
Il 12 dicembre del 1969 alle 16.37, il salone centrale del Banco Nazionale dell’agricoltura, affollato per il mercato agricolo del venerdì,saltò in aria. L’esplosione uccise 17 persone e il salone venne disintegrato, ferendone altre 88. Nello stesso giorno venne trovata un’altra bomba inesplosa a Milano e altre tre ne scoppiarono a Roma.
Sarebbero dovuti passare 36 anni perché la magistratura attribuisse definitivamente l’esecuzione di questa strage a militanti fascisti di Ordine Nuovo, confermando anche i nomi degli operativi che avrebbero messola bomba e avrebbero coordinato le operazioni: Delfo Zorzi, Franco Freda e Giovanni Ventura, tutti membri di quell’organizzazione. Con quella bomba avevainizio quella che il settimanale inglese The Observer avrebbe denominato “strategia della tensione”, che dal 1969 al 1980 avrebbe assassinato 135 innocenti e ferite più di 500 persone.
Di malori attivi,processi in esilio e bombe che si mettono da sole
L’Italia era stata attraversata da uno scontro operaio e giovanile frontale, l’autunno caldo. Negli ultimi due anni le ore di sciopero erano salite a 302 milioni e le organizzazioni dei giovani e dei lavoratori si erano rafforzate come mai prima. Nelle fabbriche, nei quartieri e nelle università era fiorito uno straordinario protagonismo operaio e popolare, con vere e proprie forme di contro potere.
Il dibattito politico era in ogni quartiere. Nella morsa di lotte incandescenti, i padroni arretravano su tutta la linea, permettendo a studenti e lavoratori di strappare grandi conquiste come l’accesso all’università ai figli degli operai che studiavano nei professionali e nei tecnici, aumenti salariali, diritti sindacali, miglioramenti effettivi nell’orario di lavorio, nella gestione delle ferie, dei permessi e delle cure mediche. Non vi era riforma in Parlamento o cambio di produzione in fabbrica che venisse decisa senza il consenso diretto o indiretto dei lavoratori, qualcosa di impensabile solo pochi anni prima. L’intero paese lottava per il proprio riscatto sociale, spostandosi a sinistra.
Questo è il contesto in cui cominciarono a esplodere le bombe e in cui avvenne la strage di piazza Fontana.
Da subito, le indagini scartarono volutamente l’estrema destra, concentrandosi sul movimento anarchico, un facile capro espiatorio. Tra questi vennero arrestati due tra i militanti più attivi: Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. Il primo venne fin da subito additato dalla stampa come “la belva” e sarebbe stato assolto per non aver commesso il fatto solo nel 1981, dopo un imponente movimento di lotta per la sua scarcerazione. Il secondo non subì mai alcun processo perché buttato giù da una finestra della questura nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Per quella morte sospetta, la magistratura assolse il commissario Calabresi e altri 5 imputati, dichiarando Pinelli né ucciso né suicidato, bensì vittima di “malore attivo”, che avrebbe permesso a un uomo alto 1 metro e 69 centimetri, vittima di “malore”, di spiccare un volo oltre una finestra posta a quasi un metro d’altezza. Inoltre l’assoluzione venne formulata nonostante la falsa testimonianza del brigadiere Vito Panessa, apparentemente rimasto con una scarpa di Pinelli in mano sebbene quest’ultimo fosse stato ritrovato a terra con entrambe.
Solo nel 1972 si avviò il secondo processo con l’abbandono dell’ormai insostenibile pista anarchica e l’avvio dell’indagine tra gli ambienti di estrema destra.
Le indagini portarono in Veneto, dove si ricostruirono le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura, entrambi militanti fascisti di Ordine Nuovo. Venne trovato un autentico arsenale in un casa di proprietà di Ventura e si risalì all’acquisto da parte di Freda dei detonatori responsabili della strage e all’agente dei servizi segreti (il SID) che protesse Ventura nella sua fuga da latitante: l’agente Giannettin, che le cronache conobbero come “Agente Zeta”. Freda e Ventura vennero condannati all’ergastolo. L’inchiesta, tuttavia, cominciò a divenire scomoda quando rivolse le indagini a chi aveva pianificato, finanziato e coperto la strage: i vertici dei servizi segreti e i ministeri degli Interni e della Difesa. Sfruttando il pretesto delle manifestazioni per la liberazione di Valpreda il processo venne spostato da Milano a Catanzaro, a ben 1254 km di distanza.
Nel 1981 la corte d’Appello di Catanzaro assolse tutti gli imputati, in un clamoroso colpo di scena. Ma certo non fu l’unico improvviso capovolgimento nei processi sulla strage di Piazza Fontana.
La Luna rossa
Nel 1993 si aprì l’ultima, clamorosa, inchiesta anch’essa partita da indagini secondarie relative al mondo dell’estrema destra. Fu solo in quest’occasione che si risalì all’esecutore materiale della strage: Delfo Zorzi, ora cittadino giapponese e ricco imprenditore, che compose la squadra milanese dell’attentato. Fu sempre in questa inchiesta che emerse il ruolo della base Nato di Verona che controllava i servizi segreti attraverso il famoso “Agente Zeta” e l’organizzazione fascista Ordine Nuovo per le proprie strategie. A quel punto nessuno si sconvolse quando le indagini risalirono ad esplosivo militare occidentale per la costruzione della bomba.
Il 30 giugno 2001 si giunse alle condanne all’ergastolo per Zorzi, Maggi e Rognoni, parte degli stragisti neri che composero la squadra.
Il 12 marzo 2004 la Corte d’Appello rovesciò tutte le carte e assolse tutti, tranne Freda e Ventura.
Il 3 maggio 2005 la Corte di cassazione confermò tutte le assoluzioni e le condanne di Freda e Ventura che non avrebbero mai scontato la pena perchè già assolti in via definitiva nel 1981.
Dopo quasi 50 anni la strage di Piazza Fontana continua a non avere colpevoli: sembra essersi fatta da sola.
Le basi materiali della giustizia
Dopo la strage di Piazza Fontana salteranno in aria nell’ordine: il treno per Gioia Tauro nel 1970; piazza della Loggia a Brescia, nel 1974; il treno Italicus, nel 1974; la stazione di Bologna nel 1980. Per ciascuna di queste stragi vennero indagati appartenenti a organizzazioni fasciste come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
La strategia messa in campo dall’estrema destra e dai protettori nell’apparato statale era lineare: utilizzare tutte le proprie forze nazionali e internazionali per spostare l’asse della società a destra. Per fare questo bisognava colpire a tutti i costi il movimento operaio organizzato e creare un clima di terrore tra i lavoratori, preparando i piani e le forze di un eventuale colpo di Stato per assicurare la “legalità e l’ordine” nel paese. Le successive inchieste sulle altre stragi, sulla Gladio e sulla Loggia massonica Propaganda 2 confermarono questo disegno. Lo Stato, nei momenti di acuto scontro di classe, svela la sua intima natura: un “corpo di uomini armati a difesa della proprietà privata”. Per difendere il proprio assetto il capitalismo non esita a stralciare le norme del proprio diritto, con una magistratura rivelatasi addomesticata agli interessi della classe dominante.
Piazza Fontana e la strategia della tensione ci insegnano una lezione importante: così com’è, questa società non può garantire né alcuna democrazia reale, né alcuna giustizia profonda. Diritti che credevamo inalienabili come l’accesso alle cure, al lavoro, alla pensione, all’istruzione e alla casa sono messi in discussione ogni giorno. La giustizia è formalmente uguale per tutti, ma le difficoltà di indagine dei vertici delle forze dell’ordine durante il processo del G8 di Genova o per il caso Cucchi, dimostrano che l’uguaglianza del diritto sembra scritta solo nei codici. I ricchi e i potenti hanno la denuncia facile proprio perché per difendersi è necessario sostenere anni di spese legali.
Per ora ci sono libere elezioni, ma la storia insegna che anche questo diritto non è eterno, bensì concesso fintanto che la forza dei lavoratori, dei loro partiti e dei loro sindacati non superi un certo “limite di guardia”. Se le mobilitazioni si spingessero oltre quel limite, la democrazia potrebbe essere messa in un cassetto, facendo saltare ogni formalismo democratico con attentati e tentativi di colpi di stato. I sindacati verrebbero chiusi e i militanti che difendono i diritti dei giovani e dei lavoratori arrestati per garantire la società dei ricchi, dei privilegiati, dei violenti. Questo è quello che accadrebbe e quello che, nei fatti, si cela dietro le parole d’ordine di legge ed ordine.
Detto altrimenti, i diritti democratici sono concessioni fintanto che non vengano strappati via dalle mani di chi, custodendoli, decide quando e se applicarli. Ma se il movimento lottando è così forte da strapparli, allora è in grado di fare anche a meno di chi li elargisce. Soltanto una democrazia dei lavoratori è l’unica garanzia perché la strage di piazza Fontana non si ripeta mai più.