Dalla primavera del 1956, in parallelo al rapido crescere della tensione in Polonia, si ebbe un analogo sviluppo in Ungheria. La sconfessione di Stalin al XX Congresso, nel febbraio 1956, diede ulteriore impeto alle tendenze rivoluzionarie in Ungheria. Le quali di già affioranti nell’ottobre 1955 si fecero ora più allo scoperto. Nell’aprile 1956, fu costituito dai Giovani Comunisti, essenzialmente studenti, il Circolo Petöfi. Assistito dal Sindacato degli Scrittori, presto divenne un importante ed efficiente centro di diffusione di opinioni, critiche e proteste riguardanti il deplorevole stato della società ungherese. Si costituirono molti altri gruppi, ma il Circolo Petöfi rimase il più importante,(dibattiti simili avevano avuto luogo in Russia, prima del 1917). In questo periodo furono prodotti e distribuiti molti opuscoli, soprattutto a Budapest. Si dice che venne usata una macchina da riproduzione della Sede Centrale del Partito a Budapest. Ciò non sarebbe stato possibile senza l’acquiescenza di alcuni membri del governo. A causa dei razionamenti, c’erano dei problemi per la stampa. Si racconta che uno degli opuscoli venne stampato su carta igienica. In principio, gli argomenti principali di questi opuscoli concernevano puramente delle rivendicazioni per una maggiore libertà letteraria. Ma le implicazioni politiche erano chiare. In seguito gli scrittori, tutti comunisti, rivendicarono che l’Ungheria dovesse seguire la propria via al comunismo. Con ciò indicavano chiaramente che la strada fino all’allora seguita era sbagliata e che era necessaria una maggiore indipendenza dall’URSS.
Temi simili venivano ora discussi alle riunioni del Circolo Petöfi, che diventavano sempre più lunghe. Il governo di Rakosi bandi a quel punto le riunioni. Questo fece peggiorare le cose. Il bando fu ritirato in fretta. Lo scrittore comunista Gyula Hay fece entrare la discussione in una fase più avanzata. In un articolo sulla Irodalmi Ujsag (Gazzetta Letteraria) attaccò aspramente le interferenze della burocrazia nella libertà degli scrittori. Presto le riunioni del Circolo Petöfi giunsero ad attirare migliaia di persone. In questi incontri, già unanimi nelle loro rivendicazioni di libertà intellettuale e di verità, iniziarono a farsi strada voci che chiedevano apertamente la libertà politica. Una di queste riunioni fu memorabile per il discorso appassionato tenuto da Julia Rajk, vedova di Laszlo Rajk, che era stato giustiziato come ‘fascista titoista`, nell’ottobre 1949. A questa riunione parteciparono diverse migliaia di persone. La folla straripò nelle strade, dove gli interventi venivano ripetuti da megafoni. La Signora Rajk chiese giustizia per la memoria di suo marito, nonchè una posizione onorevole nella storia del Partito. Criticò severamente il modo sbrigativo con il quale, qualche mese prima, era stato ‘riabilitato’ suo marito. Durante un discorso a Eger, il 27 marzo 1956, Rakosi aveva incidentalmente affermato che il Partito aveva approvato una risoluzione con la quale venivano riabilitati Laszlo Rajk ed altri, e che ciò era stato ratificato ufficialmente dalla Corte Suprema. In tono distaccato, Rakosi aveva aggiunto che l’intero processo a Rajk era stato fondato su una provocazione. “E’ stato un inconveniente giudiziario”, aveva detto. ]ulia Rajk chiese allora che fossero puniti i colpevoli del suo assassinio. Questo elettrizzò i convenuti. Sebbene Rakosi non fosse stato menzionato, tutti i presenti sapevano perfettamente a chi si riferiva ]ulia Rajk.
Nel giugno 1956, il fermento intellettuale era in pieno corso. Gli articoli sulla Irodalmi Ujsag diventavano sempre più apertamente critici nei confronti del regime. Sebbene verso l’inizio dell’anno ne fosse stato sequestrato un numero, la gente ora era abbastanza sorpresa che la ‘dirigenza’ non lo sopprimesse del tutto. Come si desumeva dai titoli, il giornale si rivolgeva principalmente a persone con interessi letterari. Ma la sua popolarità era molto più estesa. Copie sparse si potevano vedere nelle mani di operai e nelle officine. In effetti, la richiesta di alcuni numeri superò di gran lunga la tiratura, tanto che fiori un ‘mercato nero’. Si vendeva a 60 fiorini la copia (per un raffronto il salario medio di quel periodo era di l.000 fiorini).
Gli articoli di Gyula Hay fanno supporre che egli fosse il fulcro di una campagna per la libertà di espressione nella stampa. In giugno si riferì varie volte ad essa come ‘la rivolta degli scrittori’. La burocrazia affrontò con riluttanza la situazione. Infatti, il numero del 28 giugno del Szabad Nep sorprese molti dei suoi lettori dando il benvenuto a quest’uso dell’intelletto umano fino ad allora scoraggiato. La Pravda reagì subito a questa mossa. Denunciò aspramente gli scrittori ungheresi. Il 30 giugno il Comitato Centrale richiamò lo Szabad Nep alla linea del Partito, con una risoluzione che condannava il ‘comportamento demagogico’ e le ‘opinioni contrarie al Partito’ di ‘elementi vacillanti’. Accusò gli scrittori di ‘cercare di seminare confusione’ con il ‘contenuto provocatorio’ dei loro articoli. Per una volta una parte dello stereotipato gergo di Partito era decisamente appropriato. Era questa, infatti, la precisa intenzioni degli scrittori rivoluzionari: provocare pensiero idee e discussioni sulle condizioni esistenti in Ungheria. La risoluzione del Comitato Centrale fu approvata e diffusa precipitosamente, esattamente nel momento in cui le notizie della rivolta dei lavoratori di Poznan raggiungevano i circoli intellettuali in Ungheria e li ispiravano ad intensificare la propria campagna.
Il senso di colpa tra gli intellettuali comunisti onesti – membri di lunga data – divenne evidente. La loro coscienza non permetteva più di colmare l’abisso tra il mito e la realtà. Ad una affollata riunione del 27 giugno al Circolo Petöfi, il romanziere Tibor Dery si era chiesto perchè si trovassero in una crisi simile. “Non c’è libertà” disse, “spero che non vi sarà più il terrore poliziesco. Sono ottimista. Spero che saremo capaci di liberarci dei nostri attuali dirigenti. Teniamo presente che ci è concesso di discutere queste cose solo con il permesso dall’alto. Pensano che sia una buona idea lasciare sfogare un pò di vapore da un bollitore surriscaldato. Ma noi vogliamo dei fatti e vogliamo l`opportunità di parlare liberamente”.
Ai primi di luglio gli articoli della Irodalmi Ujsag presero a chiedere le dimissioni di Rakosi. La stessa richiesta veniva apertamente fatta alle riunioni del Circolo Petöfi. Venne persino suggerito da alcuni oratori che Imre Nagy fosse riammesso nel Partito, sebbene il nome di Nagy venisse menzionato solo casualmente, quasi con circospezione. Rakosi, che era a Mosca, tornò improvvisamente a Budapest. Cercò di reprimere questo movimento eretico. Conosceva solo un modo per farlo: una purga. Fu stilata una lista di nomi preminenti tra i politici e gli scrittori. Ma prima che la fase iniziale (gli arresti) potesse essere condotta a termine, Suslov, il Ministro russo per gli Affari delle Democrazie Popolari, arrivò inaspettatamente a Budapest e fu seguito immediatamente da Mikoyan. Dissero a Rakosi che il suo piano avrebbe attizzato il fuoco di una situazione già esplosiva. Il Cremlino aveva deciso che Rakosi se ne doveva andare. La crisi che covava in Ungheria non era il solo motivo per la decisione del Cremlino. Tito odiava Rakosi. Si era agitato un pò affinchè fosse rimosso. Tito rifiutava di incontrare Rakosi, o anche solo di visitare il paese nel quale egli era al potere. ll riavvicinamento Russo-Yugoslavo influenzò la decisione di liberarsi di Rakosi. Questo, ispirato dal Cremlino, era chiaramente un compromesso. Poiché Ernö Gerö, amico stretto e collaboratore di Rakosi, gli sarebbe succeduto come Segretario Generale del Partito. E ad eccezione del Generale Farkas, che fu espulso dal Partito, la maggior parte dei seguaci di Rakosi conservarono le proprie posizioni. Gli ungheresi seppero delle dimissioni di Rakosi il 18 luglio. E seppero anche che Janos Kadar, il socialdemocratico György Marosan, recentemente riabilitato, erano stati nominati membri dell’Ufficio Politico. Queste erano le prime di una serie di piccole concessioni che seguirono nel mese di agosto. In quella situazione tumultuosa, queste concessioni si dimostrarono insignificanti e completamente inadeguate. Le sofferenze della classe lavoratrice erano state troppo lunghe e troppo grandi perchè essa potesse nutrire qualche illusione nei cambiamenti nella dirigenza o perchè potesse essere ripagata da qualche spicciolo in più nella busta paga. Durante le lunghe giornate estive il dibattito si fece più acceso. Mentre le lucciole danzavano animatamente tra gli alberi della campagna, affascinanti idee di libertà volteggiavano sopra le riunioni delle città. La tensione si mescolò stranamente con un sentimento di vacanza. L’intero mese fu come una pigra serata d’estate: con il sole ancora misteriosamente rosseggiante attraverso le oscure nubi purpuree di una minacciosa tempesta. Anche gli oggetti familiari sembravano al di fuori della prospettiva e prendevano forme e colori differenti. Nei locali privati, come nei luoghi di pubblica riunione, pervadeva l’aria una sensazione di predestinato, che non prometteva nulla di buono. Gli intellettuali sembrarono intuire il ‘pericolo’ implicito nelle loro idee. Tuttavia, si sentivano obbligati ad andare avanti, fin dove li avrebbe potuti condurre la libertà di espressione.
Durante tutto questo periodo di pressione, non abbiamo trovato la minima prova di alcun tentativo cosciente fatto dagli intellettuali per cooperare con i lavoratori dell’industria su vasta scala, per condividere con essi l’esperienza di questo risveglio culturale e politico, e per dimostrare così che le lotte dei lavoratori erano legate alle rivendicazioni articolate di libertà, verità, ecc. Nondimeno, il Circolo Petöfi era divenuto, sebbene inconsapevolmente, la voce articolata dei lavoratori ungheresi. Può ben essere che se vi fosse stata una tale cooperazione i dirigenti del Partito si sarebbero mossi, prima di quanto fecero, per reprimere il movimento. Ma lo avrebbero dovuto fare a fronte di una solidarietà ancora più forte di quella che si sarebbe sviluppata al culmine della rivoluzione. In ogni caso, il grado di cooperazione, collegamento e solidarietà tra i lavoratori e gli intellettuali era sensibilmente elevato. Ma una più stretta cooperazione con i lavoratori sin dall’inizio, avrebbe sicuramente allargato le basi del movimento. L’atteggiamento più pratico e radicale dei lavoratori avrebbe perlomeno sgombrato il campo di qualcuna delle paralizzanti illusioni conservate da molti intellettuali, ad esempio il loro grande entusiasmo per un governo presieduto da Nagy, per gli appelli ai dirigenti occidentali, all’ONU, ecc.
Fu un veterano degli scrittori comunisti, Gyula Hay , a riportare la caldaia in ebollizione con un articolo sul numero dell’8 settembre della Irodalmi Ujsag. Domandava poeticamente ‘libertà assoluta e sbrigliata’ per gli scrittori. L’articolo affermava che: “la prerogativa dello scrittore dovrebbe essere quella di dire la verità; di criticare chiunque e qualsiasi cosa; di essere triste; di essere innamorato; di pensare alla morte; di non dover programmare che la luce e l’ombra si bilancino nella propria opera; di credere nell’onnipotenza di Dio; di negare l’esistenza di Dio; di dubitare dell’esattezza di certe cifre del Piano Quinquennale; di pensare in modo non marxista anche quando il pensiero cosi generato non sia ancora acquisito tra le verità alle quali è attribuita forza vincolante; di considerare basso anche il tenore di vita di quelle persone il cui salario non figura ancora tra quelli da aumentare; di credere ingiusto qualcosa che ufficialmente è ancora considerato giusto; di non gradire certi dirigenti; di descrivere i problemi senza dover concludere con il come possano essere risolti; di considerare orribile il New York Palais, dichiarato monumento storico, nonostante il fatto che di recente siano stati spesi milioni per la sua ricostruzione; di notare che la città sta cadendo in rovina perchè mancano i fondi per riparare gli edifici; di criticare il modo di vita, il modo di parlare ed il modo di lavorare di certi dirigenti;… di amare Sztalinvaros; di non amare Sztalinvaros; di scrivere in stile inusuale; di opporsi alla drammaturgia aristotelica…ecc., ecc… Chi negherebbe che sino a poco tempo fa molte di queste cose erano strettamente proibite ed avrebbero comportato una punizione… ma ancora oggi esse sono appena tollerate e non veramente permesse”.
Circa una settimana dopo la pubblicazione dell’articolo di Hay, si aprì a Budapest il congresso del Sindacato Scrittori. La profondità della rivolta si rivelò nelle elezioni del nuovo Presidium. Tutti coloro che avevano appoggiato il regime di Rakosi, sia pure passivamente, ne furono estromessi. Furono eletti degli scrittori comunisti ‘ribelli’; o dei non comunisti. Tutti gli interessati criticarono aspramente il ‘regime della tirannia’. Fu rivendicata la riabilitazione di Nagy. Gyula Hay ammise che gli scrittori comunisti “essendosi sottomessi alla dirigenza spirituale della Segreteria del Partito, si erano smarriti per la strada della menzogna”.
Aggiunse che gli scrittori più onesti si erano trovati in un angoscioso dilemma ed “avevano sofferto terribilmente in questa atmosfera di menzogna…e pagato a caro prezzo questa menzogna… con lo scadimento del livello del nostro lavoro…”. Il poeta Konya riprese il tema con un appassionato discorso sullo scrivere solo la verità. Egli concluse con una domanda retorica: “Nel nome di quale moralità i comunisti si ritengono giustificati a commettere atti di arbitrio contro i loro precedenti alleati, ad inscenare processi per stregoneria, a perseguitare gente innocente, a trattare dei genuini rivoluzionari come se fossero dei traditori, a segregarli e ad ucciderli? Nel nome di quale moralità?”. Quindi gli intellettuali denunciarono la loro crisi di coscienza. In ogni caso questa risoluta ricerca della verità, che per alcuni costituiva un vero e proprio misticismo, contribuì a dare agli enti che seguirono un motivo essenziale di morale socialista.