Il capitalismo si è trasformato in un sistema mondiale di oppressione coloniale e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi “progrediti”.

Lenin, L’imperialismo, prefazione alle edizioni francese e tedesca, 1920

 

Imperialismo. Una parola che di recente è tornata a risuonare tra le righe della stampa borghese, forse a seguito degli avvenimenti bellici che scuotono dalle fondamenta la baldanzosa certezza dei mercati, o più semplicemente in un tentativo di riappropriazione culturale, linguistica, che permetta di spiegare la profondità della crisi che è propria dei nostri tempi.

Imperialismo. Per avere un’idea della centralità di questa parola nel bagaglio politico di un marxista, vi basterebbe dare un’occhiata alle copie del testo di Lenin studiate negli anni dai compagni di questo collettivo: logore, fitte di sottolineature e appunti, testimoni di un approccio alla materia in costante maturazione, ricorrente, necessario. Siamo sicuri che anche l’edizione che campeggia nella vostra libreria, se ne possedete una, abbia lo stesso aspetto vissuto.

L’Imperialismo – fase suprema del capitalismo di Lenin. Quei caratteri fondamentali della vita economica e politica delle maggiori potenze capitaliste del mondo, tratteggiati più di 100 anni fa, sono ancora oggi perfettamente validi. Lenin scrive questo testo in piena Prima guerra mondiale, mentre il mondo è attraversato da feroci lacerazioni, così come lo è il movimento operaio. L’autore ritiene che questa analisi sia fondamentale per comprendere la situazione politica e lo scoppio della guerra stessa, la crisi verticale sia del capitalismo, sia della socialdemocrazia e del movimento operaio. E non ci troviamo, ancora oggi, di fronte a guerre, recessioni sempre più profonde, crisi dei mercati finanziari, peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori di tutto il mondo e, in molti casi, arretramento su posizioni sempre più difensive, sempre meno combattive, delle organizzazioni della classe? Se pensate, come noi, che la risposta sia sì, vi invitiamo a rispolverare – o scoprire per la prima volta – quel che Lenin ha da dirci in proposito, e lo facciamo indirizzandovi senza dubbio al testo originale, ma anche fornendovi questo breve spaccato introduttivo, che possa essere di aiuto nell’orientamento di un testo tanto fitto quanto imprescindibile.

Buona lettura a tutti voi.

 

Una visione lucidamente critica

Chi Legge Lenin conosce il suo linguaggio sferzante, la sua attitudine alla polemica più aspra. Eppure, quest’ultima non viene mai per caso, nemmeno all’interno di un testo che dovette superare diversi livelli di censura borghese. Nell’Imperialismo, troverete un Lenin che si scaglia principalmente contro la II Internazionale, Kautsky e il socialriformismo borghese. Vediamo insieme perché.

Allo scoppiare della guerra nel 1914, nonostante il Manifesto di Basilea firmato nel 1912 la condannasse come guerra imperialista, ogni partito socialista che aderiva alla II Internazionale finì per solidarizzare con le posizioni della propria borghesia nazionale. Invece che prendere le dovute distanze dal conflitto bellico, che avrebbe avuto una ricaduta catastrofica sui lavoratori a livello mondiale, queste organizzazioni ritennero necessario difendere l’orticello nazionale dagli attacchi esterni. Capiamo bene perché una posizione interventista, portata avanti dalle stesse strutture che avrebbero dovuto difendere gli interessi della classe lavoratrice e lavorare per il rovesciamento degli stati borghesi a favore di governi operai, possa aver scatenato l’ira di Lenin. Il momento storico è particolarmente caldo, significativo per il destino di milioni di persone nel mondo: la polemica non è certo sterile accademia.

L’altro aspetto a cui Lenin presta particolare attenzione, come dicevamo, è quello delle posizioni di Kautsky e del social-riformismo borghese, i quali concepiscono l’imperialismo come una specifica scelta politica del capitalismo, e non un suo inevitabile sviluppo, e auspicano un “ritorno” alla più democratica e giusta libera concorrenza, senza la sfrenata corsa alle annessioni e alla spartizione mondiale. Kautsky arriverà addirittura a teorizzare il “superimperialismo”, fase durante la quale le maggiori potenze sulla faccia della Terra avrebbero raggiunto un equilibrio duraturo, garantito da un unico mercato capitalista globale. Una fase in cui avrebbero regnato pace e prosperità. Sembra quasi di sentirla, questa vocina petulante che prega la borghesia capitalista di comportarsi meglio, di contravvenire alla propria natura e andare d’accordo, accontentandosi di un livello di espansione dei mercati compatibile con la convivenza. Anche in questo caso, come avrete capito, la veemenza di Lenin non ci stupisce.

Questi due elementi sono tutt’altro che scollegati tra loro. Se il capitalismo fosse in grado di “governare” la propria inevitabile fame di mercato, la propria necessaria espansione imperialista, e modellarsi – come auspicato da Kautsky – su una equa distribuzione delle sfere di influenza, o addirittura giungere a un tale livello di concentrazione dei capitali da non poter più entrare in conflitto se non con sé stesso, non vi sarebbe necessità alcuna di ricorrere allo strumento della guerra da parte della borghesia mondiale.

Prendiamo in prestito alcune parole da testo di Lenin:

“Alcuni scrittori borghesi (a cui si è unito K. Kautsky che ha completamente tradita la propria posizione marxista del 1909, per esempio) sostengono che i cartelli internazionali, poiché sono la manifestazione più evidente dell’internazionalizzazione del capitale, possono dare speranza di pace tra i popoli in regime capitalista. Quest’opinione teoricamente è un assurdo, e praticamente un sofisma, una disonesta difesa del peggiore opportunismo. I cartelli internazionali mostrano sino a qual punto si siano sviluppati i monopoli capitalistici, e quale sia il motivo della lotta tra i complessi capitalistici. Quest’ultima circostanza è particolarmente importante, giacché essa soltanto ci illumina sul vero senso storico-economico degli avvenimenti. Infatti può mutare, e di fatto muta continuamente, la forma della lotta, a seconda delle differenti condizioni parziali e temporanee; ma finché esistono classi non muta mai assolutamente la sostanza della lotta, il suo contenuto di classe.”

Ecco perché ci sembra importante sottolineare, in questo articolo, una contraddizione così evidente agli occhi di Lenin: ancora oggi facciamo i conti con un riformismo che si appella agli industriali e ai loro governi per ottenere una sorta di mitigazione delle conseguenze più aspre del capitalismo, come se queste fossero il frutto di una cattiva volontà (una “speciale malvagità”, come la definisce Lenin, che pure, non nascondiamocelo, esiste) e non di un meccanismo di base del capitalismo stesso.

 

La produzione dal capitalismo all’imperialismo

Quando Lenin stende il testo, il capitalismo è giunto a una fase di crisi dopo un periodo di fortissima espansione, con una crescita dell’industria, in particolare, e un avanzamento tecnologico senza precedenti iniziati alla fine dell’800. L’analista borghese – ancora oggi spiazzato di fronte a crisi che si presentano con ineluttabile periodicità e per periodi di tempo sempre più lunghi – non riesce a cogliere, alla base di questi periodi di recessione, il funzionamento stesso del capitalismo nella sua fase imperialista. Lenin sì, ci riesce, e ce lo spiega soffermandosi innanzitutto su quelle che sono le caratteristiche dominanti della fase imperialistica del capitalismo mondiale: la tendenza alla centralizzazione e al monopolio, il ruolo determinante delle banche, del sistema creditizio e del capitale finanziario, l’esportazione di capitali all’estero come risposta alla caduta del saggio di profitto in patria e la spartizione del mondo in sfere di influenza. Vediamo queste caratteristiche un po’ più nel dettaglio.

Lenin ci fornisce una serie di dati statistici che dimostrano come, già all’epoca, quasi la metà della produzione di tutte le imprese statunitensi fosse nelle mani di una centesima parte del numero totale delle aziende. Nel definire l’imperialismo una fase del capitalismo, identifica tre momenti chiave:

  1. la seconda metà dell’800 (1860-1870), apogeo della libera concorrenza, in un cui i monopoli non sono ancora sviluppati;
  2. la crisi del 1873, che vede il primo ampio sviluppo dei cartelli e dei trust, anche se non ancora stabili, che naturalmente approfittano della crisi per spazzare via la piccola concorrenza e inglobarla;
  3. la crisi del 1900-1903, che vede il più ampio sviluppo del monopolio e l’affermarsi sostanziale dell’imperialismo;

Il capitalismo diventa imperialismo solo a un determinato grado del proprio sviluppo, e cioè quando l’ampiezza dei capitali, concentrata in poche aziende, è tale da determinare la cancellazione della libera concorrenza e la formazione di monopoli attraverso trust, cartelli, sindacati industriali, associazioni, società per azioni. Cosa fanno queste formazioni? Si mettono d’accordo su prezzi, condizioni di vendita, spartizione dei mercati, quantità di merci da produrre, profitti da ripartire alle singole imprese. I trust si distinguono dalla concorrenza per superiorità tecnica, grandezza, immissione di capitali. Acquistano tutti i brevetti e li tolgono dal libero mercato. Ne risulta una “socializzazione” della produzione, ma nel senso che queste formazioni si associano per togliere di mezzo la libera concorrenza che era propria della fase precedente del capitalismo. L’appropriazione dei profitti rimane naturalmente privata, i mezzi di produzione rimangono nelle mani di pochi grandi imprenditori.

Dal testo di Lenin:

“[…] l’evoluzione del capitalismo è giunta a tal punto che, sebbene la produzione di merci continui come Prima a “dominare” e ad essere considerata come base di tutta l’economia, essa in realtà è già minata e i maggiori Profitti spettano ai “geni” delle manovre finanziarie. Base di tali operazioni e trucchi è la socializzazione della produzione, ma l’immenso progresso compiuto dall’umanità, affaticatasi per giungere a tale socializzazione, torna a vantaggio… degli speculatori.”

Non ci facciamo alcuna illusione, intorno a questo tipo di socializzazione, eppure, il germe di una società che, nei fatti, possa superare le limitazioni della proprietà privata sta proprio lì, e oggi ne vediamo le potenzialità come mai prima d’ora: l’espansione imperialista della produzione, questa sua capacità di attingere alla manodopera più diversa per concentrare i capitali in imprese sempre più grandi, rende paradossalmente la classe lavoratrice sempre più vicina a rendersi autonoma rispetto alla proprietà e allo stato nazionale. In altre parole, più la classe lavoratrice è sfruttata in maniera “estensiva”, in processi complessi, multinazionali, socializzati, per l’appunto, più la sua capacità di presa sui mezzi della produzione può farsi stretta.

I monopoli, in particolare, fanno razzia di territori e materie prime, si accaparrano tecnologie, trasporti, comunicazioni, stipulano clausole di esclusività e abbassano i prezzi per debellare la concorrenza. Lenin si sofferma anche sul fenomeno della concentrazione, cioè l’unione in un’unica impresa di diversi rami industriali, facenti capo a diverse fasi della lavorazione o del trasporto.

 

Banche e capitale finanziario nell’imperialismo

Per quanto riguarda banche e sistema creditizio, Lenin afferma, nel suo testo, che “per l’imperialismo non è caratteristico il capitale industriale, ma quello finanziario”. In questo senso, le banche giocano un ruolo centrale nella fase imperialista del capitalismo. Le banche, in origine, fungono da intermediarie e mettono a profitto il capitale liquido inattivo; durante la fase imperialistica si concentrano anch’esse in senso monopolistico, disponendo di tutti i capitali. Le piccole banche vengono “annesse” in consorzi delle banche più grandi mediante la “partecipazione”, cioè tramite l’acquisto di azioni. Le grandi banche o raggruppamenti di esse non solo dispongono del capitale finanziario dei monopoli industriali, ma ne conoscono l’andamento degli affari e possono dunque influire su di essi, fissandone, tra le altre cose, redditività e credito. Infine, la dipendenza dei grandi monopoli industriali dalle banche si manifesta anche nell’acquisizione di azioni delle prime da parte di queste ultime e nell’ingresso dei direttori di banca nei consigli di amministrazione delle imprese e viceversa.

Per dimostrare l’interferenza del sistema bancario in quello produttivo, Lenin racconta l’esempio di una delle maggiori banche berlinesi, la quale, nel 1901, notificò alla direzione del Sindacato dei Cementi della Germania centro-nord-occidentale che, a fronte di delibere “inaccettabili” da parte del sindacato stesso, veniva revocato il credito all’azienda di riferimento.

Lenin spiega anche come il sistema della partecipazione alle società per azioni sia un inganno che accresce enormemente il potere dei monopolisti. Pensiamo ai moderni sistemi di scatole cinesi, nei quali un singolo azionista possiede una percentuale più o meno rilevante di un’azienda, la quale ne controlla altre decine (moltiplicando così la rendita dell’azionista), ma delle quali non è direttamente responsabile di fronte alla legge.

Il capitale finanziario e l’oligarchia che lo governa, dunque, sono il frutto innanzitutto della concentrazione della produzione e della formazione di monopoli, a cui segue una vera e propria simbiosi delle banche con l’industria monopolistica. I redditi di tale capitale, concentrati in poche mani, si moltiplicano alla fondazione di ogni nuova società, all’emissione di titoli e prestiti statali. Tra le operazioni più redditizie del capitale finanziario troviamo l’emissione di titoli esteri e la speculazione fondiaria ed edilizia in territori in rapido sviluppo.

Abbiamo visto come la concentrazione monopolistica della produzione sia una condizione necessaria per il passaggio alla fase suprema del capitalismo, ovvero l’imperialismo. Prendiamo a prestito una citazione dal testo:

In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria e la selezione di pochi Stati finanziariamente più forti degli altri.”

In questo senso, Lenin sottolinea anche il carattere parassitario dell’imperialismo, e cioè la sua tendenza alla stagnazione. Tolta di mezzo la concorrenza, la necessità di sviluppo tecnico, di accrescimento e miglioramento della produzione vengono meno, a favore della messa a profitto del capitale finanziario. Cresce e si arricchisce quella classe di rentier citata da Lenin che non partecipa in alcun modo alla produzione.

 

Le peculiarità del colonialismo nell’imperialismo

Nel vecchio capitalismo si esportavano merci. Nell’imperialismo, si esportano capitali.

Nei Paesi più ricchi vi è enorme eccedenza di capitale, che naturalmente non viene impiegato per migliorare le condizioni di vita delle masse. Viene, invece, esportato all’estero, verso Paesi più poveri – dove salari bassi, terreni a buon mercato e pochi capitali contro cui concorrere garantiscono maggiori profitti, determinando al tempo stesso una maggiore redditività in patria, dal momento che i capitali che concorrono nel Paese si abbassano.

Lenin distingue tra paesi colonialisti – come l’Inghilterra, che esporta i propri capitali nelle proprie colonie – e paesi come la Francia, che esportano principalmente prestiti in Europa, come veri e propri usurai. In generale, l’esportazione di prestiti prevede sempre un tornaconto per il Paese che esporta – ad esempio, l’acquisto da parte del paese debitore di armamenti.

Le politiche coloniali non sono dunque l’unica opzione per esportare capitali all’estero. È indubbio che, nei Paesi meno progrediti, l’imperialismo avrà maggiori possibilità di manovra anche dal punto di vista politico. Eppure, già all’epoca della stesura di questo opuscolo, molti Paesi conservavano un’apparente indipendenza politica e una totale sudditanza commerciale e creditizia. Lenin fa l’esempio dell’Argentina e del Portogallo nei confronti dell’Inghilterra; quest’ultimo, in particolare, veniva rafforzato dall’Inghilterra in ottica anti-francese e anti-spagnola, ma doveva mettere a disposizione dell’Inghilterra stessa isole, porti, telecomunicazioni, e concedere privilegi commerciali.

Il mercato capitalista è un mercato mondiale. Nella sua fase imperialista, di conseguenza, assistiamo alla nascita di associazioni monopolistiche di capitalisti a livello mondiale. Questo comporta la spartizione del mondo in “sfere di influenza” – Lenin porta l’esempio dei due trust dell’energia elettrica americano e tedesco, che, nel 1907, giunsero a un accordo commerciale per dividersi i mercati mondiali.

È proprio a proposito della spartizione del mondo che Lenin critica ferocemente l’analisi borghese (alla quale si è associato Kautsky), secondo la quale la pacifica suddivisione in sfere di influenza porterebbe a un periodo di stabilità e accordi. Lenin sottolinea come la concentrazione sempre maggiore di capitali sia una condizione che inevitabilmente porta alla lotta per maggiori profitti. Come abbiamo già visto, di fatto, non muta in alcun modo la natura di classe di questa lotta: è pur sempre la borghesia a spartirsi il mondo, e lo fa tramite accordi quando possibile e conveniente, tramite la guerra quando necessario.

 

Leggere un testo di un secolo fa per capire la crisi dell’oggi

A proposito della lettura borghese della questione imperialista, il conservatore inglese Cecil Rhodes afferma, nel 1895, che l’imperialismo sarebbe un’ottima idea per dare sfogo alle richieste sempre più incalzanti del proletariato inglese, concedendo ai lavoratori nuovi sbocchi commerciali per le merci da loro prodotte e sventare così la minaccia di una guerra civile in patria. In questo senso, lo stesso Engels, citato da Lenin nel testo di cui abbiamo scritto oggi, osservava che le politiche coloniali dell’Inghilterra di fine Ottocento avevano avuto, tra i loro effetti, quello dell’imborghesimento di una parte del proletariato inglese e, cosa ben più rilevante, la corruzione dei capi del movimento operaio da parte della borghesia imperialista e colonialista. È chiaro che, in una certa dimensione, l’imperialismo causa squilibri ancora maggiori tra pochi Stati che diventano estremamente potenti e la maggior parte degli altri che invece vengono sfruttati e si indebitano.

Nella lettera che Lenin redige per accompagnare la spedizione della prima bozza dell’Imperialismo all’editore, scrive che, se per ragioni di censura, fosse stato meglio evitare la parola “imperialismo”, suggeriva un titolo diverso: “Caratteristiche fondamentali del capitalismo odierno”. È su quest’ultima parola, “odierno”, che vi raccomandiamo la lettura de L’Imperialismo – fase suprema del capitalismo: un testo mai superato, che mette in luce come la marcescenza del capitalismo nel suo stadio più avanzato non sia né evitabile, né, di per sé, la ragione per cui il capitalismo crollerà. A quanti sostengono che questo sistema sia automaticamente destinato al fallimento diciamo: leggete, studiate e comprendete, perché è proprio della nostra capacità di comprensione, di presa di coscienza, che si alimenteranno i processi di classe che, infine, metteranno la pietra tombale su questo ciclo malato di permacrisi.