
L’omicidio del generale iraniano Soleimani rappresenta un passo avanti nella destabilizzazione del Medio Oriente. Molti commentatori hanno parlato di terza guerra mondiale. Lo è e non lo è. Siamo senza dubbio di fronte a una crescente tensione tra Stati e blocchi imperialisti, di cui questo è solo l’ultimo episodio. L’intero conflitto in Siria finora non è stato altro che una enorme guerra internazionale combattuta per procura, aiutando sul campo questo o quel contendente.
Tuttavia, almeno nei primi giorni, la contesa non è andata oltre a qualche scaramuccia. Né l’Iran, né soprattutto gli Usa, vogliono e possono permettersi una guerra aperta.
Ad ogni modo, l’azione di Trump non cade dal cielo. Affonda anzi le sue radici in quanto accaduto in Medio Oriente per tutto il 2019. Colto alla sprovvista dalle conseguenze dei propri errori, l’imperialismo americano è in affanno e continua a produrre errori. È precisamente questo che ha rafforzato gli imperialismi regionali nella zona. Ed è precisamente questo che va compreso non solo se ci si vuole emancipare da una idea complottista dei fenomeni internazionali ma se si vuole provare a cogliere le conseguenze di una visione di classe della società. L’errore di Trump può fare maturare un movimento per la pace in tutti gli Stati Uniti che potrebbe avere carattere esplosivo. Le fondamenta dell’imperialismo americano che scricchiolano in Medio Oriente finirebbero con lo sgretolarsi in casa.
In effetti l’invasione turca del Rojava è stato uno degli eventi più importanti di questo autunno. Da un lato perché il conflitto ha coinvolto diverse potenze (regionali e non), dall’altro perché il sentimento di forte indignazione ha dato vita a una mobilitazione significativa. L’azione intrapresa da Erdogan è la logica conseguenza della scelta di Donald Trump di ritirare le truppe da quella zona. Ufficialmente il conflitto è stato di breve durata, in seguito all’accordo stipulato da Russia e Turchia a scapito dell’esperienza del Rojava. Allo stesso tempo dobbiamo sottolineare la fragilità di questo patto: la zona è tutt’altro che pacificata, e la pietra tombale sull’esperienza del Rojava non è ancora stata posta. Sono invece bastate poche ore per mostrare la vigliaccheria dell’Unione Europea. Una panoramica generale può aiutare a comprendere i recenti fatti.
Dalla guerra civile in Siria all’amministrazione Trump
L’isolazionismo in politica estera e il protezionismo sul terreno economico sono stati senza dubbio uno dei capisaldi della campagna elettorale di Donald Trump. L’idea dell’attuale presidente americano non nasce a caso. In un periodo di difficoltà militare degli Stati Uniti (2016) per via dei molti fronti aperti, lo slogan “Make America Great Again” ha attecchito facilmente in quella parte di elettorato nostalgico del passato. L’idea di Trump era proprio quella di rilanciare gli Stati Uniti come potenza. E’ negli anni precedenti, sotto la presidenza Obama, che gli Stati Uniti giocano un ruolo importante in quell’area. Ufficialmente a partire dal 2013 (in realtà fin dall’inizio del conflitto nel 2011) la CIA supportò, in funzione anti Assad, organizzazioni antigovernative come ad esempio l’Esercito Siriano Libero, così come successivamente alcuni gruppi islamici (Mujahideen). L’obiettivo dichiarato era di combattere il governo siriano, anche se questo avrebbe comportato allo stesso tempo la crescita del fondamentalismo islamico.
Nel vicino Iraq, Obama continuò la politica del suo predecessore Bush di appoggio al governo Al Maliki e di sostegno all’esercito iracheno sempre tramite la CIA. Stiamo parlando di un governo altamente corrotto e di un esercito autore di violenze contro la popolazione sunnita, circostanze che hanno senza dubbio favorito la crescita dell’ISIS come alternativa. Se l’ISIS sia una diretta creazione o meno degli Stati Uniti non cambia i termini della questione: la successiva nascita dello stato islamico nell’estate del 2014 è interamente responsabilità dell’imperialismo occidentale (persino l’ex premier inglese Tony Blair ha ammesso – in un’intervista rilasciata alla CNN nel 2015 – che l’invasione dell’Iraq nel 2003 ha avuto delle ripercussioni sulla situazione attuale). I primi bombardamenti statunitensi avvengono in seguito all’aggressione subita dai curdi in Iraq da parte del califfato. Si crea quindi una alleanza di natura militare tra Stati Uniti e combattenti curdi. La scelta americana fu obbligata dal peso crescente dell’ISIS nella zona, circostanza che minacciava seriamente l’influenza statunitense. Gli USA si ritrovarono quindi con un doppio nemico da combattere: il governo siriano e il fondamentalismo islamico. Come hanno dimostrato gli eventi recenti, gli USA sfruttarono cinicamente il ruolo dei combattenti curdi contro Daesh, per poi scaricarli. Non è compito di questo articolo soffermarsi su pregi e limiti dell’esperienza del confederalismo democratico in Rojava, per il quale rimandiamo a successivi eventuali approfondimenti.
Con l’insediamento di Trump nel gennaio 2017 comincia a farsi strada l’idea del ritiro delle truppe da quella zona. Tuttavia, passata la campagna elettorale, la realtà si rivela più complicata. Dopo neanche tre mesi gli Stati Uniti bombardano la Siria per rispondere al presunto (poi rivelatosi falso) utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile da parte del governo di Assad. Non si tratterà dell’unico bombardamento del territorio siriano. Nel dicembre 2018 Trump annuncia tramite twitter la fine della guerra contro l’ISIS e l’inizio del ritiro delle truppe. La decisione, senza passare dal congresso, coglie di sorpresa persino il Pentagono. In realtà si tratta di uno degli annunci sensazionali tipici di Trump. L’operazione, come specificato da fonti militari, non può essere immediata.
In accordo col Presidente turco Erdogan, le truppe cominciano a lasciare il territorio solamente nell’ottobre 2019, lasciando così campo libero alla Turchia per attaccare il nemico reale: i guerriglieri curdi, che nella narrazione turca sono i veri terroristi da annientare. L’idea del ritiro del contingente di terra non significa però un disimpegno americano nella zona. La propaganda isolazionista di Trump non mette affatto in discussione il tradizionale ruolo di gendarme mondiale degli Stati Uniti. La decisione di bombardare l’aeroporto di Baghdad (con conseguente uccisione del generale iraniano Soleimani) è un segnale inviato a chi sta guidando le rivolte in Iraq. Il messaggio è chiaro: non tollereremo le vostre proteste.
Turchia, Russia, Unione Europea
Nella vicenda Rojava, la Turchia non è l’unico attore presente. Ci sono anche Russia e Unione Europea. A parole tutti sembrano indignarsi per l’aggressione militare: gli Stati Uniti rifiutano il ruolo di responsabili dell’attacco con il loro ritiro, l’Unione Europea minaccia di bloccare la vendita di armi alla Turchia, la Russia vede l’attacco turco come una minaccia alla Siria, storico alleato del Cremlino. Dopo il semaforo verde da parte degli americani, la Turchia ha ottenuto anche – nei fatti – l’approvazione dell’imperialismo europeo: è bastato minacciare di aprire le frontiere e di lasciare liberi oltre tre milioni di siriani di raggiungere il sud Europa, per neutralizzare la già balbuziente Unione Europea.
Da diversi anni la Turchia sta giocando una partita importante nella zona. Tuttavia dopo anni di crescita, la situazione economica è decisamente meno rosea: a luglio la disoccupazione ufficiale era al 13,9% e l’inflazione al 16,6% (dopo alcuni mesi oltre il 20%)[1]. In una situazione del genere la cosa migliore è concentrare i propri attacchi contro un nemico esterno. Oltre all’elemento propagandistico esiste anche una ragione oggettiva dietro alla politica estera turca: pur aderendo alla Nato, non sempre gli interessi turchi hanno coinciso con quelli americani. Se da un lato infatti Erdogan non ha perso occasione per dipingere i curdi come i veri terroristi, dall’altro non ha mai condotto una battaglia contro l’ISIS, considerando i terroristi islamici come un possibile alleato nella lotta contro la Siria. Allo stesso tempo ha però coltivato rapporti con la Russia (che non è membro della Nato e ha sempre considerato Assad uno storico alleato). Si spiega così l’accordo Turchia – Russia: un accordo che sacrifica l’esperienza del Rojava, senza nemmeno garantire la sicurezza della Siria.
La Russia dal canto suo può così proseguire nel suo tentativo di sottrarre la Turchia alla sfera di influenza di Washington, per spingerla almeno verso una posizione di equidistanza tra Mosca e la Casa Bianca. La politica estera russa ha sempre avuto come alleati nella regione Siria ed Iran. E’ tuttavia evidente come il Cremlino non abbia interesse ad uno scontro con la Turchia. Sono due i reali obiettivi di Mosca: la difesa dei propri interessi in Siria (dove si trova la base navale russa di Tartus) e l’allontanamento della Turchia dalla sfera d’influenza statunitense. Per questa ragione, pur non essendo russi e turchi alleati storici, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un avvicinamento tra le due potenze. Tutto questo a scapito del popolo curdo, ritenuto da entrambi un ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi imperialistici.
Infine l’Unione Europea. L’UE si ritrova schiacciata tra l’adesione alla Nato dei principali membri dell’Unione e la necessità di non essere completamente subalterna agli interessi degli Stati Uniti. All’interno dell’Ue ci sono inoltre interessi contrapposti tra i singoli stati. Sicuramente la minaccia di Erdogan di spedire in Europa i profughi siriani ha influito sul comportamento dei leader europei. Ma bisogna leggere la questione anche dal punto di vista economico: il 55% degli affari della Turchia sono proprio con l’UE[2]. Si spiega cosi il blocco della vendita di armi da parte di alcuni paesi: una decisione di facciata, assolutamente insufficiente per bloccare l’attacco di Erdogan.
Le conseguenze dell’accordo tra Russia e Turchia
L’accordo tra Turchia e Russia ha posto fine al conflitto, ma solo in apparenza. Sicuramente ha messo in discussione lo sviluppo dell’esperienza di autogoverno in Rojava. Un’esperienza che, pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni (tra cui l’idea di stringere una alleanza di natura militare con gli Stati Uniti per fronteggiare il fondamentalismo islamico), ha comunque rappresentato il tentativo di trovare una via alternativa nell’area mediorientale. L’accordo di Sochi è servito alla Russia per ribadire il suo ruolo di arbitro nella regione. Ha temporaneamente fermato l’offensiva turca che avrebbe potuto continuare ben oltre l’attacco ai curdi, evitando allo stesso tempo l’inasprirsi delle ostilità tra la Siria e la Turchia, paese che la Russia sta cercando di allontanare dalla sfera d’influenza statunitense.
Pur avendo eliminato il “problema” curdo, non si può certo dire che il confine siriano sia sicuro a lungo termine. Nella recente intervista rilasciata alla giornalista Monica Maggioni, il presidente siriano Assad non sembra aver digerito con entusiasmo l’accordo. Anch’egli è cosciente che si tratta di una cessazione temporanea delle ostilità. Tuttavia non si fida di Erdogan. Pur accettando l’accordo come una legittima difesa da parte della Russia dei propri interessi, ha spiegato chiaramente come prima o poi Erdogan debba andarsene.
“Domanda 5: Signor Presidente, vorrei solo tornare alla politica per un istante. Ha menzionato la Turchia, ok? La Russia è stata il suo miglior alleato in questi anni, non è un segreto, ma ora la Russia ha raggiunto accordi con la Turchia in alcune aree che fanno parte della nazione siriana, quindi come valuta questo?
Presidente Assad: per comprendere il ruolo russo, dobbiamo comprendere i principi russi. La Russia, crede che il diritto internazionale – e l’ordine internazionale basato su quella legge – sia nell’interesse della Russia e nell’interesse di tutti nel mondo. Quindi, loro, sostenendo la Siria sostengono il diritto internazionale; questo è un punto. In secondo luogo, essere contro i terroristi è nell’interesse del popolo russo e del resto del mondo. Quindi, stare con la Turchia e fare questo compromesso non significa che sostengano l’invasione turca; piuttosto volevano avere un ruolo per convincere i turchi che bisogna lasciare la Siria. Non supportano i turchi, non dicono “questa è una buona realtà, la accettiamo e la Siria deve accettarla”. No, non lo fanno. Ma a causa del ruolo negativo statunitense e del ruolo negativo occidentale nei confronti della Turchia e dei curdi, i russi sono intervenuti, al fine di bilanciare quel ruolo, per rendere la situazione… non direi migliore, ma meno peggiore se si vuole essere più precisi. Quindi, nel frattempo, quello è il loro ruolo. In futuro, la loro posizione è molto chiara: integrità siriana e sovranità siriana. L’integrità e la sovranità siriane sono in contraddizione con l’invasione turca, che è molto ovvia e chiara.
Domanda 6: Quindi mi sta dicendo che i russi potrebbero scendere a compromessi, ma la Siria non farà compromessi con la Turchia. Voglio dire, la relazione è ancora piuttosto tesa.
Presidente Assad: No, anche i russi non hanno fatto un compromesso riguardo alla sovranità. No, guardano alla realtà. Ora, c’è una brutta realtà, devi essere coinvolto per fare qualcosa… Non direi un compromesso perché non è una soluzione finale. Potrebbe essere un compromesso per quanto riguarda la situazione a breve termine, ma nel lungo termine o nel medio termine, la Turchia deve andarsene. Non ci sono dubbi.
Domanda 7: E a lungo termine, qualche piano di discussione tra lei e il signor Erdogan?
Presidente Assad: non mi sentirei orgoglioso di me se un giorno dovessi farlo. Mi sentirei disgustato nel trattare con quei tipi di islamisti opportunisti, non musulmani, islamisti – è un altro termine, è un termine politico. Ma ancora una volta, dico sempre: il mio lavoro non è quello di essere contento di quello che sto facendo o di non essere felice o altro. Non riguarda i miei sentimenti, riguarda gli interessi della Siria, quindi ovunque andranno i nostri interessi, andrò.”[3]
Il dibattito a sinistra
Con l’inizio delle operazioni militari è ripreso il dibattito a sinistra sul futuro del Rojava, e il ruolo di Russia, Stati Uniti e Turchia nella regione. Sostanzialmente le posizioni che hanno dominato il dibattito sono due. Da un lato l’idea di una pressione sulle istituzioni europee per porre fine all’attacco salvaguardando il confederalismo democratico, dall’altro l’idea di un appoggio incondizionato alla politica estera russa come unico baluardo contro le ingerenze americane nella regione.
Pur partendo da punti di vista diversi, entrambe le interpretazioni sottovalutano il ruolo dell’esperienza curda come elemento di rottura dello status quo nella regione. Tra i sostenitori del confederalismo democratico troviamo Sinistra Italiana.
“Il modello del confederalismo democratico che è alla base del sistema istituzionale di governo del Rojava è uno dei modelli di democrazia più avanzati nel Medioriente costruito nel contesto più difficile di un conflitto permanente e della minaccia terroristica dell’ISIS. Un modello che permette la convivenza pacifica tra popoli di diversa etnia, fondato sui valori universali di uguaglianza, libertà e democrazia. Un modello che proprio per queste ragioni andrebbe difeso dal nostro Paese e dall’Europa. Ed invece assistiamo, al netto delle dichiarazioni di condanna di alcuni leader europei, all’indifferenza della comunità internazionale mentre un esercito della NATO attacca zone altamente popolate massacrando civili inermi.
Riteniamo che l’Italia non possa non agire per difendere non solo i curdi, ma insieme a loro una idea di democrazia e la possibilità di pace e stabilità in Medioriente.
Chiediamo al Governo italiano di adoperarsi in tutte le sedi multilaterali, ONU, UE e NATO per giungere ad una condanna unanime da parte della comunità internazionale sull’invasione della Siria del Nord da parte della Turchia e di chiedere che venga posta in essere ogni azione per arrivare ad un immediato cessate il fuoco.”[4]
Lo svolgimento del conflitto e soprattutto il comportamento del governo italiano hanno mostrato la grande contraddizione di questo partito. Sinistra Italiana sostiene il governo Conte, il quale non ha avuto nemmeno il coraggio di disdire gli accordi sottoscritti dai governi precedenti con la Turchia per l’invio di armi a quest’ultima. Nonostante ciò, il partito di Fratoianni ha proseguito la sua politica di appoggio al governo. Non proprio il modo migliore per difendere l’esperienza del Rojava.
Nel secondo caso l’analisi degli interessi delle varie potenze lascia il passo all’idea esclusiva di un complotto organizzato dall’imperialismo statunitense contro il governo di Assad o contro la Russia di Putin: questione sicuramente importante, ma non sufficiente per spiegare la complicata vicenda mediorientale. Schierarsi contro l’imperialismo americano è infatti doveroso, tuttavia non si può ignorare che lo stesso Putin abbia interesse a mantenere la stabilità nell’area per poter continuare i propri affari.
Come abbiamo già scritto, la politica estera russa è stata ondivaga, fatta di alleanze variabili. Non ci si può rapportare oggi con la Russia nello stesso modo in cui ci si rapportava con l’URSS. Putin è un imperialista, esattamente come lo è Trump. Il conflitto in Medioriente tra queste due potenze non deve trarre in inganno. L’imperialismo russo tenta semplicemente di difendere i propri interessi, a partire dalla propria base navale in Siria. Qualche anno fa la Russia ha acquistato direttamente dall’ENI il 30% del giacimento di Zohr in Egitto (grazie anche all’appoggio del governo Renzi). L’impresa russa Novatek ha acquistato il 20% della partecipazione di una joint venture in Libano controllata per il restante 80% da ENI e Total. Le risorse siriane di gas e petrolio sono parzialmente controllate dalla Russia[5]. Sono proprio questi dati che dimostrano (come scriveva anche Lenin) che l’imperialismo rimane prima di ogni altra cosa un fatto economico. Il sostegno acritico a Putin non è altro che un sostegno di tipo nazionalistico, che indebolisce quindi qualsiasi idea di socialismo in quella regione.
Conclusioni
Sono passati nove anni dal 2011, l’anno della cosiddetta primavera araba. Regimi che resistevano da diversi anni e che sembravano incrollabili sono stati spazzati via. La fine del potere trentennale di Mubarak in Egitto, le dimissioni di Ben Ali (in carica dagli anni 80) in Tunisia furono eventi che fino a qualche settimana prima erano impensabili. Altri paesi furono influenzati da queste rivolte (ad esempio l’Iraq). Furono vittorie significative che però non arrivarono a mettere in discussione il sistema economico. In alcuni casi (Libia e Siria) fu l’imperialismo a sfruttare a proprio favore la situazione. Oggi assistiamo a una ripresa di mobilitazioni in alcuni di questi paesi: Iraq, Egitto, Sudan (per citarne alcune) dimostrano, pur con alcune differenze tra loro, che il vento del cambiamento che aveva spinto le rivolte arabe non ha smesso di soffiare. In Iraq le proteste contro l’ambasciata americana e le ingerenze statunitensi hanno minato la stabilità del governo (e causato l’intervento diretto degli Stati Uniti con l’uccisione del generale Soleimani). In Egitto lo scorso autunno ci sono state proteste contro Al Sisi. Cosi come in Sudan lo scorso anno Bashir è stato costretto a dimettersi. Ed è proprio da qui che dobbiamo partire: dalla voglia di lotta contro l’imperialismo che ha stritolato questi paesi. Ci possono essere passi in avanti e passi indietro. Ci possono essere proteste che ottengono solo parzialmente il proprio obiettivo. In ogni caso non possiamo limitarci a studiare le mosse della diplomazia, ma dobbiamo studiare queste rivolte perché è da queste, pur con limiti e contraddizioni, che può svilupparsi un reale movimento in grado di mettere in discussione il capitalismo. Un movimento del genere metterebbe alla prova ogni possibile leader e tendenza riformista capace di cavalcare queste mobilitazioni. La loro ulteriore caduta sarebbe solo un passaggio per la ripresa di quella idea di Federazione socialista di cui il Medio Oriente ha bisogno per scrollarsi di dosso tutta questa barbarie
Note:
[1] https://www.ilsole24ore.com/art/turchia-miracolo-economico-sfuggito-mani-erdogan-ACCrVHU
[2] https://jacobinitalia.it/perche-leuropa-non-ferma-la-turchia/
[3]https://www.lantidiplomatico.it/dettnewsvideo_assad_leuropa_principale_attore_nel_caos_creato_in_siria_ecco_lintervista_integrale_che_la_rai_non_ha_voluto_trasmettere/82_32074/
[4]http://www.sinistraitaliana.si/notizia/sinistra-italiana-dalla-parte-dei-curdi-solidarieta-nei-confronti-delle-donne-degli-uomini-del-rojava/
[5]https://www.tpi.it/esteri/russia-putin-siria-turchia-africa-20191023480282/