Nel bel mezzo dei combattimenti di giovedì 25, Nagy comparve di nuovo al microfono di Radio Budapest: “Quale Presidente del Consiglio dei Ministri, do l’annuncio che il Governo Ungherese sta aprendo i negoziati sui rapporti tra le Repubblica Popolare Ungherese e l’Unione Sovietica, riguardanti, tra le altre cose, il ritiro delle truppe sovietiche dislocate in Ungheria… Sono convinto che le relazioni Ungheresi-Sovietiche su questa base forniranno il solido fondamento per una sincera e leale amicizia tra i nostri popoli”.
Nel frattempo per le strade di Budapest la battaglia infuriava più aspra che mai. E man mano che essa cresceva, si sviluppa lo sciopero generale. Lo sciopero iniziò la mattina di mercoledì 24. Si allargò rapidamente a tutti i suburbi industriali di Budapest – Czepel, Rada Utca, Ganz, Lunz, Stella Rossa e quindi ai centri industriali del paese – Miskolc, Györ, Szolnok, Pecs, Debrecen. A Budapest era insorta quasi l’intera popolazione. Nelle aree industriali la rivoluzione fu portata avanti esclusivamente dagli operai. I lavoratori formarono ovunque dei ‘consigli’: nelle fabbriche, nelle fonderie, nelle centrali elettriche, nelle miniere di carbone, nei depositi ferroviari. Dovunque definirono i loro programmi e le loro rivendicazioni. Dovunque si armarono. In alcuni posti combatterono.
Commenta Hubert Ripka che, nel corso della battaglia, i lavoratori proclamarono “un programma: di radicale trasformazione sociale e politica. Questo fu uno sviluppo spontaneo. Non vi erano state direttive governative, nè una dirigenza politica centralizzata… I Consigli Operai rilevarono la gestione delle fabbriche… In Ungheria essi furono generati da un movimento spontaneo, e presto divennero gli organi vitali di una democrazia emergente e gli strumenti effettivi di una rivoluzione combattente” (Hubert Ripka, Eastern Europe in the Post War World). I notiziari trasmessi da Radio Budapest si riferivano allo sciopero generale ed alla costituzione dei consigli operai come: “disordini industriali”. Si faceva continuamente riferimento a: “manifestazioni pubbliche” nei centri e nelle cittadine delle varie aree industriali. A ciò seguivano ripetuti annunci che nel tale centro era ritornata la “calma” e che perciò i lavoratori dovevano tornare al “normale lavoro” la mattina successiva.
Ma nelle province i lavoratori si erano impossessati di molte stazioni radio, e da queste si diffondevano notizie diverse. Vi erano ora centinaia di Consigli Operai in tutto il paese. Il numero di persone aderenti ai Consigli variava considerevolmente. E così anche i loro programmi. Ma tutti rivendicavano l’abolizione dell’AVO, il completo ritiro delle truppe russe, le libertà civili e politiche, la gestione operaia delle fabbriche e delle industrie, dei sindacati indipendenti, la libertà per tutti i partiti politici ed una amnistia generale per tutti gli insorti. I diversi programmi chiedevano anche adeguamenti dei salari e delle pensioni, ma in nessun posto queste rivendicazioni erano le prime della lista. Molti chiedevano una “democrazia parlamentare”. Alcuni esprimevano la loro fiducia in Nagy. Prima che i ‘socialisti rivoluzionari’ si riparino con le mani in un gesto di orrore puritano, ricorderò loro che in rapporto alle condizioni sociali, politiche ed economiche prevalenti in Ungheria prima dell’ottobre 1956, persino un programma liberale sarebbe sembrato rivoluzionario. In tali condizioni, anche degli slogans fondamentalmente democraticisti avevano un effetto esplosivo. Erano un grande passo in avanti e ne risultò il crollo dell’apparato totalitario statale. Queste rivendicazioni non erano mai riuscite a svilupparsi sotto il regime di Horthy. Gli ungheresi voltarono le spalle sia alla dittatura feudale-capitalista, sia agli stalinisti. I lavoratori non erano accecati dall’ideologia borghese: mentre sostenevano ampie rivendicazioni democratiche, combattevano anche per le proprie rivendicazioni. I lavoratori non volevano più delle elezioni nelle quali il partito comunista poteva imporre un’unica lista dei candidati e nelle quali i risultati erano decisi in anticipo. Volevano scegliere da sé i propri rappresentanti. Volevano abolire il sistema del partito unico. Avevano visto che il suo risultato era stata la soppressione di tutte le opinioni ed i raggruppamenti che non si conformavano alle vedute diffuse da coloro che controllavano lo Stato. Volevano la libertà di organizzarsi. Non si può dubitare che tale libertà li avrebbe portati a fare delle scelte coscienti tra un quantità di partiti e gruppi rivoluzionari, ed a scartare tanto i parti borghesi che quelli burocratici, che avrebbero potuto minacciare la loro libertà. Le loro reazioni erano fondamentalmente equilibrate. Persino la rivendicazione della libertà di stampa tendeva alla distruzione degli organi asserviti allo Stato.
Una rivoluzione non è mai ‘pura’. Si manifestano in essa diverse tendenze. La grande rivoluzione del 1917 non era pura, al fianco degli operai e dei contadini poveri combatterono alcuni settori della piccola borghesia… e persino alcuni elementi animati da indignazione per l’incapacità del loro zar di dar guerra efficacemente alla Germania.
Quando scoppierà la rivoluzione nelle cosiddette Democrazie Popolari o nell’URSS le forze in azione saranno particolarmente complesse. Il totalitarismo dà vita ad un sentimento universale di rivolta. La maggioranza della popolazione un giorno o l’altro si schiererà contro di esso, legata inizialmente da un obiettivo comune: la libertà. Dopo questo primo stadio, alcuni vorranno indubbiamente riesumare la religione dei propri antenati, i costumi nazionali arcaici, i piccoli profitti e privilegi privati di una volta. Altri desidereranno un radicale cambiamento sociale e vorranno realizzare la società decantata dai loro governanti (mentre si occupavano di distruggere ogni tentativo di realizzarla). I bottegai ringrazieranno dio per le tasse più basse, e potrebbero anche provare ad alzare i prezzi. Ma nel frattempo i lavoratori formeranno i propri Consigli e rileveranno le fabbriche. Il livello di consapevolezza politica raggiunto dagli ungheresi era veramente stupefacente. Per dodici anni la propaganda aveva usato ogni mezzo per imbottire loro la testa con i miti ed i dogmi dell’infallibilità del partito, del suo diritto a dominare ‘in nome della classe lavoratrice’. Ma i lavoratori sapevano di essere rimasti una classe sottomessa. Essi erano rimasti i semplici esecutori delle decisioni egoistiche prese dalla gerarchia manageriale e burocratica. Le parole più ‘rivoluzionarie’ non potevano sostituirsi alla realtà della loro esperienza quotidiana, e nella produzione, e nella società in genere. La realtà, per quanto offuscata dall’incessante propaganda, conservò inalterato il loro istinto di classe.
Giovedì i Consigli avevano iniziato a collegarsi. Nelle città i Consigli centrali (di solito definiti semplicemente ‘Consigli Rivoluzionari’) erano composti dai delegati di tutti i consigli della zona. Alcuni di questi Consigli Rivoluzionari comprendevano rappresentanti dei colletti bianchi, dei contadini locali e dell’esercito. I contadini approvvigionavano volentieri i ribelli. In alcune aree geografiche, nonostante il loro preteso conservatorismo intrinseco, i contadini formarono i propri consigli, come ad esempio quello della grande fattoria di stato a Babolna.
Dal pomeriggio di giovedì 25, mentre Nagy e Kadar promettevano di negoziare per il ritiro dei russi, era divenuto chiaro che nulla avrebbe potuto fermare lo sviluppo dei Consigli e dello Sciopero Generale. Da quel pomeriggio i Consigli costituivano l’unico potere reale nel paese, ad eccezione dell’ Armata Rossa. Nel frattempo, Radio Budapest proclamava paternalisticamente: “Il governo sa che i ribelli sono abbastanza sinceri”.
Giovedì 25 ottobre segnò anche una svolta: sembrava che il governo fosse accondiscendente. Ora sembrava che il Primo Ministro Nagy si rendesse conto della forza del movimento in tutto il paese. Il giorno precedente si era appellato solo al ‘Popolo di Budapest’. In quel momento i Consigli Rivoluzionari si erano già formati in tutte le principali città. Il Consiglio Rivoluzionario di Miskolc, ad esempio, era stato eletto sin dalle prime ore di mercoledì da tutti i lavoratori delle fabbriche della zona. Esso organizzò immediatamente uno sciopero in tutti i settori, escludendo solo i servizi pubblici (trasporti, energia elettrica ed ospedali). Una delegazione fu mandata nella capitale per coordinare le attività con il Consiglio di Budapest, e lì presentare le proposte del programma del Consiglio di Miskolc. Queste proposte erano simili a quelle già menzionate. Di esse era stata informata l’intera Ungheria giovedì 25, quando i rivoluzionari avevano assunto il controllo della Radio di Miskolc.
Il Consiglio di Miskolc non era contrario a Nagy. Lo proponeva persino come Primo Ministro di un nuovo governo. Ma ciò non impediva ad esso di fare il contrario di ciò che voleva Nagy. Quando questi implorò gli insorti di deporre le armi e tornare al lavoro, il Consiglio di Miskolc formò le milizie operaie, continuò ed estese lo sciopero, organizzandosi come un governo locale indipendente dal potere centrale… Sarebbe stato pronto a sostenere Nagy se soltanto egli avesse attuato un programma rivoluzionario. Perciò, quando Nagy inserì nel governo dei rappresentanti del Partito dei Piccoli Proprietari (Zoltan, Tildy e Bela Kovacs) il Consiglio reagì con veemenza. In un commento straordinario, trasmesso alle 21.30 di sabato 27, il Consiglio dichiarava di avere “preso il potere in tutta la regione di Borsod. E che condanna severamente tutti coloro che definiscono la battaglia una lotta contro la volontà ed il potere popolare. Riponiamo fiducia in Imre Nagy, ma non approviamo la composizione del suo governo. Tutti quei politicanti che si sono venduti all’Unione Sovietica non devono trovare posto nel governo”.
“Anche quest’ultima dichiarazione pone l’attività del Consiglio nella giusta prospettiva. Esso agì come un governo autonomo. Dal giorno che prese il potere nella regione di Borsod, dissolse le organizzazioni che erano i capisaldi del precedente regime, ovvero tutte le organizzazioni del partito comunista. Queste misure furono annunciate la mattina di domenica 28 ottobre. Annunciava anche che i contadini della regione avevano rimosso i responsabili dei kolkhoz ed iniziato a ridistribuire le terre. A Györ, a Pecs, e nella maggior parte delle altre grandi città la situazione era simile a quella di Miskolc. Erano i Consigli Operai a dirigere ogni cosa: essi armarono i combattenti, organizzarono gli approvvigionamenti, presentarono le rivendicazioni politiche ed economiche” (da Socialisme ou Barbarie vol. IV n.20).
Ci si può fare un’idea dei Consigli Rivoluzionari osservando quello di Györ. Il suo quartier generale era il Municipio. Quasi a tutte le ore del giorno la piazza antistante era affollata da gruppi di gente profondamente assorbita nella discussione, che alzava spesso la voce. In una rivoluzione dal basso vi sarà sempre un gran parlare, argomentare, schiamazzare, sostenere, avversare, polemizzare, eccitarsi ed agitarsi. Le delegazioni inviate presso altri Consigli che lasciavano il Municipio si incrociavano con le rappresentanze dei vari gruppi e comitati locali. Il frastuono e l’affaccendarsi all’interno del Municipio ricordava il caos apparente di un formicaio disturbato. I fucili e le bandiere portati in spalla si impigliavano. Gente con una fascia al braccio carica di documenti, si faceva strada nei corridoi affollati. Le stanze erano stracolme di gente. Camminando per i corridoi si poteva capire dai suoni provenienti dalle stanze, che questo era veramente un movimento popolare, una pacata voce maschile, l’acuto squillo di un telefono, i toni concitati di una ragazza, clamore, risa, pianti, bestemmie, applausi. Molte rappresentanze chiedevano camion per un grande attacco a Budapest, per allentare la pressione dell’Armata Rossa sui ‘combattenti della libertà’. I membri del Consiglio sostenevano che questo avrebbe pregiudicato il successo della rivoluzione. Tutti i camion che potevano essere racimolati andavano usati per rifornire di cibo la gente di Budapest.
L’immenso numero di persone che si impegnarono a sostenere questa operazione dimostrò che la maggioranza concordava con la decisione del Consiglio. Nel frattempo nella piazza un uomo si rivolgeva alla folla chiedendo la rimozione dal Consiglio degli ‘elementi compromessi’. Portavoce di una rappresentanza che voleva una ‘marcia su Budapest’, stava denunciando quelli del Consiglio che volevano ‘pacificarci invece di mobilitarci’. Ma da questo caos apparente si era tuttavia sviluppato un programma di rivendicazioni che era sostenuto dalla più ampia maggioranza. Dal primo giorno della rivoluzione, un movimento realmente proletario si era espresso con la costituzione spontanea dei Consigli in tutta l’Ungheria. Questi Consigli, pur se parzialmente isolati dall’Armata Rossa, cercarono immediatamente di federarsi. Alla fine della prima settimana avevano praticamente costituito una Repubblica dei Consigli. Solo la loro autorità significava qualcosa. Il governo, indipendentemente dal fatto che Nagy ne era alla guida, non aveva alcuna autorità.
C’è ancora qualcuno che si domanda perchè il Cremlino ed i suoi lacchè ricorsero a tutti i metodi per infangare e screditare questa rivoluzione? La chiamarono “controrivoluzione”, “sollevazione fascista”. C’è ancora qualcuno che si stupisce perchè la stampa ed i ‘leaders’ d’Occidente si servirono della menzogna nei loro sforzi per rappresentare questa Rivoluzione come una semplice sollevazione “nazionalista!? Di aspetti nazionalisti ve ne erano certamente, ma furono estratti dal contesto e furono attribuiti loro un rilievo ed un’importanza che certamente non avevano.
“A parte gli operai, la vera forza sociale nelle province era il proletariato agricolo, i contadini. Le rivendicazioni contadine durante questo periodo potevano anche essere confuse, ma la loro lotta per la divisione della terra aveva un carattere rivoluzionario. Liberarsi dei capi dei kolkhoz (fattorie collettive), aveva per essi lo stesso significato che liberarsi dei grandi latifondisti. Sotto il regime di Horthy, i lavoratori agricoli rappresentavano più del 40% della popolazione. Essi avevano appena assaggiato i benefici della riforma agraria dopo la guerra, quando si videro immediatamente privati dei loro diritti e forzati nelle fattorie collettive. L’odio per i burocrati che gestivano le cooperative e si arricchivano a loro spese andò a sostituirsi, quasi senza alcun trapasso, all’odio che avevano precedentemente provato per i loro sfruttatori ancestrali, l’aristocrazia latifondista.
Dopo il 23 ottobre, in alcuni distretti vi fu una redistribuzione delle terre. In altri continuarono a funzionare le cooperative, ma rilevate dai contadini. Questo indica che i contadini erano coscienti dei vantaggi del lavoro collettivo, nonostante lo sfruttamento subito sotto il regime di Rakosi. Sebbene molti contadini erano disposti a concedere la propria fiducia a rappresentanti di partiti come quello dei Piccoli Proprietari (che rifletteva ed esprimeva le loro tradizioni religiose e familiari), essi restavano nondimeno membri di una classe sfruttata. E dimostrarono di essere pronti a unirsi alla classe operaia nella sua lotta per gli obiettivi socialisti.
In questo contesto, il programma del Comitato Esecutivo Municipale di Magyarovar (una struttura ovviamente diretta da elementi contadini) va citato. Rivendicava libere elezioni sotto il controllo delle Nazioni Unite, l’immediata reintegrazione dell’organizzazione di mestiere dei contadini, ed il libero esercizio del loro mestiere come piccoli artigiani e rivenditori. Il programma proseguiva con tutta una serie di rivendicazioni democratico-borghesi. Ma al contempo rivendicava “la soppressione di tutte le discriminazioni di classe” (punto 13). Ciò dimostra sicuramente che nell’ambiente contadino coesistono sempre elementi sia conservatori che rivoluzionari. E questo era stato dimostrato dalla stessa Rivoluzione Russa, una quarantina d’anni prima. Mentre l’idea delle fattorie collettive può essere profondamente socialista, la proprietà collettiva ha un contenuto socialista solo a condizione che si sia giunti all’associazione tra contadini spontaneamente. Se invece, come nel caso della situazione anteriore al 23 ottobre, i lavoratori agricoli sono costretti nelle collettività, se non decidono del proprio lavoro in comune, ma devono solo eseguire gli ordini di funzionari che non lavorano, se il loro livello di vita non migliora, se il divario tra le loro entrate e quelle della burocrazia è grande e tende ad ampliarsi, allora queste collettivizzazioni non hanno nulla a che spartire con il socialismo. Possono invece dimostrarsi gli strumenti di una forma di sfruttamento razionalizzata ed intensificata.