in altri uno strumento di educazione, mai un castigo. Nasce una nuova generazione.[20]

 

La discussione sulla “legge del valore”

“Le ultime rivoluzioni economiche dell’Urss somigliano alle misure prese dalla Jugoslavia quando scelse il cammino che l’avrebbe portata a un ritorno graduale verso il capitalismo. Il tempo dirà se è un incidente passeggero e se si tratta di una definita tendenza all’arretramento”[21] Che Guevara

Non vi era poi solo il problema della produttività del lavoro, ma anche quello della sua qualità e della verifica e costruzione della pianificazione economica.

Racconta il Che:

Naturalmente non abbiamo mantenuto i nostri piani. Era matematicamente impossibile. Vorrei proporvi alcuni esempi pratici perchè capiate quel che è successo a Cuba. Noi avevamo bisogno di 22 milioni di scarpe. Che cosa è necessario per farle? Più di un milione di pelli, tanti operai, tanta capacità di produzione, tanta importazione di materie prime. Tutto si può fare. Avevamo un piano: 22 milioni di paia di scarpe. Noi sapevamo che non potevamo mantenerlo. Ma l’industria cubana aveva fatto più di 10 milioni di paia…E’ vero che vi era capacità produttiva inutilizzata. (…) Noi ci eravamo posti soltanto la meta finale e in modo superficiale i compiti principali. Non si trovarono i bovini. Non si trovarono le pelli. Insomma il piano primitivo era una manifestazione di assoluto soggettivismo che si basava sostanzialmente sulla somma aritmetica di possibilità reali, considerata una per una, ma impossibili da ottenere nel loro insieme.[22]

La difficoltà a scendere nel concreto del piano, a correggerlo e a regolare soprattutto la produzione al dettaglio non erano una particolarità della rivoluzione cubana. Erano un tratto caratteristico di ogni Stato operaio burocratizzato. Anche qua troviamo una incredibile sovrapponibilità con quanto già spiegato da Trotsky nella Rivoluzione Tradita:

Si può così formulare per l’industria sovietica una legge abbastanza singolare: i prodotti sono di regola tanto peggiori quanto più sono prossimi al consumatore (…).[23]

La pianificazione amministrativa ha dimostrato il suo potere ma nello stesso tempo ha rivelato i limiti di tale potere. Un piano economico concepito a priori, soprattutto se calato in un paese di 170 milioni di abitanti, che soffre di contraddizioni profonde tra la città e le campagne non può essere un dogma immutabile ma un’ipotesi di lavoro da verificare e trasformare nel corso dell’esecuzione. Si può anzi fissare questa regola: quanto più precisamente si attua la direttiva amministrativa, tanto peggiore è il risultato economico. Sono necessarie due regole per regolare e adattare il piano: una leva politica, alimentata dalla partecipazione reale alla direzione da parte delle masse interessate, e una leva finanziaria (…) il che è impossibile senza un sistema monetario stabile.[24]

La pianificazione senza democrazia operaia è come la guida di un veicolo con i vetri tappati. Gli ordini centrali non hanno alcuna verifica se non la pratica stessa. Le correzioni del piano avvengono non per dialettica tra organismi politici e produttivi, ma per shock, traumi e fallimenti. Qualcosa che nel risultato finale assomiglia al lancio di un prodotto da parte di un’azienda capitalista, dove il successo o il fallimento sono verificati a posteriori in base al gioco del mercato. La pianificazione economica fallisce così prima di tutto nel suo obiettivo principale: lo sviluppo armonioso delle forze produttive.

Non stupisce quindi che tra le burocrazie staliniste aumentasse la pressione per la reintroduzione di calcoli economici e meccanismi capitalisti all’interno della stessa pianificazione economica. Lo spirito capitalista così risorgeva non solo in relazione agli incentivi alla produzione per il singolo operaio, ma anche come elemento regolatore della vita delle singole aziende. Il paese che più si era spinto su questa via era la Jugoslavia con la cosiddetta politica dell’ “autogestione”.

Non solo il Che avversava frontalmente il modello economico jugoslavo, ma lo usava come leva per sviluppare una polemica nei confronti di tutta l’economia sovietica.

Su questa base scoppia il cosiddetto dibattito economico sulla “legge del valore”. Apparentemente la discussione verteva sul funzionamento della legge del valore marxista nelle economie di transizione dal capitalismo al socialismo. In verità l’argomento era ben altro. Non si trattava infatti di una discussione astratta su come si manifestava il valore in un regime di pianificazione economica, ma sulla reintroduzione di elementi di mercato nella stessa pianificazione. In questo il Che entra in polemica con diversi economisti e dirigenti sovietici, spingendosi addirittura a prevedere il pericolo embrionale di una restaurazione del capitalismo in Urss:

C’è uno studio fatto da Huberman e Sweezy dove si analizza la critica cinese alla Jugoslavia e l’accusa che stia tornando al capitalismo. [Leo Huberman y Paul Sweezy, “¿Transición pacífica del socialismo al capitalismo?”, Monthly Review, No. 8, abril 1964]. Essi rifiutano il ragionamento cinese e provano come sia basato su dogmatismo, ma dopo riaffermano come la Jugoslavia sia, di fatto, un paese capitalista e spiegano come il sistema jugoslavo stia tornando al capitalismo, e lasciano intendere che la legge del valore, in realtà, sta guadagnando campo. L’esperimento di ritorno alla legge del valore cominciò in Jugoslavia e fu adottato in gradi differenti da Polonia e Cecoslovacchia, e l’Unione Sovietica ha cominciato sperimenti simili. Abbiamo discusso questa idea con alcuni rappresentanti della nuova scuola in Unione Sovietica e gli abbiamo detto che differiamo da loro sul terreno metodologico; e abbiamo espresso le nostre critiche al metodo contabile che stanno utilizzando per aumentare la rentabilità. Secondo noi stanno cercando il cammino che gli permette di stimolare il progresso tecnico, ma non cercano la legge basica del socialismo.[25]

Il pericolo di restaurazione del capitalismo era da sempre concepito dalle burocrazie sovietiche come una minaccia proveniente dall’ “esterno”, attraverso una invasione o un complotto imperialista basato sui dissidenti interni. Avanzare l’ipotesi di una restaurazione al capitalismo “per via interna”, come risultato di fattori interni alla stessa politica della direzione sovietica era qualcosa di dirompente. Secondo la testimonianza di Orlando Borrego Diaz, suo collaboratore al Ministro dell’Industria, il Che arrivò addirittura a concepire il pericolo di restaurazione del capitalismo in Urss come il risultato della contraddizione esistente tra elementi della sovrastruttura politica e la base economica.[26] Non poteva sfuggire che una simile previsione fosse stata avanzata precedentemente solo da Trotsky.

 

La chiave è l’internazionalismo

“Nulla è cambiato di essenziale, salvo che sono molto più cosciente e il mio marxismo si è radicato e depurato. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi e sono coerente con le mie convinzioni. Molti mi diranno avventuriero, e lo sono; solo che di un tipo diverso, di quelli che rischiano la pelle per dimostrare le proprie verità. Può darsi che questa sia la volta definitiva. Non lo cerco ma rientra nel calcolo logico delle probabilità. Se è così questo è il mio ultimo abbraccio”. Che Guevara, Lettera ai figli[27]

Le tensioni tra Castro e l’Urss in seguito allo scontro con Escalante del 1962 non sono di lunga durata. Castro effettua un primo viaggio a Mosca nel 1963 e un secondo nel gennaio del 1964. In quest’ultimo chiude un contratto commerciale dove l’Urss si impegna ad acquistare la maggioranza della produzione di zucchero cubano in cambio di macchinari. Cuba si impegna a esportare 5 milioni di tonnellate di canna da zucchero e pianifica insieme ai consiglieri sovietici di arrivarne a produrre 10 milioni entro il 1970.

Il dibattito economico viene così chiuso, non con il linguaggio della penna e della polemica teorica, ma con quello dei contratti commerciali e della contabilità composta da zucchero, acciaio e tecnologia. Il Che rimane di fatto isolato.

Va notato di sfuggita che proprio nel 1964 il Che ha completamente cambiato atteggiamento rispetto alle misure contro i trotskisti:

Disilluso con Mosca e sconfitto nelle lotte interne al gruppo dirigente cubano, Guevara iniziò ad agire in maniera indipendente e a esprimere ogni volta di più le proprie convinzioni personali. Giocò un ruolo decisivo nella liberazione dei membri del Por (T) imprigionati nel carcere dell’Avana.[28]

La dipendenza dagli scambi internazionali e dalla divisione internazionale del lavoro è un fatto. Un fatto per qualsiasi economia e ancora di più per una economia come quella cubana. Un fatto che non può essere rimosso creando una Cuba produttivamente autarchica. L’eccessiva spinta alla industrializzazione interna, per diversificare l’economia, ha provocato la crisi del ’61-’63. L’economia cubana rimbalza ora di nuovo verso la monocoltura. La monocoltura costringe a deporre ogni tipo di velleità di autonomia nei confronti di Mosca. Il Che ha spinto fino alle ultime conseguenze i suoi ragionamenti solo per scoprire che essi non hanno una soluzione all’interno del contesto nazionale cubano. E’ il contesto internazionale a dover essere modificato, sia che si voglia costruire una economia coerentemente socialista, sia che si voglia contestare la via politica intrapresa dall’Urss.

A dire il vero il Che non aveva mai smesso di concepire l’estensione della rivoluzione almeno al resto dell’America Latina. E questo, come già detto, era stato da sempre motivo di frizione con la politica di Mosca. Ora però tale divergenza si va ulteriormente divaricando. Gli elementi di regresso economico interno all’Urss si combinano infatti con l’accentuazione della cosiddetta politica di “coesistenza pacifica” tra il blocco sovietico e quello capitalistico. Nel febbraio del 1965, in un discorso al seminario afro-asiatico ad Algeri, la critica di Guevara alla politica estera sovietica è di fatto resa pubblica:

I paesi socialisti hanno il dovere morale di farla finita con la loro tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori. (…) Noi non ci siamo incamminati sulla via che porterà al comunismo avendone previsto tutti i passi, come prodotto logico di uno sviluppo ideologico che si svolge con un fine determinato; le verità del socialismo, e più ancora le crude verità dell’imperialismo, hanno forgiato il nostro popolo e gli hanno insegnato la via che noi abbiamo adottato coscientemente. (…) Per noi la sola definizione valida di socialismo è l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Finché ciò non avviene, si è nel periodo di costruzione della società socialista; e se questo fenomeno non si verifica, se la lotta per la soppressione dello sfruttamento ristagna, o addirittura fa passi indietro, non è legittimo neppure parlare di costruzione del socialismo. (…) non devono essere le esigenze del commercio estero a determinare la politica ma al contrario esse devono essere subordinate a una politica fraterna tra i popoli.[29]

 Tanto più il Che scrive questo spartito, tanto più realizza di doverne suonare le note in prima persona. La sua lotta politica a Cuba è arrivata ad un punto morto. Come tutta la direzione cubana, è giunto a un bivio: adattarsi alla politica di Mosca, pur con riserve e conflitti congiunturali, o rilanciare su scala più ampia l’alternativa. Il Che sceglie quest’ultima via. E lo fa con il linguaggio che sa parlare meglio. Non ritiene di dover, sapere o potere aprire una battaglia politica e teorica aperta. Sa evidentemente che all’interno dello scontro tra Ministri e dirigenti, la sua figura può rapidamente essere logorata e isolata. Per questo la sua alternativa politica si esprime nella ricerca della ripresa del conflitto guerrigliero in America Latina. E l’enfasi su tale ripresa non può che avvenire mettendo in gioco direttamente la propria persona. Il Che decide di trasformarsi in un manifesto vivente, un atto di fede in carne e ossa nel fochismo guerrigliero e nell’internazionalismo. La sua sorte individuale deve quindi essere sganciata dal resto del gruppo dirigente cubano: “Comunque le questioni che il Che aveva sollevato erano un grande punto interrogativo aperto su “tutto il socialismo reale”. Così non gli restava che separarsi da quell’impresa”.[30]

Nell’aprile del 1965 Fidel in occasione del rinnovo del Comitato Centrale del partito annuncia la partenza del Che da Cuba, la sua rinuncia a qualsiasi carica governativa e addirittura alla cittadinanza cubana. Guevara ricomincia da capo: è di nuovo un guerrigliero in clandestinità. Niente di più offensivo che presentare questo come la scelta romantica di un uomo che si annoia a stare dietro la scrivania.

 

Conclusione

La nostra critica al fochismo non è materia di questo testo. Vi abbiamo dedicato un altro contributo. Né torniamo qua sulle condizioni che il Che troverà in Bolivia, dove si recherà per estendere la guerriglia. Basti dire che le divergenze con l’Urss lo inseguiranno fin lì. Basti dire che prima di tutto in Bolivia il Che sarà sconfitto dall’isolamento e dal boicottaggio a cui lo condannerà la direzione del partito comunista boliviano fedele ai dettami di Mosca.

Il Che muore in Bolivia, nel 1967, poco tempo prima del grande risveglio internazionale del 1968 e il grande maggio operaio in Francia del 1969. Quale ruolo avrebbe potuto giocare la sua figura in un simile contesto? Quanto avrebbe pesato l’ondata di lotte operaie nei paesi capitalisticamente avanzati nel modificare alcune delle sue convinzioni teoriche? Si tratta di domande che non hanno risposta e che purtroppo rimarranno per sempre nel campo della fantapolitica.

Il Che è arrivato nel 1968 nelle università italiane, nel 1969 a Parigi e poi è tornato a trovarci nel 1977. Ci ha tenuto compagnia lungo tutti gli anni ’90 quando il crollo dell’Urss ha necessariamente rivalutato una figura “pulita” come la sua. E’ stato in ogni lotta, particolarmente nei cosiddetti paesi coloniali. C’è stato a modo suo, vivendo per sempre come simbolo di un rivoluzionario che ha provato la propria coerenza con la morte.

Mentre era in vita la sua lealtà verso il gruppo dirigente del M267, il rigore morale e militare che aveva imparato sulla Sierra, inibirono in lui l’idea di una lotta politica aperta che potesse spaccare l’unità del partito. Per questo “il guevarismo come espressione radicale della rivoluzione, pagherà cara la sua mancanza di struttura e di organicità come tendenza”.[31] Un limite che risulterà particolarmente pesante durante il dibattito sull’economia e la pianificazione:

Nella direzione cubana, in ultima analisi, è la tendenza alla centralizzazione dell’economia quella che esprime la pressione della base verso una partecipazione diretta nelle decisioni economiche centrali. Ma la esprime indirettamente perchè allo stesso tempo non offre la base per organismi che permettano tale partecipazione. Questo è, nel migliore dei casi, un obiettivo del futuro. (…) E se non è apparsa nella direzione cubana nessuna tendenza – per lo meno in maniera aperta – che difenda l’autogestione [intesa alla jugoslava, quindi con elemento di introduzione del mercato Ndr], non ne è nemmeno apparsa nessuna che tenda a sviluppare da subito quegli organismi che in una democrazia socialista manifestano la volontà della popolazione: soviets, consigli operai, sindacati indipendenti dallo Stato ecc. ecc.[32]

Al netto di qualsiasi errore, divergenze o critica plausibile, rimane un fatto. E questo fatto non può essere eluso. L’icona stampata a milioni su magliette e bandiere, quel volto immortalato da Korda, è di un rivoluzionario che con coerenza provò a costruire il socialismo. E proprio questo tentativo, coerente, onesto, determinato lo portò in contraddizione con la direzione sovietica.

 

Note:

[1] TUTINO Saverio, Guevara al tempo di Guevara, p.75, Editori Riuniti, Roma, 1966,

[2]  FRANQUI, Carlos 1976,Diario de la revolución cubana, p. 362, París: Ruedo Ibérico.

[3] CUSHION, Steve, A Hidden History of Cuban Revolution, p. 36, Monthly Riview Press.

[4] CHE GUEVARA, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, p. 1208

[5] CHE GUEVARA, Ibidem, p. 1209

[6] FRANQUI Carlos, I miei anni, p. 208, citato in MOSCATO Antonio, Il Che inedito.

[7] CUSHION Steve, Ibidem, p. 184

[8] ALEXANDER, Robert J. 2002 p,191, A History of OrganizedLabor in Cuba, estport, CT: Praeger. Citato in “Trotskismo y guevarismo en la revolución cubana”,1959-1967 di Daniel Gaidoy e Constanza Valera

[9] GILLY Adolfo, Cuba: coesistenza o rivoluzione?

[10] MOSCATO Antonio, Il Che Inedito, p. 75

[11] Citato in MOSCATO, Antonio, Il Che inedito, pp. 158-159

[12] Citato da CELIA HART, in MOSCATO, Antonio, Il Che inedito.p. 166

[13] Citato in “Trotskismo y guevarismo en la revolución cubana”,1959-1967 di Daniel Gaidoy e Constanza Valera

[14] ROT, Gabriel 2010, Los orígenes perdidos de la guerrilla en la Argentina: La historia de Jorge Ricardo Masetti y el Ejército Guerrillero del Pueblo, Buenos Aires: Waldhuter. pp.119-120-121

[15] TUTINO, Saverio, Ibidem, p. 47

[16] Citato in MOSCATO ANTONIO, Il Che inedito, p.75

[17] TROTSKY, Lev, La rivoluzione Tradita, p.119, p. 128, Ac Editoriale

[18] CHE GUEVARA, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, p. 619

[19] CHE GUEVARA, Ibidem, p. 706

[20] CHE GUEVARA, Ibidem, p. 712

[21] Citato in “Trotskismo y guevarismo en la revolución cubana”,1959-1967 di Daniel Gaidoy e Constanza Valera

[22] CHE GUEVARA, Ibidem, p. 1213

[23] TROTSKY Lev, Ibidem, p. 90

[24] TROTSKY Lev, Ibidem, p. 138

[25] Citato in “Trotskismo y guevarismo en la revolución cubana”,1959-1967 di Daniel Gaidoy e Constanza Valera

[26] Vedi MOSCATO, Antonio, Il Che inedito, pp. 89-91

[27] CHE GUEVARA, Ibidem, p.1455

[28] Citato in “Trotskismo y guevarismo en la revolución cubana”,1959-1967 di Daniel Gaidoy e Constanza Valera

[29] CHE GUEVARA, Ibidem, pp.1422-1423

[30] TUTINO SAVERIO, Ibidem, p. 74

[31] Citato in “Trotskismo y guevarismo en la revolución cubana”,1959-1967 di Daniel Gaidoy e Constanza Valera

[32] GILLY Adolfo, Cuba: coexistencia o revolucion, p. 18, http://biblioteca.clacso.edu.ar/clacso/osal/20110418065300/07gilly.pdf