Il 23 settembre, con una cerimonia annunciata solo a cose fatte, Aleksandr Lukashenko si è insediato per la sesta volta alla Presidenza della Repubblica di Bielorussia, dopo che le elezioni tenutesi lo scorso 9 agosto lo avevano riconfermato con un risultato ufficiale di più dell’80% dei consensi. Un risultato palesemente truccato, come del resto tutti i precedenti tranne le prime elezioni vinte da Lukashenko nel 1994, e che ha suscitato ancora una volta accuse di brogli e proteste di piazza. Questa volta però le proteste hanno assunto dimensioni di massa molto più ampie che in passato e a distanza di due mesi dal loro inizio, per quanto affievolite, non sembrano intenzionate a cessare.

Questo movimento ha subito trovato il sostegno interessato e opportunista dell’imperialismo euro-atlantico, mentre un settore che potremmo definire di “sinistra campista” sostiene apertamente Lukashenko, considerando il movimento di massa che è sceso nelle strade di Minsk e delle altre città bielorusse l’ennesimo tentativo di “rivoluzione colorata” sulla scorta della Maidan ucraina, mentre il sempiterno presidente bielorusso sarebbe un campione dell’anti-imperialismo e un difensore della classe operaia.1

C’è una curiosa convergenza tra queste due posizioni. Entrambe infatti considerano la Bielorussia una sorta di ultimo residuo della vecchia URSS, facendone però discendere valutazioni di merito opposte: Lukashenko ultimo dittatore comunista d’Europa per la borghesia e i suoi pennivendoli, ultimo baluardo contro l’imperialismo e la NATO per i nostalgici del “campo socialista”. La realtà, come spesso accade, è decisamente più complicata di così.

Una transizione al rallentatore

L’idea di una Bielorussia rimasta bloccata, per qualche inspiegabile ragione, in epoca sovietica mentre nel resto dell’ex URSS veniva restaurato il capitalismo, è qualcosa che non ha attinenza con la realtà di quel paese, è un’interpretazione che pur partendo da alcuni elementi di verità li distorce a tal punto da trasformarli in una menzogna. La realtà è che anche in Bielorussia è stato avviato un processo di restaurazione dell’economia capitalistica come nelle altre repubbliche ex-sovietiche ma la transizione in questo paese è avvenuta come al rallentatore.

Lukashenko non è un comunista, quando venne eletto per la prima volta nel 1994 incentrò anch’egli la sua campagna elettorale sulla necessità di reintrodurre un’economia di mercato e anche in seguito ha in più occasioni ribadito la necessità di continuare sulla strada di ulteriori privatizzazioni. Tutto questo però mantenendo alcuni settori strategici nelle mani dello stato (anche se in forma di società per azioni e quindi in un’ottica comunque capitalista), procedendo quindi con modalità meno selvagge che non in Russia e Ucraina e conservando almeno un’ossatura di stato sociale che in Bielorussia non è stato completamente devastato come negli altri paesi ex socialisti.

Niente a che vedere con il socialismo, dunque, ma piuttosto con una forma di capitalismo regolamentato e paternalista che, pur in un sistema politico con forti elementi di autoritarismo, ha consentito alla Bielorussia per un certo numero di anni di avere un’economia più stabile dei suoi vicini, livelli di disoccupazione molto bassi e un tenore di vita generale più dignitoso e con disuguaglianze meno marcate rispetto alla Russia o anche alla Polonia2. E’ questo che ha garantito al presidente bielorusso un livello di consenso significativo in ampi strati di popolazione, anche se non certo corrispondente ai risultati elettorali plebiscitari che hanno regolarmente caratterizzato le elezioni dal 1994 a oggi.

Nonostante ciò, Lukashenko non è mai stato ostile al capitale Bielorusso il quale, per un certo numero di anni, ha considerato la stessa presenza dello stato in alcuni settori economici come un elemento di stabilità. Il presidente bielorusso ha peraltro a più riprese sostenuto le aziende con aiuti e sgravi di vario tipo, che hanno certo contribuito non poco a favorire uno sviluppo economico non così arretrato come saremmo inclini a pensare.

La Bielorussia ha per esempio sviluppato moltissimo il settore Hi-Tech, creando perfino un distretto chiamato “Parco dell’Alta Tecnologia”3. Il parco venne fondato nel 2005 e tra i suoi ideatori troviamo quel Valerij Tzepkalo poi divenuto uno dei rivali politici di Lukashenko e fuggito all’estero dopo che la sua candidatura era stata rifiutata. Nel 2019 dal polo informatico è derivato quasi il 50% della crescita del PIL nazionale. L’esportazione di servizi informatici ha fruttato 2 miliardi di dollari tra il 2017 e il 2019 e questo settore rappresenta il 6.5% del PIL contro il 7.2% rappresentato dall’agricoltura4. Le 886 aziende che affollano questo distretto possono godere di un’esenzione fiscale quasi totale e i loro dipendenti hanno un’imposta fissa sul reddito di appena il 9%. Ma nonostante questo, gran parte delle aziende ha minacciato di abbandonare il paese se il blocco di internet continuerà e diversi loro dirigenti hanno firmato un appello per la cessazione delle violenze. E’ evidente che l’apparato statale non può sviluppare il mercato capitalistico con la stessa libertà che vorrebbero le aziende che pure gratifica così tanto.

Tra i gentili omaggi che il presidente bielorusso ha offerto in questi anni ai capitalisti del suo paese vi sono infatti anche i contratti collettivi praticamente azzerati e sostituiti con la contrattazione individuale, l’enorme diffusione dei contratti a termine, tra l’altro con una bizzarra clausola che di fatto impedisce a un lavoratore di licenziarsi prima della scadenza del contratto, e una riforma delle pensioni che innalza l’età in cui è possibile lasciare finalmente il lavoro5.

Tutto nella miglior tradizione del peggior capitalismo, alla faccia del Lukashenko difensore dei lavoratori che affolla i sogni dei campisti.

La crisi economica, a partire dal 2009, ha accelerato ulteriormente queste dinamiche ed è stata la causa più profonda dell’esplodere delle proteste, di cui gli ennesimi brogli elettorali sono stati soltanto un detonatore. Da un lato si è accentuato l’orientamento pro-mercato di Lukashenko, che ha iniziato a perdere consenso in quei settori di lavoratori che erano stati per anni la sua base di appoggio, anche se prevalentemente passivo: a fronte di un costante peggioramento delle proprie condizioni di vita, anche ampi settori di classe operaia, oltre che le classi medie urbane, hanno iniziato a trovare sempre più intollerabile l’autoritarismo del regime. Dall’altro, la borghesia bielorussa ha iniziato a premere per concludere il processo di privatizzazione e far rientrare nel mercato i settori economici ancora in mano allo stato, puntando al tempo stesso a liberarsi dell’ormai ingombrante presenza di Lukashenko. Su questo si è incentrata la campagna elettorale dei principali candidati dell’opposizione. Su questo si innesta poi uno scontro tra l’imperialismo occidentale e quello russo.

Lukashenko ha sempre cercato di mantenere i piedi in due staffe6, mantenendo relazioni sia con la Russia, dalla quale la Bielorussia dipende per le forniture di gas e petrolio, sia con l’Europa, con cui vi erano fino a prima di quest’ultima crisi normali rapporti commerciali (la Bielorussia è da anni una destinazione di outsourcing per il settore IT).

Il grande capitale russo, e di conseguenza Putin e il suo governo, ha interesse a entrare nell’apparato produttivo della Bielorussia e un’accelerazione delle privatizzazioni lo favorirebbe. Non è un caso che nello scacchiere delle elezioni presidenziali anche la Russia avesse il proprio candidato preferito, Viktor Babariko, amministratore delegato della filiale locale della banca russa Gazprombank, per tentare di rimpiazzare un Lukashenko ormai troppo impopolare e ancor meno affidabile che in passato. Oltre a questo, la Russia ha già forti legami economici con la Bielorussia7 e sono in corso da tempo negoziati per arrivare ad una forma di legame confederale tra i due paesi, naturalmente sotto l’egemonia di Mosca che detiene attualmente il 38% del debito pubblico bielorusso. Legami che verrebbero naturalmente compromessi da una vittoria dell’opposizione filo-occidentale.

Il riallineamento della borghesia bielorussa, o almeno di gran parte di essa, su posizioni filo-UE e Nato è in parte dovuto proprio alla competizione con il capitale russo. Le mire di quest’ultimo sull’apparato produttivo bielorusso e la strumentalizzazione della dipendenza energetica del paese potrebbero rinfocolare il sentimento nazionalista in alcuni settori di popolazione e giocare a favore dell’opposizione filo-occidentale.

Natura di classe dell’opposizione, ruolo della classe operaia e stato della sinistra

L’opposizione “ufficiale”, che si è compattata attorno alla figura di Svetlana Tichanovskaya, ha un carattere chiaramente borghese ed esprime gli interessi di quell’ampio settore di capitale bielorusso che vuole riprendere, accelerandolo, il processo di privatizzazione dell’economia nazionale e di definitivo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Attualmente le parole d’ordine di questo fronte sono concentrate sulle rivendicazioni democratiche: dimissioni di Lukashenko, liberazione degli arrestati ecc. Tuttavia, le rivendicazioni espresse nella campagna elettorale erano molto chiare e la loro natura di classe emerge anche dalla composizione del Consiglio di Coordinamento dell’opposizione nel quale i rappresentanti dell’imprenditoria, delle professioni e del mondo accademico la fanno da padroni con alcuni rappresentanti operai a fare da foglia di fico8. Peraltro, le modalità di ammissione a questo Coordinamento sono tali per cui i membri vengono di fatto selezionati dallo staff della Tichanovskaya. Difficile pensare che i singoli, sparuti “rappresentanti dei lavoratori” abbiano un qualche legame reale con le fabbriche.

Questo però non significa che le proteste contro Lukashenko siano un tentativo di “rivoluzione colorata” eterodiretto dall’estero. Si tratta di un movimento di massa genuino e, a differenza del passato, con una significativa presenza operaia9. E’ balzato agli onori della cronaca l’episodio in cui Lukashenko è stato cacciato dallo Stabilimento di trattori gommati di Minsk (MZKT), dove era andato a tentare un comizio di fronte ai lavoratori. E’ un episodio aneddotico ma indice del crescente scollamento tra il regime e quella che fino a non molto tempo fa era la sua principale base di appoggio.

I lavoratori delle principali fabbriche del paese sono anch’essi parte integrante del movimento di protesta contro il presidente e hanno anche organizzato alcuni scioperi. In condizioni critiche tra l’altro, visto che in Bielorussia è possibile scioperare solo se aderisce preventivamente almeno il 50% dei dipendenti dell’azienda e se lo sciopero ha una natura economica o è comunque causato da un conflitto con la direzione aziendale. Gli scioperi “politici” sono di fatto vietati. Non a caso Lukashenko ha minacciato ritorsioni contro gli scioperanti.

Tuttavia, gli scioperi sono rimasti per ora episodi isolati, e benché ci siano tentativi da parte di alcuni settori più radicali di istituire un coordinamento di sciopero nazionale10, al momento non sono ancora riusciti a trasformare la partecipazione operaia in un elemento in grado di contendere all’opposizione borghese l’egemonia della direzione delle proteste11.

Il problema, come sempre, è la mancanza di organizzazioni sia sindacali che politiche all’altezza della situazione. I sindacati ufficiali sono di fatto degli organismi para-statali e supinamente schierati con Lukashenko. Ci sono alcuni piccoli sindacati indipendenti ma con scarsissimo radicamento e in condizioni di semi-clandestinità.

Sul terreno politico le cose non vanno certo meglio. Il Partito Comunista di Bielorussia è un’organizzazione di impronta stalinista che appoggia a spada tratta Lukashenko in un’ottica campista. Esiste un altro partito di sinistra, nato nel 1996 con il nome di Partito dei Comunisti Bielorussi da una scissione dal precedente proprio in dissenso rispetto all’appoggio a Lukashenko e adesso ridenominatosi Mondo Giusto. Aderisce al Partito della Sinistra Europea e ne replica tutti i difetti, anche se al suo interno agiscono anche correnti marxiste. In ogni caso non ha praticamente alcun radicamento nella classe lavoratrice e il suo candidato alle elezioni presidenziali ha ottenuto l’1,2% dei voti12.

Ci sono anche altre organizzazioni, ancora più piccole, come per esempio il Partito Comunista Bielorusso dei Lavoratori (BKPT)13, una formazione che potremmo definire “stalinista di sinistra”, assolutamente acritica verso l’esperienza sovietica ma al tempo stesso consapevole che quello di Lukashenko è un regime di bonapartismo borghese contrario agli interessi della classe lavoratrice bielorussa. In ogni caso, nessuna di queste organizzazioni è al momento in grado di giocare un ruolo decisivo nel movimento di massa.

In assenza di un’organizzazione che possa già ora proporsi come direzione politica alternativa alla destra liberale, l’unica possibilità risiederebbe teoricamente nelle capacità del movimento stesso ossia che emergesse dalle stesse lotte una leva di quadri operai in grado di costituirsi in direzione politica, iniziare a organizzare comitati di sciopero coordinati a livello nazionale e porre concretamente il problema di ricostruire una forza politica che risponda agli interessi dei lavoratori e che sia sotto il loro controllo. Ma al momento questa non è la caratteristica principale del movimento né sembra che la radicalizzazione si stia depositando in alcuna delle organizzazioni esistenti.

E’ difficile fare previsioni su quali potranno essere gli sviluppi della situazione in Bielorussia. Sembra improbabile che si possa semplicemente tornare allo status quo ante anche se al momento le proteste si sono indubbiamente affievolite rispetto alle prime settimane successive alle elezioni. Lo stesso Lukashenko però si rende conto di non riuscire più a controllare la situazione come prima e potrebbe anche essere disposto a un compromesso con l’opposizione che gli consenta di salvare la faccia e un qualche ruolo.

E’ certo che la maggioranza dei lavoratori e delle classi subalterne bielorusse, per quanto al momento subiscano un’indubbia egemonia delle forze borghesi, non sarebbero affatto disposte a vedere ulteriormente peggiorare le proprie condizioni di vita, soprattutto dopo aver preso coscienza della propria forza nelle proteste di queste settimane.

Qualunque sia il suo esito ultimo, l’esperienza di questo movimento di massa sedimenterà in almeno un settore significativo di lavoratori elementi preziosi di consapevolezza per le lotte future.

1Vedere, per esempio, le posizioni di Contropiano e di Città Futura.

QUI invece per una panoramica di posizioni analoghe di alcuni partiti comunisti stalinisti.

4Internazionale, nr. 1376, 18/24 settembre 2020