Gramsci è in Unione Sovietica dal maggio 1922. Assiste quindi da vicino all’elaborazione della svolta decisa dall’Internazionale Comunista. La direzione dell’Internazionale realizza in questo periodo che il grosso dell’ondata rivoluzionaria in Europa occidentale è ormai alle spalle. Il movimento si è infranto contro i propri limiti soggettivi. I partiti socialdemocratici tradizionali hanno contenuto e tradito lo slancio rivoluzionario della propria base operaia. Le sconfitte subite particolarmente in Ungheria, Italia e Germania derubricano a tempi futuri la possibilità di una rivoluzione vittoriosa. Racconterà lo stesso Gramsci sull’Unità nel 1924:
Il terzo congresso mondiale analizzò la situazione mondiale e in un memorabile rapporto del compagno Trockij arrivò a conclusioni che non potevano non avere conseguenze sulla tattica dell’Internazionale Comunista e delle sue sezioni nazionali. Era innegabile che il proletariato europeo era stato sconfitto dalla controffensiva capitalista, e che le sue possibilità di lotta erano molto diminuite. Se era vero che la situazione generale rimaneva rivoluzionaria, era anche vero che nel processo di sviluppo di questa situazione si verificavano e si verificano fasi diverse, che occorre apprezzare volta per volta per mantenersi aderenti alla realtà, per influire sulla vita politica, per essere sempre a contatto con le masse e guidarle, per continuare a mantenere e sviluppare continuamente la organizzazione del proletariato [1]
La fase che si apre dal 1922 in poi non è quindi quella della lotta diretta per il potere. Nonostante il tradimento subito, la maggioranza dei lavoratori continua ad essere legata alle organizzazioni di massa tradizionali: i partiti e i sindacati della Seconda Internazionale Socialista. Per i comunisti si tratta di lottare per tutta una fase storica, dalla durata difficilmente ipotizzabile, per la conquista dell’appoggio di questo settore operaio. Il baricentro della lotta si sposta nuovamente sulle cosiddette rivendicazioni immediate: aumenti salariali, riduzione dell’orario, difesa dell’occupazione ecc. Ma su questo terreno il programma dei riformisti e dei rivoluzionari tende apparentemente a coincidere.
Il rischio è che ampie fasce del movimento operaio percepiscano l”organizzazione separata dei comunisti come un indebolimento artificiale dell’unità di classe. La separazione dei comunisti dai socialdemocratici rischia di apparire causa della sconfitta, invece che strumento potenziale della vittoria. La differenziazione dai riformisti non può essere – in generale e tanto più in un frangente del genere – affidata alla semplice propaganda. I comunisti vogliono “fare come in Russia”. E questo li distingue dai partiti della Seconda Internazionale. Ma l’operaio sente che al momento non si tratta della rivoluzione. Si tratta dei bisogni immediati. E’ nella lotta fianco a fianco, per rivendicazioni immediate, che la base operaia socialdemocratica deve percepire l’incapacità dei propri dirigenti. Questa è l’essenza della tattica del fronte unico, elaborata parzialmente tra il 1921 ed il 1922.
In Italia questa svolta tattica si rivela tanto difficile, quanto urgente. Difficile perché il gruppo dirigente del neonato PcdI, egemonizzato da Bordiga, dà un interpretazione rigida dei rapporti con il Psi. La scissione del 1921 è considerata una divisione senza appello dall’intero corpo del partito socialista. Eppure quest’ultimo rimane il principale partito operaio italiano. Urgente perché in Italia il problema immediato è l’autodifesa dagli attacchi fascisti.
Il ritorno di Gramsci avviene quindi in questo contesto e sulla base di questa prospettiva. Dopo una serie di tentennamenti, durante il suo soggiorno in Unione Sovietica, si è deciso a lottare per superare il settarismo del gruppo dirigente comunista in Italia. La parola d’ordine fondamentale su cui il partito va riorientato è unità. E non a caso questo è il nome del giornale che Gramsci decide di fondare. Ma quali sono le applicazioni pratiche, quali i contenuti reali di questa tattica? Lungi da essere un feticcio senza principi, l’unità è da praticare su un terreno di classe e di azione immediata. Nel marzo 1924 il Comitato Centrale del partito approva la seguente dichiarazione:
Il Cc considera la lotta elettorale come un momento dell’azione che il partito comunista conduce per la formazione di un fronte unico di difesa degli interessi economici e politici della classe lavoratrice di cui il fascismo è la negazione; respinge ogni criterio di blocco che fosse rivolto unicamente ad ottenere uno spostamento nei risultati numerici delle elezioni e che partisse da preoccupazioni esclusivamente elettorali [2]
Gramsci non ha cambiato di una virgola le convinzioni fondamentali maturate nel 1921. Il fascismo è e rimane un fenomeno di classe e in quanto tale non può essere contrastato da un blocco genericamente democratico, ma da un fronte di classe. Scrive ancora Gramsci nel 1925:
Soltanto la lotta di classe operaia delle masse operaie e contadine vincerà il fascismo! Soltanto un governo di operai e contadini è capace di liquidare il fascismo e di sopprimerne le cause! Soltanto l’armamento degli operai e dei contadini potrà disarmare la milizia fascista.[3]
Non si tratta di far rientrare dalla finestra la collaborazione con le forze democratico-borghesi, ma di proporre una comune azione antifascista alle altre organizzazioni operaie e contadine. La lotta contro il fascismo non è altro che lotta contro il capitalismo che ne è causa. E anche su questo terreno difensivo i vertici del Psi non possono che rivelarsi vili tanto quanto nel 1920 si sono rivelati incapaci nell’offensiva. Smascherare questa viltà è lo scopo stesso del fronte unico.
Gramsci rientra in Italia nel maggio 1924, giusto in tempo per assistere ad un’improvvisa svolta nella situazione. E’ stato eletto parlamentare nelle elezioni dell’aprile 1924 e può avvalersi dell’immunità parlamentare. A poco più di un mese dalle elezioni, all’inizio di giugno, il deputato socialista Matteotti sparisce dopo aver pronunciato in Parlamento un discorso di dura condanna della violenza fascista. Il rapimento Matteotti e il successivo ritrovamento del suo cadavere hanno un forte impatto emotivo non solo sul proletariato, ma anche sulla cosiddetta opinione pubblica. La piccola borghesia sembra di nuovo gravitare nel campo della democrazia parlamentare. E questo processo si riflette nel palesarsi di un’opposizione antifascista, di natura democratico-borghese.
Il 26 giugno 1924 tutte le opposizioni, dai Popolari fino ai Socialisti, si ritirano dai lavori parlamentari. E’ la cosiddetta secessione dell’Aventino. I comunisti naturalmente vi partecipano. Ma con che scopo, in che posizione e con quali aspettative? Sotto la superficie dello scontro tra vecchia opposizione parlamentare e fascismo, continuano a prevalere le forze elementari del conflitto di classe. Ed è sulla base della loro analisi che Gramsci è in grado di prevedere l’inconcludenza e l’immobilismo delle forze borghesi raccolte nell’Aventino. Solo la mobilitazione del proletariato e dei contadini può dare sostanza alle rivendicazioni democratiche aventiniane. Ma la borghesia “democratica” teme tale mobilitazione più del fascismo stesso. Gli appelli del Pcdi allo sciopero generale cadono nel vuoto. La stessa Cgil proclama solo un’astensione dal lavoro dimostrativa di 10 minuti per il 27 giugno. Nel Comitato Centrale dell’ottobre 1924 è possibile tracciare un primo bilancio complessivo dell’Aventino. Tutta l’enfasi è messa sulla necessità di mantenere l’autonomia di classe:
Certi discorsi lasciano capire che si pensa che noi viviamo in un paese coloniale dove la rivoluzione proletaria non è possibile senza che prima si compia una rivoluzione nazionale da parte delle opposizioni. Compito primo del proletariato, anche in questa situazione, è quello di assumere un atteggiamento autonomo, indipendente. [4]
Lungi dal considerare il blocco aventiniano come l’ultima trincea contro il fascismo, si sottolineano i fattori che possono contribuire ad una resa delle opposizioni:
Opposizioni e fascismo non desiderano ed eviteranno sistematicamente che una lotta a fondo s’impegni. Il fascismo tenderà invece a conservare una base di organizzazione armata da far rientrare in campo appena si profili una nuova ondata rivoluzionaria, ciò che è ben lungi dal dispiacere agli Amendola e agli Albertini e anche ai Turati e ai Treves [dirigenti aventiniani liberali e socialisti di destra -Ndr]. [5]
Se la forma di Governo determina la divergenza tra liberali e fascisti, il contenuto di classe del Governo pone un limite all’estensione di tale divergenza. Questo significa dichiarare l’equidistanza tra democrazia borghese e fascismo? Al contrario. Non si tratta di saltare direttamente alla lotta diretta per il potere, ma di costruire un programma che faccia da ponte tra la lotta per la democrazia che le masse sentono come prioritaria e la rivoluzione socialista. Lo stesso Comitato Centrale dell’autunno 1924 specifica che la situazione è “democratica”. I dirigenti socialisti vedono in questa definizione una conferma della propria tattica. Essi fanno discendere meccanicamente dalla lotta per la democrazia, l’esigenza di legarsi mani e piedi alle forze democratico-borghesi dell’Aventino. Spiega lo stesso Gramsci:
Quando noi diciamo che la situazione è democratica, perché le grandi masse lavoratrici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto, non si capisce come i rivoluzionari dell’ Avanti! [giornale socialista -Ndr] possano vedere in questo una conferma della loro tattica. Al contrario è proprio un’accusa a questa tattica che noi facciamo. I rapporti di forza tra borghesia e proletariato muterebbero di colpo il giorno in cui i massimalisti e i riformisti cessassero di porre al servizio della classe borghese le masse lavoratrici che seguono i loro partiti. Noi vediamo la disorganizzazione e la dispersione delle masse e vogliamo ricostituire il loro fronte unico, per opporlo alle forze borghesi. I massimalisti e i social-riformisti, in perfetto accordo, continuano con la loro tattica alla disgregazione della classe operaia. Le due tattiche sono, come si vede, antitetiche: l’una conduce al risollevamento e alla riscossa delle classi lavoratrici; l’altra ne prolunga la disgregazione e l’asservimento alle classi borghesi. Equivocare non è possibile su questi fatti. [6]
L’Aventino, come è noto, finirà nel nulla. I dirigenti aventiniani, più preoccupati di scatenare un movimento di massa che di combattere il fascismo, limitano la propria azione ad una serie di suppliche al re per rimuovere il Governo Mussolini. Questa esperienza ha avuto almeno un pregio. Ha permesso ai comunisti di osservare da vicino il comportamento di una possibile opposizione borghese al fascismo, di farsi un’idea delle sue rivendicazioni e delle forme che potrebbe prendere una prima fase transitoria successiva al crollo del fascismo. Pur essendo quest’ultimo un regime di repressione rivolto contro il proletariato, pur essendo il suo scopo primordiale la frantumazione di tutte le organizzazioni della classe, la soppressione da parte dei fascisti di ogni libertà democratica rende inevitabile che la prima fase di lotta contro il regime sia contrassegnata da rivendicazioni di natura genericamente democratica. Il che potrebbe consegnare inizialmente la maggioranza dei consensi ai partiti democratico-borghesi. Scrive Gramsci nel 1924:
Nel campo politico occorre stabilire con esattezza delle tesi sulla situazione italiana e sulle possibili fasi del suo sviluppo ulteriore. (…) Io credo che a una ripresa [democratica] il nostro partito sarà ancora in minoranza, che la maggioranza della classe operaia andrà con i riformisti e che i borghesi democratici liberali avranno ancora da dire molte parole. Che la situazione sia attivamente rivoluzionaria non dubito e quindi entro un determinato spazio il nostro partito avrà con sé la maggioranza del proletariato; ma se questo periodo forse non sarà lungo cronologicamente esso sarà indubbiamente denso di fasi suppletive, che dovremo prevedere (…) e non cadere in errori che prolungherebbero le esperienze del proletariato. [7]
Appare altrettanto evidente che la borghesia tenterà di usare le illusioni democratiche di questa prima tappa, per limitare il movimento contro il fascismo ad un semplice cambio di regime. La lotta per la democrazia non verrà utilizzata per rimuovere in profondità il blocco sociale che ha determinato il fascismo, ma per preservarlo. Si tratta di cambiare il regime per salvare il sistema. Già nel settembre 1924, ancora in pieno Aventino, l’Esecutivo comunista ha messo in guardia da tale scenario: “in realtà si sta da ogni parte manovrando per rendere possibile una soluzione in cui la sostanza reazionaria sia conservata sotto un involucro di bugiarda “democrazia” o dal ritorno a “sistemi liberali”[8]. Gramsci racconta della frase pronunciata da Amendola, uno dei massimi dirigenti aventiniani: “dobbiamo ritornare a un sistema quale è quello dell’Inghilterra, dove il signor Mac Donald cede il posto al signor Baldwin e viceversa [dirigenti laburisti e conservatori -Ndr]”[9].
La borghesia dunque potrebbe dispiegare la propria egemonia per trasformare la lotta per l’alternativa in semplice alternanza. E questa manovra potrebbe concentrarsi attorno alla richiesta di una Costituente che dia una nuova verginità allo Stato borghese. Scrive Gramsci a Scoccimarro:
Noi dobbiamo prospettare tutte le probabili soluzioni che l’attuale situazione può avere e per ognuna di queste soluzioni probabili dobbiamo fissare delle direttive. Ho letto, per esempio, il discorso di Amendola che mi pare molto importante: c’è un accenno in esso che potrebbe avere degli sviluppi. Amendola dice che le riforme costituzionali ventilate dai fascisti pongono il problema se anche in Italia non sia necessario scindere l’attività Costituente dalla normale attività legislativa. E’ probabile che in questo accenno sia contenuto il germe delle direttive politiche dell’opposizione nel futuro parlamento: il Parlamento già screditato ed esautorato per il meccanismo elettorale da cui è sorto, non può discutere di riforme costituzionali, ma ciò può essere fatto solo da una Costituente. E’ probabile che la parola d’ordine della Costituente ridiventi attuale. [10]
Questo possibile scenario pone almeno due priorità. La prima è lottare contro qualsiasi ipotesi semplicistica delle prospettive future. La mobilitazione della classe operaia è l’unica che può sconfiggere il regime fascista. Questo però non significa che tale processo si esprimerà immediatamente nella lotta per la rivoluzione socialista. Vi potrebbero essere una serie di fasi intermedie, dominate dall’esigenza diffusa tra la massa di lottare per rivendicazioni di natura democratica. Se i comunisti non comprendono tale fase, se non fanno propria questa esigenza, rischiano di relegarsi alla passività, di lasciare il movimento in mano alle manovre della borghesia liberale e dei riformisti:
Sraffa crede che l’avvenire sarà del nostro partito…La predestinazione non esiste per gli individui e tanto meno per i partiti: esiste solo l’attività concreta, il lavoro ininterrotto, la continua adesione alla realtà concreta storica in sviluppo (…) se il nostro partito non trovasse anche per oggi soluzioni autonome, proprie, dei problemi generali, italiani, le classi che sono la sua base naturale si sposterebbero nel loro complesso verso le correnti politiche che di tali problemi diano una qualsiasi soluzione che non sia quella fascista[11].
La seconda priorità è però la lotta più risoluta contro qualsiasi illusione nella cosiddetta borghesia “democratica”. Al contrario si tratta di smascherarne le manovre. Ancora una volta, facendo proprie le rivendicazioni democratiche, inclusa la parola d’ordine della Costituente, i comunisti devono evitare che tale rivendicazioni servano a rendere passive le masse, a cullarle nell’attesa delle sorti progressive della democrazia borghese, a subordinarle ai partiti liberali e riformisti:
La massa operaia e quindi anche i membri del partito che non possono considerarsi un qualche cosa di avulso dalla masse, cadono sotto il dominio della campagna sistematica fatta dai dirigenti dello Stato attraverso tutti gli organi che formano l’opinione pubblica (…) per sostenere che il programma rivoluzionario ha fatto fallimento e che per almeno cinquanta anni non se ne potrà più Nella migliore delle ipotesi questa campagna riesce a determinare uno stato di passività, di rinunzia al lavoro immediato rivoluzionario, di aspettazione che i partiti operai collaborazionisti riescano, attraverso la formazione di un governo di blocco democratico, a ricostruire l’ambiente di libertà in cui le forze rivoluzionarie possano riorganizzarsi. [12]
Non si tratta quindi di ampliare le illusioni sulla futura fase democratica, ma di accorciarle. Il fascismo è sorto per l’esigenza vitale della borghesia di reprimere il movimento operaio. Tale esigenza non scompare con il venire meno del fascismo. Se il regime fascista dovesse cadere in conseguenza di una rivolta generalizzata, la borghesia non potrebbe fare altro che separare il più rapidamente le proprie responsabilità da quelle del fascismo. Ma nel fare questo si guarderebbe bene dal rimuovere completamente tutto l’armamentario fascista. Lo conserverebbe sotto altre forme, pronto a intervenire al momento opportuno.
Se i comunisti si lasciassero inglobare nelle manovre della borghesia liberale finirebbero per dirottare la rivoluzione verso un semplice cambio di facciata. Compierebbero un doppio errore. Per quanto dominata da rivendicazioni democratiche, la prima fase di scontro con il fascismo non potrebbe che avere natura insurrezionale. Lo scopo del Pcdi dovrebbe essere quello di lottare per trasformare la rivoluzione democratica in rivoluzione socialista, senza soluzione di continuità:
Il fascismo ha posto in Italia un dilemma molto crudo e tagliente: quello della rivoluzione in permanenza e della impossibilità non solo di cambiar forma allo Stato, ma semplicemente di mutar governo altro che con la forza armata. [13]
Questa è la prospettiva delineata da Gramsci nelle Tesi di Lione nel 1926. Queste sono le idee con cui giunge alle soglie della sua prigionia. Non è questo il testo e il luogo in cui approfondire le ragioni e le circostanze che lo portano a sottovalutare la possibilità di una stretta autoritaria definitiva del regime. Basti dire qui che il piano di espatrio e di passaggio alla clandestinità non scatta come dovuto. Gramsci è diretto a Genova. Deve partecipare ad una riunione del Comitato Centrale del Pcdi alla presenza di un inviato dell’Internazionale Comunista. Il tema in discussione è proprio lo scontro all’interno del partito comunista russo e dell’Internazionale. Gramsci ha scritto una lettera a Togliatti a riguardo. Un testo che è stato vissuto come una sconfessione implicita dei metodi burocratici della maggioranza staliniana in Russia. Ma Gramsci non riesce ad arrivare alla riunione. L’ennesimo attentato contro Mussolini fornisce il pretesto al regime per effettuare l’ultimo giro di vite. A Milano Gramsci è invitato dai Carabinieri a tornare indietro. Prende il treno per tornare a Roma dove viene arrestato da lì a poco. Per lui si aprono le porte del carcere, proprio quando in Unione Sovietica il processo degenerativo interno al partito bolscevico sta raggiungendo l’apice.
Egli è quindi sottratto alla discussione sugli sviluppi interni al comunismo internazionale. Dal dicembre 1926 non ha più modo di commentarli liberamente né approfonditamente. E questo ha una doppia implicazione. Da un lato la prigionia lo neutralizza. Il suo contributo viene meno proprio quando lo stalinismo sta allungando la propria ombra su tutti i partiti dell’Internazionale. Dall’altra parte, però, Gramsci in carcere, rimanendo fedele a se stesso, rimanendo fedele a quanto detto, scritto e imparato durante la sua precedente militanza costituisce una smentita vivente del nuovo corso burocratico.
[1] Elementi di discussione sulla tattica, L’Unità, 1924
[2] PAOLO SPRIANO, Storia del Partito Comunista italiano, Einaudi Editorie. Torino, 1967, vol. 1, p. 327
[3] LIVIO MAITAN, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1987.
[4] ANGELO ROSSI, GIUSEPPE VACCA, Op. Cit., p. 241
[5] ANTONIO GRAMSCI, La costruzione del partito comunista, Eindaudi, pp. 36-37.
[6] LEONARDO PAGGI, Le strategie del potere in Gramsci, Editori Riuniti, Roma, p. 256.
[7] Ivi, p.114.
[8] Dichiarazione dell’esecutivo comunista, Unità, 20 settembre 1924.
[9] LEONARDO PAGGI, Op. Cit , p.289
[10] ANGELO ROSSI, GIUSEPPE VACCA, Op. Cit, p. 120
[11] Ivi, p. 209.
[12] Ivi, p. 173.
[13] ANGELO ROSSI, GIUSEPPE VACCA, Op. Cit, p. 113