Gramsci è il primo all’interno del partito socialista a formulare la possibilità dell’affermarsi della reazione fascista. E se questo avviene, è perché il gruppo dell’Ordine Nuovo è l’unico nell’intero partito socialista a rendersi conto dell’importanza della sconfitta subita dal proletariato nell’aprile del 1920 a Torino. Una sconfitta che non dice la parola fine sulle possibilità rivoluzionarie in Italia, ma da cui è necessario trarre tutte le conseguenze. Sull’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920, viene pubblicata la nota “Per un rinnovamento del partito socialista”:
La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: – o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa di produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria o governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito Socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i Sindacati e le Cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese [1]
Quanto scritto troverà una drammatica e rapida conferma. Ciò che è successo a Torino ad aprile, si ripete in tutta Italia a settembre con un’ondata di occupazioni di fabbriche. La sconfitta di tale movimento per le mancanze della direzione del partito socialista, insieme alle numerose sconfitte subite dai contadini nelle campagne, apre le porte all’improvvisa ascesa dello squadrismo fascista.
Il fascismo quindi non è una fatalità storica. Né è il frutto della natura reazionaria di un solo particolare blocco della borghesia. E’ la convulsione del sistema in crisi, la reazione di fronte alla possibilità di una rivoluzione. Ma tale reazione non si attenua con lo scemare del movimento rivoluzionario, come la fiamma del fornello si abbassa diminuendo il gas. E’ costante illlusione del riformismo che la controrivoluzione si limiti, limitando la rivoluzione. Ma entrambe sono la dimostrazione del fatto che gli equilibri sono rotti. La società è condannata ad un balzo in avanti o alla peggiore regressione. E’ nel solco di questa idea che Gramsci inizia ad analizzare la decadenza della democrazia borghese italiana. Scrive alla nascita del Ministero Giolitti:
la democrazia parlamentare perde le sue basi di appoggio, il paese non può essere più governato costituzionalmente, non esiste e non potrà più esistere una maggioranza parlamentare capace di esprimere un ministero forte e vitale, che abbia cioè il consenso dell’ “opinione pubblica”, che abbia il consenso del “paese”, cioè delle classi medie [2]
La democrazia borghese è solo una delle forme di dominio del capitalismo. La piccola borghesia è il principale lubrificante di tale particolare meccanismo di Governo. L’arena della piccola borghesia non può essere la grande lotta sociale, perché su questo terreno essa non ha alcuna grande controparte. Non ha sotto di sé enormi masse di proletari da affossare, né può lottare direttamente contro il grande capitale la cui oppressione le si presenta sotto la forma impersonale del mercato. Il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato le impediscono di crescere e trasformarsi in grande capitale. Il rafforzamento del grande capitale la conducono al fallimento e la proletarizzano. La via economica le è dunque preclusa.
Per questo, scarica la propria energia – e nella gran parte dei casi la propria frustrazione – sul terreno della politica. Per questo l’unico terreno che le appare degno di conquista è quello dello Stato. Lo tira per la giacchetta in un senso o nell’altro. E’ anarchica quando lo Stato deve sparire per lasciare spazio ad un mondo privo di tasse. Ed è allo stesso tempo la sostenitrice di uno Stato forte, perché i suoi piccoli affari non possono sopportare lunghi periodi di turbamenti.
Tale ceto si autoproclama medio, perché ritiene di non avere né i difetti dei lavoratori salariati né quelli del grande capitale, pur sentendosi dotato delle qualità di entrambi i poli della società. Si ritiene l’anello di congiunzione in grado di rappresentare l’intera società. Ma in questo suo rappresentare tutti, c’è in realtà il suo non rappresentare nulla. Ogni qual volta si tratta di grandi lotte economiche e sociali, torna a rivelarsi uno zero. Ha un reddito insufficiente per impossessarsi delle leve economiche della società, ma sufficiente per sostenere la propria promozione sociale. Dal suo seno vengono notabili, avvocati, giornalisti. Per ogni grande avvocato al servizio di un grande capitalista, per ogni parlamentare in contatto con i salotti dell’alta borghesia, per ogni amministratore di una grande azienda, esistono migliaia di piccoli avvocati, notabili, consiglieri comunali e piccoli tecnici d’azienda. Un intero pulviscolo atmosferico che non vive di vita propria, ma riesce a depositarsi in ogni poro della società. E in questo sta la sua utilità. Pur non potendo giocare alcun ruolo indipendente, permea la società e trasmette capillarmente l’ideologia dominante ai ceti oppressi.
La crisi della democrazia borghese è quindi prima di tutto la crisi della piccola borghesia. La delusione per la prima guerra mondiale e le sue sirene nazionaliste, l’enorme aumento del carico fiscale, la spietata concorrenza del grande capitale in crisi, determinano un distacco della piccola borghesia dal meccanismo democratico e parlamentare. Scrive Gramsci nel 1921:
La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel “cretinismo parlamentare”. (…) [Ma] il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l’unico strumento di conrollo e di opposizione agli arbitrii del potere amministrativo è l’azione diretta, è la pressione dall’esterno. [3]
Tra il 1919 e il 1920 la piccola borghesia si avvicina alla rivoluzione socialista. E’ disponibile a dare credito all’azione del proletariato e della sua organizzazione politica, ad aiutare o semplicemente restare neutra di fronte ai tentativi di rovesciare l’ordine esistente. Quando la rivoluzione fallisce, però, la classe operaia non perde solo per sé, ma perde anche l’appoggio di tutti i settori oppressi della società:
[la piccola borghesia] avendo visto che la lotta di classe non è riuscita a svilupparsi e a concludersi, nuovamente la nega, nuovamente si diffonde la persuasione che si tratti di delinquenza, di barbarie, di avidità sanguinaria. La reazione, come psicologia diffusa, è un portato di questa incomprensione. [4]
La piccola borghesia non può tollerare di essere stretta a lungo nella morsa tra lotta operaia e dominio del grande capitale. Per sopravvivere alla crisi, ha bisogno che una di queste due forze vinca in maniera definitiva. O con il proletariato per liberarsi dall’oppressione dello Stato e dei debiti verso le banche, o con la grande borghesia contro qualsiasi forma di sciopero o rivendicazione sindacale: questo è il bivio. Nel 1920 la rivoluzione è fallita, dimostrandosi incapace di sciogliere questo nodo. Per la piccola borghesia non vi è nessun ritorno al vecchio parlamentarismo, ma direttamente il passaggio alla controrivoluzione.
Qua sta la peculiarità del fascismo. Per la prima volta, la piccola borghesia sembra trovare una propria forza autonoma nella società. Egemonizza l’esasperazione sociale dei ceti oppressi con una fraseologia ribelle e pseudo-rivoluzionaria. Con tale fraseologia incendia l’immaginazione e avvolge i settori più arretrati del movimento operaio e contadino, lega a sé il sottoproletariato. Il disoccupato entrando nelle bande fasciste sente di poter dominare la società. Da reietto è improvvisamente invitato a mangiare al tavolo del padrone. Da ricercato della polizia, ha improvvisamente accesso alle sue grazie.
Tuttavia né piccola borghesia né sottoproletariato possono giocare un ruolo autonomo. Il loro ruolo non è in ultima analisi preponderante in una società basata sui grandi mezzi di produzione. Il piccolo commerciante dipende dalla banca, vende nel proprio negozio i prodotti della grande produzione e non ha potere di determinare le scelte di un intero Stato come fanno i grandi gruppi industriali. Il sottoproletario può costituirsi in banda fascista ma ha bisogno di una forza esterna che lo finanzi. La sua azione può mantenersi indipendente solo per un periodo breve:
[la piccola borghesia] scimmieggia la classe operaia, scende in piazza (…). si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta [ora] la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. (…) il proprietario per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata la quale per mascherare la sua reale natura deve assumere atteggiamenti politici “rivoluzionari”. (…) [Ma] Sviluppandosi il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce più a nascondere la sua vera natura. (…) La piccola borghesia anche in questa ultima incarnazione politica (…) si è dimostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, agente della controrivoluzione. [5]
Dunque il fascismo non è una forza borghese qualunque. E’ “un movimento sociale, l’espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrici”. [6] Non attacca le organizzazioni del movimento operaio per ciò che dicono o per ciò che vogliono, ma direttamente per ciò che sono. Eppure il fascismo non minaccia solo le organizzazioni della classe ma anche la democrazia borghese che indirettamente ne permette l’esistenza. Non deve solo spezzare i picchetti operai con lo squadrismo, ma anche abrogare il diritto di sciopero. Non deve solo colpire la stampa operaia, ma anche il diritto democratico borghese alla libertà di stampa. La sua azione si pone fuori dalla legalità esistente, seppure tale legalità rimanga solo e soltanto di origine borghese.
Non esiste quindi una contraddizione tra i fascisti e il parlamentarismo borghese, tra Mussolini e Giolitti? Non esiste uno scontro tra squadrismo e forza pubblica statale? Non devono i comunisti difendere la seconda in contrapposizione al primo? Non devono in ultima analisi allearsi con la democrazia borghese contro la repressione fascista? La risposta di Gramsci è categoricamente negativa. La democrazia borghese non entra in crisi perché minacciata dal fascismo, ma è la decomposizione stessa della democrazia borghese a fornire la base della minaccia fascista. Il fascismo è l’annuncio che per la borghesia anche la propria stessa democrazia rappresenta un costo eccessivo. Legandosi mani e piedi alla borghesia democratica, le forze del movimento operaio non possono che essere travolte dal suo stesso processo di disgregazione:
il partito socialista (…) è oggi il massimo esponente e la vittima più cospicua del processo di disarticolazione (…) che le masse polari italiane subiscono come conseguenza della decomposizione della democrazia.[7]
Gramsci si spinge a dire: “è una premessa necessaria per la rivoluzione che anche in Italia avvenga la completa dissoluzione della democrazia parlamentare”. Ma forse finché resiste Giolitti non c’è speranza di evitare l’avvento di Mussolini? Finché resiste il diritto borghese democratico, con il suo contorno di Carabinieri, Polizia, guardie regie, non si può sperare che tutto questo funga da barriera contro l’illegalità fascista? La democrazia borghese non può fermare l’avanzata fascista perché non ha forze su cui contare. Ha perso l’appoggio della piccola borghesia e non ha i favori del grande capitale. Quest’ultimo ha deciso ormai per l’opzione fascista. Nel campo del parlamentarismo, rimangono solo generali senza esercito: vecchi senatori, grandi intellettuali che hanno speso la propria vita a reprimere il proletariato in nome della legalità costituita e che ora invocano l’intervento del proletariato stesso a difesa di tale legalità. La loro ultima funzione consiste nel proporre una tregua al movimento operaio, immobilizzandolo; propagandano l’illusione che, difendendo lo Stato, si convincerà lo Stato a rivolgere le proprie armi contro il fascismo. Ma ribadisce Gramsci:
Giolitti è impotente (…) perché a Bologna, a Milano, a Torino, a Firenze, i suoi funzionari sostengono il fascismo, armano i fascisti, si confondono coi fascisti; perché in tutti questi centri il fascismo si confonde con la gerarchia militare, perché tutti in questi centri il potere giudiziario lascia impunito il fascismo[8]
E di fronte al Governo Bonomi insiste:
Il nuovo presidente del Consiglio, onorevole Bonomi, è il vero organizzatore del fascismo italiano. (…) egli viene dal socialismo. La borghesia si affida a questi uomini appunto perché hanno militato e capeggiato nel movimento operaio; essi ne conoscono le debolezze e sanno corrompere gli uomini. L’avvento di Bonomi al potere, dopo l’ingresso dei fascisti in Parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà illegale. [9]
Tra Stato e partito fascista, tra squadrismo e Carabinieri, tra legalità democratico borghese e illegalità fascista, non vi è totale identità. Ma non vi è nemmeno contrapposizione frontale. Vi è un rapporto dialettico. L’una si trasforma nell’altra. Si sorreggono, si compenetrano, per arrivare ad una sintesi reciproca:
Il fascismo è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato (…); il fascismo è l’illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza: è nota legge storica che il costume precede il giudice. (…) Il fascismo ha assaltato le Camere del Lavoro e i municipi socialisti: lo Stato restaurato scioglierà “legalmente” le Camere del Lavoro e i municipi che vorranno rimanere socialisti. Il fascismo assassina i militanti della classe operaia: lo Stato restaurato li manderà “legalmente” in galera e, restaurata anche la pena di morte, li farà “legalmente” uccidere. [10]
E ancora:
La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degli ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell’umanità. Non s’era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: l’una interna, la sostanziale, l’altra esterna, la formale. (…) La realtà ha mostrato nel modo più evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gli interessi della classe dominante (…). Il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale. (…) E’ sorto così il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo dell’illegalità la sola cosa legale. [11]
Deve quindi il movimento operaio rinunciare alla difesa della democrazia, seppur borghese? No, ma deve avere chiaro che tale difesa non significa perdere la propria indipendenza di classe a favore di un’alleanza con le forze democratico-borghesi. Queste sono solo un’ombra del passato. Lo Stato “democratico” passa armi e bagagli al fascismo. Le rivendicazioni democratiche sono proprio per questo da includere con ancora più forza nel programma comunista. Ma lo scopo di tale inclusione non è quella di ravvivare nuovamente le illusioni democratiche delle masse, ma al contrario di demolirle. Facendo propria la lotta democratica, i comunisti dimostrano che solo la lotta contro il capitalismo può fornire una base al mantenimento della democrazia. Il bivio è lo stesso delineato nell’aprile del 1920, o fascismo o rivoluzione:
Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbitri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni, può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato “restaurato” come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l’unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dalla produzione. [12]
Nel 1921 non ci sono dubbi su cosa Gramsci intenda per “nuovo potere di Stato”: uno Stato operaio basato su una democrazia di natura consiliare e sulla nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione. Cambiò idea a riguardo? Era quella solo una concezione infantile destinata ad essere abbandonata con il tempo? Se c’è stato un momento in cui tale abbandono sarebbe potuto sembrare giustificato, questo momento è l’Aventino. Nel 1924, infatti, sembra destarsi un fronte democratico borghese in opposizione al fascismo. Non era quindi il caso di abbandonare ogni analisi precedente e lanciarsi nelle braccia di un blocco nazionale democratico?
[1] Per un rinnovamento del partito socialista, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920.
[2] Giolitti al potere, Ordine Nuovo, 12 giugno 1920.
[3] Ordine Nuovo, 2 gennaio 1921.
[4] Ivi
[5] Ivi
[6] Il carnefice e la vittima, Ordine Nuovo, 17 luglio 1921.
[7] L’Ordine Nuovo, 25 settembre 1921.
[8] Avanti, 11 dicembre 1920.
[9] Bonomi, Ordine Nuovo, 5 luglio 1921.
[10] Avanti, 24 novembre 1920.
[11] Legalità, Ordine Nuovo, 28 agosto, 1921.
[12] Forze Elementari, Ordine Nuovo, 26 aprile 1921