Ci fermiamo qui, nel 1921.
La marcia su Roma dell’ottobre 1922 sancirà la vittoria del fascismo e inizierà un durissimo periodo per i comunisti, che giocheranno però un ruolo centrale nella Resistenza. Una storia che continuerà ancora, pur tra mille contraddizioni, per un altro mezzo secolo.
Il PCI verrà sciolto 70 anni dopo, il 3 febbraio 1991, ma l’opera di mistificazione del congresso sarebbe iniziata dopo pochi anni. Se Bordiga sarebbe stato sempre considerato un “eretico”, una sorte peggiore sarebbe capitata a Gramsci il cui pensiero viene, col passare degli anni, sempre più annacquato fino a diventare addirittura uno dei padri “nobili” di un partito borghese come il PD.
Sembra proprio uno scherzo di cattivo gusto che il rivoluzionario sardo che lottò contro il moderatismo della socialdemocrazia, finisca per essere l’ispiratore di un partito al servizio del capitalismo. A partire dalla morte di Lenin, praticamente tutti i partiti comunisti divennero degli strumenti della politica estera di Mosca. Appoggiando le svolte e le controsvolte del Comintern, che verrà sciolto nel 1943, il faro di questi partiti sarebbe divenuto un riformismo nazionalista, dimenticando col tempo le tradizioni di lotta della loro fondazione.
La svolta di Salerno e la democrazia progressiva di Togliatti, che era stato tra i fondatori de “L’Ordine Nuovo” insieme a Gramsci, il compromesso storico e l’eurocomunismo di Berlinguer, fino alla Bolognina di Occhetto sono l’insieme di svolte e controsvolte che caratterizzano la storia del Partito Comunista Italiano.
Non ci stupisce quindi il giudizio su Livorno da parte dell’ultimo segretario del PCI, Achille Occhetto:
“La debolezza più evidente di quel congresso è stata che, invece di discutere del dramma che si stava abbattendo sull’Italia, ha posto al centro del dibattito le modalità di una pretesa rivoluzione mondiale che secondo l’emissario dell’Internazionale, il vero relatore del congresso, batteva alle porte. La cosa che più fa riflettere è che una frattura così clamorosa si sia consumata mentre erano già in atto le violenze squadriste.
Proprio alla vigilia della marcia su Roma. I socialisti si riuniscono a congresso e non c’è traccia di discussione sul fascismo nascente e sulle misure unitarie atte a fronteggiarle. Non solo. L’unico accenno al fascismo è la nefasta affermazione di Bordiga secondo cui riformismo e fascismo si equivalevano e dovevano essere combattuti alla stessa stregua. La discussione fu prevalentemente dominata dal diktat di Lenin che imponeva la cacciata dei riformisti e dal vergognoso anatema contro gli stessi socialisti unitari tacciati di tradimento.
La nefasta definizione di socialfascismo era già in nuce. Nello stesso tempo occorre rendersi conto che oggi non celebriamo il centenario dello stesso partito nato a Livorno. Già poco dopo la fondazione del Partito, Gramsci si rese infatti conto dell’insuccesso della scissione tra il proletariato. ‘Fummo sconfitti – scriverà – perchè la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto. Fummo, bisogna dirlo, travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana’. Questa è una pietra miliare del giudizio sulla scissione di Livorno.”1
Occhetto riprende in questa intervista i concetti espressi nel libro di Ezio Mauro di cui abbiamo già parlato. Cita inoltre Gramsci, per dimostrare che il fondatore de “L’Ordine Nuovo” a posteriori condannerà la scissione. Eppure si dimentica di precisare che quelle parole sono tratte da un articolo intitolato “Contro il pessimismo”, in cui l’autore riconosce che il partito non era riuscito a conquistare la maggioranza del proletariato, senza però mettere in discussione le ragioni della divisione, né l’appartenenza alla Terza Internazionale.
Lasciamo parlare Gramsci:
“Nessun modo migliore può esistere di commemorare il quinto anniversario della Internazionale comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi rivoluzionari italiani, più che mai parte attiva e integrante, che quello di fare un esame di coscienza, un esame del pochissimo che abbiamo fatto e dell’immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo così a chiarire la nostra situazione, contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e greve nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti più qualificati e responsabili e che rappresenta un grande pericolo, il più grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso l’avvenire.
Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro paese; la situazione lo spiega, ma non lo giustifica, naturalmente. Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, tra la nostra volontà e la tradizione del Partito socialista, se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera?
Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, se anche noi, partendo sia pure da altre considerazioni, da altri punti di vista, avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di dighe e canali da noi predisposto, incanalandosi e prendendo forma e potenza storica in esso? E’ questo il nodo del problema, che si presenta astrusamente aggrovigliato, perché la passività sembra esteriormente alacre lavoro, perché pare ci sia una linea di sviluppo, un filone in cui operai sudano e si affaticano a scavare meritoriamente.
[…]
Occorre reagire energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro Partito, anche dei più responsabili e qualificati. Esso rappresenta, in questo momento, il più grave pericolo, nella situazione nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislatura fascista. Si approssimano grandi lotte, forse più sanguinose e pesanti di quelle degli anni scorsi: è necessaria perciò la massima energia nei nostri dirigenti, la massima organizzazione e centralizzazione della massa del Partito, un grande spirito di iniziativa e una grandissima prontezza nella decisione. Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: – ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo definitivo.
Bisogna dimostrare a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente questa posizione. Certo bisognerà ancora lottare fortemente: certo il compito del nucleo fondamentale del nostro Partito costituitosi a Livorno non è ancora finito e non lo sarà per un pezzo ancora (esso sarà ancora vivo e attuale anche dopo la rivoluzione vittoriosa).
Ma non ci troveremo più in una situazione pre-Livorno, perché la situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo più quelli del 1920 e non lo vorremmo mai più ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molte, mutata e non sarà più la cosa più semplice di questo mondo, farle rioccupare le fabbriche con, per cannoni, dei tubi di stufa, dopo averle intronato le orecchie e smosso il sangue con la turpe demagogia delle fiere massimaliste. Perché esiste il nostro Partito, che è pur qualcosa, che ha dimostrato di essere qualcosa, e nel quale noi abbiamo una fiducia illimitata, come nella parte migliore, più sana, più onesta del proletariato italiano.”2
Non c’è altro da aggiungere, se non che aveva ragione Rosa Luxemburg quando scriveva “è bastato che l’opportunismo parlasse, per dimostrare che non aveva niente da dire”. E qui torniamo alla domanda iniziale, se oggi abbia ancora senso dividersi tra riformisti e rivoluzionari.
Rispondiamo affermativamente. Non è solo per difendere una tradizione che viene messa in discussione ogni giorno dall’idea della possibilità di influenzare i partiti borghesi e spostarli a sinistra. La collaborazione di classe ha distrutto un partito come Rifondazione Comunista, che pure tra gli anni ’90 e i primi anni di questo secolo è stato un punto di riferimento per un settore di lavoratori e di militanti.
Oggi assistiamo, in una maniera ancora più farsesca, alla parabola di Leu, che rappresenta solamente l’unione di gruppi parlamentari al servizio del governo Conte. Una organizzazione che non può quindi esistere, se non a rimorchio del PD. Nè possiamo accontentarci di commemorare questo evento con un sentimento di nostalgia “per i bei tempi andati”.
Oggi non abbiamo una rivoluzione a cui ispirarci, né un’Internazionale come quella di Lenin. Spesso ci dividiamo per la convocazione di una manifestazione. Nonostante ciò assistiamo alla lotta dei riders, alla convocazione di presidi in difesa della sanità, alle vertenze nelle fabbriche e nei magazzini, a movimenti giovanili come quello per la scuola e per l’ambiente.
Esiste però un limite, non solamente numerico, ed è la mancanza di coordinamento tra queste vertenze. Sembra che ci sia una sorta di divisione dei compiti, dove ognuno (organizzazione sindacale, partitica, centro sociale o movimento territoriale) si limita a coltivare il suo terreno di intervento.
L’esempio da tener a mente è invece proprio il processo costitutivo del Partito Comunista d’Italia, pur con i limiti di cui abbiamo parlato. E’ da qui che dobbiamo partire per aprire una discussione tra le forze della sinistra rivoluzionaria.
Tenendo sempre a mente le parole di apertura del primo numero de “L’Ordine Nuovo”:
“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.
Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo.
Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”
Note:
1 Carmine Fotia “La fine era nell’inizio. Così cominciò (e finì) l’avventura dei comunisti”. Intervista ad A. Occhetto – “L’espresso”, 20 Dicembre 2020