
Il 23 gennaio scorso, durante un comizio dell’opposizione anti-chavista, Juan Guaidò, che fino ad allora era stato solo un oscuro deputato presidente dell’Assemblea Nazionale (il parlamento venezuelano, controllato dall’opposizione dalle elezioni di fine 2015), si è autoproclamato presidente, dichiarando destituito il presidente eletto Nicolas Maduro. Subito è arrivata la legittimazione della Casa Bianca, con una tale velocità da far sorgere più che il sospetto la certezza che la mossa fosse stata concordata con Trump[1]. A ruota si sono accodati all’amministrazione americana il Canada e i paesi latino-americani del gruppo di Lima (guidati da governi di destra allineati alle posizioni del governo USA, come il neo-presidente brasiliano Bolsonaro, noto ammiratore di Hitler e della dittatura che insanguinò il Brasile tra gli anni 60 e 80). Infine la stessa UE ha adottato la medesima linea, con una risoluzione presa quasi all’unanimità dal Parlamento Europeo (tra i pochissimi voti in dissenso quelli della Sinistra Unitaria Europea).
E’ evidente che ciò che sta avvenendo in Venezuela è un colpo di stato. Su questo non vi possono essere dubbi, al netto di tutte le critiche che si possano muovere al governo Maduro. Tra l’altro, Guaidò ha di recente apertamente chiesto l’intervento militare degli Stati Uniti per rovesciare Maduro: se non è un tentativo di golpe questo, non sapremmo come altro definirlo.
Anche la recente sceneggiata dei cosiddetti “aiuti umanitari” è una provocazione mal riuscita che fa parte a pieno titolo del tentativo di golpe in atto[2]. Non solo perché le sanzioni imposte dagli USA sottraggono ogni giorno al Venezuela risorse di gran lunga superiori a quelle rappresentate da qualche quintale di medicinali e cibo in scatola, ma soprattutto per chi c’è dietro la rassicurante sigla “Usaid” stampigliata sugli scatoloni: di fatto un’agenzia del governo statunitense usata anche in passato come testa di ponte per politiche di regime change.
La situazione tuttavia è decisamente più complicata di come la dipingono in molti a sinistra, e la stessa lotta per contrastare il golpe non può essere condotta con i paraocchi che ebbero gli stalinisti nei confronti dell’URSS, dipingendo il Venezuela come un paradiso socialista i cui unici problemi sarebbero dovuti ai complotti dell’imperialismo.
Nelle righe che seguono cercheremo di analizzare almeno le principali questioni in campo proponendo un nostro punto di vista marxista sugli avvenimenti in Venezuela.
Il Venezuela è una “dittatura”?
Il mantra che il giornalismo ufficiale europeo e americano ripete fin da quando Ugo Chavez vinse le prime elezioni presidenziali nel 1998 è che il governo bolivariano abbia instaurato un regime dittatoriale o semi-dittatoriale per imporre con la forza un sistema economico-sociale di tipo socialista. Sulla natura socialista o meno del Venezuela torneremo dopo, ma definire il governo bolivariano una dittatura è semplicemente una falsità. Anche da un punto di vista democratico-borghese il chavismo, sia prima che dopo Chavez, ha superato più test elettorali di qualsiasi altro potere in America Latina, dalle elezioni presidenziali, a quelle parlamentari e locali al referendum revocativo che l’opposizione richiese (secondo quanto previsto dalla costituzione bolivariana!) per rimuovere Chavez e perse. Anche definire illegittime le elezioni presidenziali nelle quali è stato rieletto Maduro nel maggio 2018 rappresenta una completa distorsione della realtà.
Le elezioni presidenziali erano state inizialmente concordate con il fronte delle opposizioni (la MUD) in un tortuoso negoziato sotto l’egida del Vaticano e dell’ex premier spagnolo Zapatero. Il punto è che la MUD è ben lungi dall’essere un compatto monolite, è piuttosto una litigiosa accozzaglia che va da forze formalmente socialdemocratiche a frange fascistoidi. Dopo che l’accordo sembrava cosa fatta, la maggioranza dell’opposizione decise di non partecipare alle elezioni presidenziali (probabilmente su pressione del governo USA) e di invitare al boicottaggio[3]. Ma una parte di essa invece vi partecipò, tant’è che i candidati alle presidenziali alla fine erano 6. Maduro vinse con circa il 67% dei voti.
L’affluenza è stata piuttosto bassa, meno del 50%, e questo è senz’altro un segnale di scollamento tra il gruppo dirigente bolivariano e le masse. Ma quante democrazie borghesi, quella statunitense in primo luogo, hanno affluenze altrettanto basse in elezioni importanti senza che nessuno ne metta in dubbio la legittimità?
Quanto ai possibili brogli avvenuti durante quella tornata elettorale, ricordiamo che il sistema di voto in Venezuela è elettronico e la sua regolarità è stata certificata più volte e anche in quell’occasione da osservatori internazionali quali il Centro Carter (fondato dall’ex presidente americano) o l’ex premier spagnolo Zapatero, non propriamente dei bolscevichi.[4] Peraltro, sia gli USA che l’UE hanno rifiutato di inviare propri osservatori nonostante il governo venezuelano avesse invitato loro a farlo. Su quali dati è dunque fondata la loro contestazione della legittimità del voto? Ovviamente su quelli dell’opposizione.
Da un punto di vista di formalità istituzionale Maduro non è meno legittimo di Donald Trump, la cui elezione venne accusata di essere stata condizionata addirittura dall’intervento dei servizi segreti russi!
Quanto alla repressione, sicuramente la polizia e la Guardia Nazionale non hanno avuto la mano tenera in più di un’occasione, ma le vittime, purtroppo numerose, che hanno perso la vita in questi mesi sono ascrivibili solo in minima parte all’intervento delle forze leali al governo. L’opposizione si è in questi anni caratterizzata per avere frange violentissime responsabili di assalti armati a sedi del PSUV e dei sindacati, di scontri di piazza particolarmente violenti anche con l’uso di veri e propri cecchini, dell’assassinio di militanti chavisti e della tecnica dei fili d’acciaio tesi in mezzo alle strade per decapitare gli attivisti pro-governativi in motocicletta. Tra queste frange, si sono distinti in particolare proprio gli attivisti di Voluntad Popular, il partito di Guaidò.
Ricordiamo infine quali sono i governi che USA e UE considerano perfettamente legittimi mentre fanno le pulci a quello di Caracas: quel residuo di medio evo che è la monarchia assoluta dell’Arabia Saudita, con la quale si stipulano lauti contratti per la vendita di armi, usate poi per massacrare civili in Yemen; oppure la Turchia di Erdogan, le cui carceri pullulano di prigionieri politici, che continua a fare strame del popolo curdo e alla quale l’UE ha elargito fior di miliardi di euro perché rinchiudesse i profughi dalla guerra in Siria in veri e propri lager pur di non farli arrivare in Europa.
L’ipocrisia degli imperialisti, com’è noto , non conosce limiti.
Fallimento del socialismo?
Se la situazione dal punto di vista istituzionale è quella descritta sopra, è innegabile che il Venezuela ormai da anni, almeno dal 2013, stia attraversando una drammatica crisi economica con un’inflazione che ha ormai raggiunto livelli da Repubblica di Weimar (oltre 1.300.000 % annuo nel 2018) e che ha fatto precipitare le condizioni di vita dei lavoratori e di tutte le classi subalterne, minando anche quelle che erano state le conquiste sociali dei primi anni del chavismo in tema di assistenza sanitaria, diritto allo studio e alimentazione. E’ possibile che le cause siano da individuare solo nel boicottaggio della grande borghesia e dei paesi imperialisti? Sostenere questo vorrebbe dire limitarsi a gridare al complotto senza sforzarsi di comprendere materialisticamente le cause complesse di questa situazione. Il boicottaggio esiste senz’altro, più volte i reparti incaricati dal governo di contrastarlo hanno trovato magazzini pieni di prodotti ammassati dai produttori o distributori privati per poi rivenderli sul mercato nero o semplicemente farli marcire per aumentare la penuria nei negozi e di conseguenza il malessere popolare. Così come è in atto non da adesso un attacco frontale da parte degli USA con la complicità dei paesi europei, e non solo da quando è in carica Trump: fu Obama a dichiarare il Venezuela una grave minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Attacco che si è ulteriormente accentuato negli ultimi tempi con sanzioni verso la società petrolifera statale PDVSA (gli USA sono il principale acquirente del petrolio venezuelano) e con il blocco di beni del governo venezuelano negli Stati Uniti. Ma questo non dovrebbe certo stupire, borghesia e imperialisti fanno il loro mestiere. Il problema è che il governo bolivariano non ha mai fatto fino in fondo il suo.
Quando Chavez diventò presidente nel 1998 non aveva un programma socialista, i suoi obiettivi si limitavano a una democratizzazione delle istituzioni dello stato (soprattutto per quanto riguardava i diritti e la partecipazione della parte di popolazione indigena o comunque non di origine europea) e a una più equa redistribuzione della ricchezza derivata dalle ingenti risorse petrolifere. Gli introiti da queste ultime vennero incrementati rinegoziando i contratti con le concessionarie straniere, che fino ad allora avevano lasciato allo stato venezuelano solo le briciole, e utilizzandoli in gran parte per finanziare un’imponente programma di riforme sociali.
Durante gli anni di Chavez il Venezuela è riuscito a debellare l’analfabetismo e ad estendere enormemente il diritto allo studio anche a livello universitario, a ricostruire un sistema sanitario praticamente da zero (anche grazie al contributo dei medici cubani) aprendo ambulatori in quartieri che non avevano mai visto un medico, a dare una casa a centinaia di migliaia di venezuelani che non avevano un tetto grazie a un robusto programma di edilizia popolare.
Nessuno può disconoscere l’importanza di questi risultati. Il problema è che tutto questo venne fatto senza in realtà mettere davvero in discussione il sistema economico vigente ma affidandosi unicamente alla rendita petrolifera. Chavez sicuramente si spostò gradualmente a sinistra, anche se con molte oscillazioni, nel corso degli anni, soprattutto per l’attacco frontale che subì fin dall’inizio da parte dell’imperialismo USA e dell’oligarchia venezuelana: il primo non poteva tollerare un governo che non fosse totalmente subalterno ai suoi interessi, la seconda non voleva rinunciare nemmeno a una parte dei propri privilegi. Tuttavia, al di là della fraseologia rivoluzionaria, nemmeno Chavez mise mai in campo un vero e coerente programma di transizione al socialismo, anche se poco prima di morire cominciava forse a rendersi conto che c’era bisogno di una svolta decisa e iniziò a parlare della necessità di un “golpe de timon”, una sterzata verso il socialismo.
La sua scomparsa prematura impedì che queste parole si trasformassero in qualcosa di più concreto, e gli stessi limiti intrinseci del personaggio ponevano d’altra parte una forte ipoteca sulla possibilità che questo avvenisse davvero. In ogni caso, il Venezuela ha continuato ad affidarsi agli introiti del petrolio e in parte delle altre materie prime di cui è ricco (oro, coltan) per finanziare i programmi sociali del governo. In questo modo si sono scavati la fossa con le proprie mani.[5]
Infatti, se leghi il tuo programma di trasformazione sociale alle royalty del petrolio vuol dire che lo stai legando alle oscillazioni dei prezzi del medesimo sul mercato internazionale e già questa è una follia. Vuol dire che stai continuando a perseverare nella “monocoltura del petrolio” senza cercare di diversificare il sistema economico e raggiungere l’autosufficienza alimentare o almeno diminuire la dipendenza dalle importazioni, e questo è un altro errore gravissimo. Ma vuol dire soprattutto che stai inchiodando le tue conquiste sociali alle compatibilità del capitalismo senza mettere questo sistema realmente in discussione e questo è letale perché quelle stesse conquiste inizieranno a sgretolarsi al primo mutamento del ciclo economico.
Infatti, non appena i prezzi del petrolio hanno iniziato a scendere, sono iniziati i problemi. Problemi accentuati dai continui compromessi che il governo bolivariano, già con Chavez e ancora di più con Maduro, ha fatto con la borghesia:
- un sistema di cambi agevolati grazie al quale gli imprenditori avrebbero potuto accedere alla valuta (ottenuta con la vendita del petrolio) per comprare prodotti a prezzi più bassi sul mercato internazionale o fare investimenti, mentre l’esito è stato quello di innescare una gigantesca speculazione;
- la grandissima maggioranza delle grandi imprese sono state lasciate nelle mani dei privati, consentendo loro di controllare di fatto l’intero sistema economico (avendo poi gioco facile a organizzare il boicottaggio). Anche le poche aziende nazionalizzate, di solito sotto la pressione degli stessi lavoratori, sono state poi sottratte al loro controllo dando vita a uno strato di burocrati che hanno iniziato ad accumulare privilegi;
- non si è minimamente messo in discussione il gravame del debito estero, ma si è continuato diligentemente a pagarlo stornando ingenti risorse per questo scopo;
- le concessioni non si sono limitate alla borghesia venezuelana ma hanno interessato anche quella internazionale: la Gold Reserve, compagnia mineraria canadese espulsa da Chavez nel 2008, è tornata con Maduro a mettere le sue grinfie sull’Arco dell’Orinoco con un accordo che avrà un impatto ambientale devastante;
- con Maduro si è anche accentuato moltissimo il ruolo dei vertici militari nell’economia attraverso la creazione di una società ad hoc, la CAMIMPEG, con interessi sia nell’industria estrattiva che petrolifera;
- si è sviluppato un nuovo strato borghese, la cosiddetta “boliborghesia”, ovvero un settore di imprenditori e dirigenti di pseudo-cooperative strettamente legati al governo ma con interessi propri, che hanno contribuito a staccare ulteriormente le condizioni di vita delle masse da quelle del gruppo dirigente bolivariano;
- a questo si è aggiunto un processo di crescente corruzione dovuto alla mancanza di un reale controllo dei lavoratori sul potere politico e sull’economia oltre a una stretta, questa sì, autoritaria nella gestione della vita interna del PSUV e dei sindacati. Nonostante il livello molto avanzato della costituzione bolivariana, lo stato borghese non è infatti stato toccato nelle sue istituzioni fondamentali, non si è cercato di costruire un modello alternativo di democrazia che si fondasse su un reale protagonismo delle masse ma ci si è illusi che fosse sufficiente introdurre alcuni elementi “partecipativi” nel quadro di uno stato che è rimasto di impianto fondamentalmente liberale. Le stesse Comunas, che pur con molti limiti avrebbero potuto essere almeno un’embrione di democrazia consiliare, non sono mai state sviluppate realmente e l’Assemblea Costituente recentemente eletta in antagonismo all’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, non è affatto assimilabile a un “Congresso dei Soviet” ma ne è piuttosto una caricatura controllata dalla burocrazia del PSUV, come hanno sostenuto anche alcuni dirigenti di Comunas dopo le elezioni della Costituente.[6]
Ciò che sta fallendo in Venezuela non è dunque il socialismo che non c’è mai stato ma piuttosto l’illusione di poter regolamentare il capitalismo attraverso l’accordo con la cosiddetta “borghesia patriottica” (variante latino-americana del sogno riformista di una “borghesia democratica”) e di poter finanziare a tempo indefinito tutta una serie di riforme sociali grazie agli introiti del petrolio. Il peccato del chavismo non è dunque quello di essere stato troppo estremista o troppo socialista, ma caso mai di essere stato e continuare ad essere pervicacemente riformista.
Ciò che sarebbe stato ed è tutt’ora necessario è invece una rottura vera con il capitalismo attraverso l’espropriazione dei principali settori economici nazionalizzandoli sotto il controllo dei lavoratori e la creazione di un modello diverso di democrazia e di stato anch’esso controllato dai lavoratori e dalle classi subalterne. Solo così si potrebbero respingere una volta per tutte i tentativi golpisti e ricostruire un sistema economico a pezzi facendone pagare il prezzo non alle classi subalterne (come avverrebbe nel caso di una vittoria dell’opposizione con il suo programma ultra-liberista) ma agli sfruttatori.
Per questo, il sostegno acritico al governo Maduro di buona parte della sinistra antagonista, gli strali lanciati contro qualsiasi critica dei suoi errori e compromessi, oltre a ricordarci periodi nella storia della sinistra e del movimento operaio che sarebbe preferibile non tornassero, rendono un pessimo servizio alla causa che vorrebbero sostenere.
La priorità oggi è certo sconfiggere il colpo di stato perché se passasse sarebbe non solo una tragedia per la maggioranza dei venezuelani ma anche il colpo definitivo per lungo tempo alla possibilità di far ripartire un processo rivoluzionario in quella regione. Per questo noi non ci sentiamo affatto equidistanti tra il chavismo e i golpisti.
Al tempo stesso è necessario avere
la consapevolezza, e dire chiaramente, che la ripresa di un processo
rivoluzionario in Venezuela passerà inevitabilmente per la costruzione di un
gruppo dirigente alternativo a Maduro e alla burocrazia bolivariana. Essi,
infatti, sia per ciò che stanno facendo che per quello che non fanno, non
rappresentano il baluardo della rivoluzione venezuelana ma rischiano piuttosto
di esserne i becchini.
Note:
[1]https://www.agenzianova.com/a/5c4be0bd8b32b7.83489578/2279945/2019-01-25/venezuela-wsj-vicepresidente-usa-pence-chiamo-guaido-garantendo-appoggio-prima-che-si-autoproclamasse-presidente
[2]https://venezuelanalysis.com/analysis/14316
[3]https://www.ilsalto.net/cosa-ce-in-ballo-in-venezuela-col-golpe-gaido/
[4]https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/25/venezuela-checche-ne-dicano-stati-uniti-e-ue-con-maduro-ha-vinto-la-democrazia/4369856/
[5]https://anticapitalista.org/2017/05/18/la-crisi-venezuelana-non-e-una-crisi-del-socialismo
[6]https://www.lavocedellelotte.it/it/2017/10/30/le-comuni-e-lo-stato-in-venezuela/