Il secondo governo Conte si è ufficialmente insediato, appoggiato da PD, M5S e quel che rimane di LEU. Come spesso accade nella vita pubblica così come in quella privata, la trama del dramma è stata costellata di elementi grotteschi.
Abbiamo un Presidente del Consiglio che è passato con nonchalance dal guidare un governo insieme alla Lega a uno con il PD, ma rivendicando tutto il suo operato precedente, dai Decreti Sicurezza al TAV.
Il M5S che, dopo aver svolto un ruolo completamente subalterno a Salvini votando qualsiasi cosa la Lega presentasse in parlamento e salvandone il leader dal processo per il caso Diciotti, si allea con il partito che fino a due mesi prima considerava poco meno che un servo del demonio ma accompagnando il cambio di fronte con grandi lodi a tutto quanto fatto con il precedente esecutivo.
Stesso dicasi per il PD: il movimento che consideravano alla stregua della peste bubbonica è adesso diventato un affidabile partner “per cambiare l’Italia”.
Tutti esempi di ignobile trasformismo che, tuttavia, rappresenta soltanto la parte superficiale di questa vicenda. Dietro la facciata da commedia all’italiana si celano dinamiche molto più serie e complesse.

Il governo Lega-5S, nonostante la retorica sul “governo del cambiamento” e il sovranismo di facciata, aveva una natura subalterna ai vincoli europei e confindustriali, esattamente come quelli che lo avevano preceduto. I parametri europei di gestione del debito non sono stati minimamente messi in discussione, a parte sbattere un po’ i pugni sul tavolo per cercare di ottenere qualche modesto margine di flessibilità (cosa peraltro fatta anche da Renzi). Il pareggio di bilancio è rimasto in Costituzione e le clausole di salvaguardia con l’aumento automatico dell’Iva non sono state toccate.
Le leggi su lavoro e pensioni dei precedenti governi che in campagna elettorale entrambi i partiti avevano proclamato di voler abrogare sono rimaste tutte in piedi e pienamente efficaci, solo con qualche ritocco cosmetico: il “decreto dignità” e la cosiddetta “quota cento”  hanno appena scalfito il Jobs Act e la legge Fornero, senza modificarne la logica di fondo. Allo stesso modo, il cosiddetto “reddito di cittadinanza” non solo non ha abolito la povertà come pomposamente dichiarato da Di Maio il giorno della sua approvazione, ma è più simile ai sistemi di controllo sociale funzionali alle esigenze delle grandi aziende che esistono in Gran Bretagna o in Germania (come lo Hartz IV che tanto piace a Di Maio) che non ad uno strumento per liberare i lavoratori dai ricatti padronali.
Aggiungiamo l’autonomia differenziata, il regalo a cementificatori e mafie varie dello “sblocca cantieri” e del nuovo codice degli appalti, la mannaia sul dissenso sociale dei due decreti sicurezza e il progetto di flat tax non andato in porto causa dipartita prematura del governo. Nulla, insomma, che costituisse un serio pericolo per gli interessi delle classi dominanti di questo paese.

La crisi che ha portato alla caduta del governo non è stata causata soltanto dalla volontà della Lega di capitalizzare il crescente consenso elettorale andando a nuove elezioni politiche, ma anche e soprattutto dalla necessità di Salvini di consolidare il blocco sociale alla base della sua ascesa. Un blocco che non comprende soltanto la piccola e media borghesia settentrionale, zoccolo duro della vecchia Lega Nord, ma anche altri settori significativi di padronato italiano, inclusi pezzi di capitalismo malavitoso come dimostra non solo l’inchiesta sull’ex consulente per l’energia Paolo Arata ma anche i diversi esponenti locali della Lega al sud noti per vicinanza ad ambienti ‘ndranghetisti o mafiosi.
E’ per consolidare questo blocco sociale che Salvini aveva bisogno di “pieni poteri” ovvero di prendere in mano le leve del governo senza più doversi scontrare con il Movimento 5 Stelle, portatore anch’esso di interessi borghesi ma non del tutto coincidenti con il blocco sociale salviniano, su come usare le risorse e dove andare a tagliare nella spesa pubblica.
Sulla via verso le elezioni, che la Lega avrebbe molto probabilmente vinto anche se non sappiamo se in misura sufficiente per governare con Fratelli d’Italia, si è frapposta non solo la modalità da dilettante allo sbaraglio con la quale Salvini ha gestito tutta la vicenda ma soprattutto un altro settore decisivo, della grande borghesia italiana che ha considerato le nuove elezioni e il nuovo Governo come uno scenario troppo ricco di incognite. Già il governo giallo-verde era una compagine troppo instabile e imprevedibile per le esigenze delle classi dominanti del nostro paese. Un eventuale governo Salvini-Meloni, anche se allineato e coperto ai loro interessi sulle principali questioni economiche, avrebbe dovuto utilizzare, per quanto solo in apparenza, una retorica antieuropeista e razzista troppo smaccata. La borghesia non vuole solo un governo che curi i suoi interessi ma anche che lo faccia con meno clamore possibile. Da questo punto di vista la nuova maggioranza 5S-PD, benché gravida anch’essa di incognite e contraddizioni, dà maggiori garanzie.

Assistiamo quindi a questo paradosso: il secondo governo Conte nasce con la defenestrazione della sua componente più a destra e allo stesso tempo è considerato più affidabile dai salotti della finanza, nazionale e internazionale.
Siamo passati dal “governo del cambiamento” al “governo della novità”, mantenendo però lo stesso Presidente del Consiglio e la stessa forza di maggioranza relativa (il M5S). Si sa, il senso del ridicolo non è più di questo mondo.
Il programma con il quale si sono presentati alle Camere è un calderone genericissimo nel quale c’è di tutto e il suo contrario: salario minimo ma anche riduzione delle tasse alle imprese, economia verde, investimenti ma nel rispetto dei vincoli europei, autonomia differenziata ma garantendo la “coesione nazionale”. Tutto esclusivamente per titoli, senza neanche mezza proposta concreta su come implementare tali propositi. Ma a differenza dei programmi la realtà è sempre concreta e concretissimi sono i 23 miliardi necessari a sventare l’aumento dell’Iva. Aumento che neanche la borghesia vorrebbe perché contribuirebbe a comprimere ulteriormente i consumi interni in una fase di crisi economica incipiente. Per inciso, le clausole di salvaguardia che impongono l’aumento dell’Iva per ottemperare ai parametri di gestione del debito furono introdotte dall’ultimo governo Berlusconi nel 2011 (d’accordo anche la Lega) e reiterate da tutti i governi successivi. Nessuno, nemmeno i “sovranisti” giallo-verdi, ha mai pensato di metterle in discussione.
Questi 23 miliardi, sommati alle altre necessità correnti, richiederanno una legge di bilancio di 30/35 miliardi che non sono esattamente noccioline e in assenza di misure che colpiscano redditi e patrimoni più ricchi condurranno sicuramente a nuovi tagli ai servizi sociali. Il “nuovo” governo ha già avuto il beneplacito degli organismi europei (e anche di Trump). D’altra parte, PD e 5S avevano votato insieme per la nuova Presidente della Commissione Europea, l’ultra-liberista Ursula Von der Leyen. Anche i mercati sembrano gradire, con lo spread ai minimi come non si vedeva da tempo (il che dovrebbe farci intuire quali interessi sociali perseguirà il governo appena insediato). È probabile che questo possa dare al nuovo esecutivo qualche margine di flessibilità in più rispetto ai parametri europei, ma c’è un piccolo dettaglio che rimetterà tutto in discussione: siamo alla vigilia di una nuova recessione.

Questo è infatti ciò che ci dicono i principali analisti economici. L’ultimo rapporto Ocse mostra un fortissimo rallentamento di tutte le principali economie europee, compresa la Germania e con l’Italia come al solito fanalino di coda. L’ultimo intervento di Draghi prima di lasciare l’incarico di presidente della BCE ha ulteriormente ridotto i tassi d’interesse portandoli a -0,50% e confermato la ripresa di un’ingente piano di Quantitative Easing (acquisto dei titoli di stato da parte della BCE) per 20 miliardi di euro al mese. La neo-presidente Lagarde ha tutte le intenzioni di mantenere la stessa rotta. Il problema non da poco è che i tassi BCE erano già negativi e il QE ha già immesso negli anni passati tonnellate di liquidità nelle casse delle banche europee senza risultati significativi. I margini di manovra sono veramente risicati se non nulli e lo saranno anche per il nuovo governo italiano. La crisi di sistema si avvita sempre più su sé stessa.

Questa consapevolezza è però totalmente assente dal dibattito e dalle prospettive delle principali organizzazioni del movimento operaio del nostro paese. La CGIL, unica organizzazione di massa della classe lavoratrice rimasta, è completamente ipnotizzata dal nuovo governo e Landini ha già offerto ampie aperture di credito alla maggioranza PD-5S.
Prima della crisi, la burocrazia del principale sindacato italiano si preparava probabilmente a dare vita ad un ciclo di mobilitazioni controllato che preparasse la strada all’ennesimo governo di centro-sinistra. Questa ipotesi è stata spazzata via dal precipitare della crisi. Già prima che prendesse forma l’alleanza PD-5S, quando si iniziava appena a ventilarla, la prospettiva di un governo purchessia a patto che escludesse la Lega ed evitasse il suo probabile trionfo in caso di elezioni anticipate stava già avendo un effetto narcotizzante su un settore di sinistra. Questa coltre di illusioni si è ispessita ulteriormente dopo la formalizzazione dell’alleanza e continuerà adesso che il Conte bis si è ufficialmente insediato. Governo che, ad onta di tutte le suddette illusioni, non farà alla lunga diminuire il consenso alla Lega ma contribuirà piuttosto ad aumentarlo.
La situazione, tuttavia, per quanto per niente facile, non è affatto completamente pacificata.

Un PD proiettato immediatamente verso responsabilità di governo accentuerà le proprie lacerazioni e avrà più difficoltà a rifarsi una verginità consolidando le illusioni democratiche dei suddetti settori di sinistra come sarebbe accaduto se fosse passato da una fase di opposizione a un governo a guida leghista.
Il Movimento 5 Stelle, che nemmeno con il nuovo governo avrà margini per offrire qualche modesto risultato alla sua base sociale per le ragioni spiegate sopra, continuerà nel suo processo di dissoluzione evidenziato già dai risultati delle elezioni europee.
Questi due processi contribuiranno almeno a incrinare, se non già ad eliminare, due grandi equivoci complementari: che il PD sia una forza in qualche modo associabile a una qualche idea di sinistra o comunque con la quale la sinistra debba allearsi per contrastare l’avanzata di una destra particolarmente aggressiva; che il M5S, in assenza di riferimenti credibili a sinistra, possa essere il perno di un’alternativa allo stato di cose esistente, per quanto confusa e contraddittoria.
Per quanto i tempi di tale processo possano mutare in base ad eventi congiunturali, tale processo ci appare piuttosto inevitabile.

Sul terreno sociale, la maggioranza della CGIL non sembra avere alcuna intenzione di lanciare una fase di mobilitazioni apprestandosi piuttosto ad attivare canali di interlocuzione diretta con il governo attraverso i propri rapporti con i vertici PD. Però nelle piattaforme per il rinnovo contrattuale di alcune categorie come metalmeccanici e alimentaristi vi è la richiesta di aumenti salariali di proporzioni mai viste da anni. Può anche darsi che si tratti di un residuo di rivendicazioni approntate per la fase politica precedente. Fatto sta che per poter essere portate avanti davvero necessiterebbero di uno scontro frontale e durissimo con il padronato. Un’altra contraddizione che potrebbe aprire scenari inediti.

Il problema principale è che sul lato sinistro dello schieramento politico c’è ormai il deserto. La pattuglia di LEU rimasta in parlamento quando già quel progetto politico era morto e sepolto ha pietito un ministro e un paio di sottosegretari nel nuovo governo in condizioni totalmente subalterne. D’altronde, da chi ha fatto del proprio ruolo istituzionale l’unica ragione di vita non è che ci si potesse aspettare niente di diverso.
Ancora più ridicolo è stato l’atteggiamento di Rifondazione Comunista (o quel che ne rimane). Il segretario Acerbo, a capo di un partito extra-parlamentare, di dimensioni irrisorie e con scarso se non nullo radicamento sociale, non ha trovato di meglio che lanciare un vigoroso appello al PD per chiedergli di fare a tutti i costi un governo con i 5S perché se no “vince Salvini”. Beh, lo hanno accontentato, sarà soddisfatto.
Le altre piccole organizzazioni della sinistra radicale, da Potere al Popolo ai piccoli raggruppamenti di varia ispirazione marxista che ancora resistono, hanno dato una lettura più corretta e hanno rivendicato la necessità di costruire un’opposizione di classe al nuovo governo per evitare che il malcontento sociale che con la nuova crisi alle porte aumenterà ulteriormente venga egemonizzato, come in parte già è, dall’estrema destra di Salvini e Meloni. Ma nessuna di esse è in grado da sola di ricostruire un punto di riferimento credibile e solido per i lavoratori e gli altri settori sociali sfruttati.
Questo è il macigno che si trova di fronte chiunque voglia battersi per rimettere in campo una vera alternativa allo stato di cose presente. Un macigno che dovremo deciderci ad affrontare prima possibile se vogliamo arrivare preparati alla fase di conflitto sociale che prima o poi riesploderà.
Ma su questo avremo modo di ritornare a breve.