
In sintesi, per chi va di fretta:
- C’è ancora la possibilità per vivere in un mondo degno di essere vissuto. Abbiamo la conoscenza per farlo, già ora. Potremmo arrestare il declino climatico del pianeta e rigenerare le sue risorse, vivendo in una società più equa e rispettosa. Ma perché questo sia possibile è necessario curare la Terra dal cancro economico e politico che la divora: il sistema economico capitalista che governa le nostre vite.
- Il capitalismo ha generato la questione ambientale perché ha sviluppato la società a costi umani e climatici folli. È un sistema iniquo che si basa su un irrazionale controllo privato delle risorse e sull’accumulo di ricchezze a un polo della società sulla base dello sfruttamento del lavoro di tutti. Per sua natura non può prendersi cura del pianeta.
- Il Movimento Fridays for future è un punto di non ritorno. Ha una carica antisistema esplosiva e potenzialmente non conosce barriere geografiche. È il frutto della crisi del sistema stesso e si pone compiti altissimi. Perché possano essere portati a termine deve però dotarsi di una strategia adeguata a questi compiti. Deve fare in modo di non caricare a salve le proprie mosse.
- Il programma del movimento è già di per sé avanzato. Per fare tuttavia un passo ulteriore, dobbiamo dare una risposta alla domanda: “Chi paga la necessaria riconversione climatica?”. È la domanda cruciale perché i rappresentanti del sistema attuale e gli industriali non si faranno carico di questo cambiamento per filantropia. Dovranno essere costretti o, molto probabilmente, messi da parte. Dunque, sarà necessario strappare il cambiamento richiesto, non appellarsi a chi lo ha reso necessario perché se ne faccia promotore.
- C’è solo un attore nella società che può strappare agli industriali il potere su come e cosa produrre e riconvertire l’economia: il movimento dei lavoratori. La nostra opinione è che Fridays for future debba porsi il compito non solo di appellarsi ai sindacati ma di orientarsi direttamente a iscritti e delegati per portare questa forza decisiva dalla propria parte in modo organizzato.
- Questa potenzialità è proprio ciò che i signori del mondo, quelli che non esitiamo a chiamare “borghesia”, temono. Loro controllano la società, loro temono di perdere questo controllo. Un salto in avanti del movimento in grado di minacciarlo trasformerà la loro paura nella nostra speranza.
Per esteso, per chi può fermarsi un attimo:
Partiamo dalla fine
Cammineremo lungo metropoli pensate per riciclare le acque, i cui grattacieli avranno pannelli solari trasparenti al posto delle finestre per convogliarne l’energia e scaldare e illuminare, per quanto necessario, qualsiasi nostra città. Il circolo dell’aria sarà garantito da una distribuzione pianificata del verde sia in orizzontale che in verticale, fertilizzata da un trattamento circolare dei rifiuti attraverso l’energia solare convogliata dalle stesse superfici dei grattacieli. Non vi sarà né aumento né dispersione del calore, perché il trasporto privato sarà reso obsoleto da un servizio di trasporti pubblici automatici, alimentato con la stessa energia raccolta dalle radiazioni solari.
Mangeremo cibo più sano e nelle quantità necessarie alla nutrizione equilibrata di un mammifero delle nostre dimensioni perché non sarà più necessario produrre per un mercato cieco e anarchico. Il fabbisogno proteico verrà garantito da allevamenti non intensivi e pianificati su tutta la superficie del pianeta, secondo un piano razionale concordato tra nazioni tra loro federate, nell’armonia di chi si è lasciato alle spalle l’età della pietra del mercato. Non sarà più necessario produrre tutta questa carne, sprecare tutta questa acqua. Immense distese oggi dedicate ai pascoli e agli allevamenti verranno rese alla natura. Il meglio della ricerca agraria mondiale verrà messo a disposizione senza la concorrenza dei finanziamenti e delle pubblicazioni per godere del meglio delle proprietà nutritive degli alimenti. Fare ricerca per l’umanità sarà un piacere in un mondo dove non vi sarà più concorrenza tra ricerca pubblica e privata e dove lo stipendio diverrà progressivamente un orpello inutile per il sostentamento.
La nostra urbanistica verrà organizzata considerando il territorio mondiale e non i confini artificiali che ora dividono le nazioni. Il meglio della ricerca nella mobilità, anche aerea, ridurrà il traffico aereo a una sola compagnia globale, interamente pubblica, alimentata con carburante pulito. Non vi saranno più autostrade del cielo come non ne verranno create di nuove sulla terra. Muoversi sul pianeta sarà un lungo, meraviglioso, articolarsi di paesaggi e lingue. L’Amazzonia tornerà ad assorbire l’anidride carbonica del mondo. Non vi sarà più la disparità tra paesi in via di sviluppo e potenze colonialiste perché non sarà più la moneta a dirimere lo sviluppo dell’umanità.
In un mondo del genere, dove a rotazione tutti noi verremo chiamati a ricoprire incarichi di governo e dove ogni giorno ci ritroveremo a decidere, in organi consiliari, cosa costruire, cosa produrre, quanto produrne e come distribuire la nostra capacità di lavorare, il nostro stipendio assumerà sempre meno importanza. L’arroganza dei ricchi sui poveri diverrà un ricordo del passato. Non vi sarà bisogno di rubare, perché tutti potranno mangiare in mense pubbliche, lavare e lavarsi in strutture dedicate, avere un alloggio confortevole senza il ricatto del mercato. Nessuno giudicherà le nostre relazioni, siano essere etero od omosessuali, mentre i costumi più oppressivi delle diverse culture mondiali verranno relegati nel museo della storia semplicemente perché inadeguati al nuovo sviluppo del genere umano. In un mondo del genere, gli assassini, i furti, i femminicidi verranno cancellati. Col tempo, anche le carceri diverranno superflue.
Questo è un mondo per cui valga la pena lottare? Pensiamo di sì, pensiamo che valga la pena lottare per un mondo che dia all’umanità almeno una possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta. Noi che proveniamo dalla tradizione del movimento operaio siamo soliti chiamare questo mondo “socialismo”.
E questo mondo poggia tutto sulle spalle della lotta per invertire la rotta disastrosa che sta prendendo il nostro pianeta.
Viviamo nel capitalismo
Ogni giorno milioni di persone affollano le metropolitane e le strade di tutto il mondo per recarsi in luoghi dove venderanno le loro energie, la loro capacità di lavorare, le ore migliori della loro giornata a chi, pubblico o privato, ne acquisterà, per un salario inadeguato, l’utilizzo per tutto il giorno. I proventi del nostro lavoro (merci, servizi, idee) vengono venduti in un mercato anarchico e folle, che non tiene conto e non può pianificare in base alle reali esigenze delle nazioni e dell’umanità. È uno spreco ambientale e umano che non ha precedenti nella storia umana. La situazione disastrosa in cui versa il pianeta Terra dipende interamente da questo gioco folle nel quale solo una piccola percentuale raccoglie ricchezze oscene mentre basta un tifone per seppellire vive milioni di persone sotto il peso dei loro tetti di paglia e dei loro villaggi di fango.
Secondo l’IPCC (Interngovernmental Panel on Climate Change), l’ultimo rapporto ONU sul clima del 2015, la temperatura media del pianeta è aumentata di 1°C dall’era preindustriale. L’obiettivo imprescindibile è evitare che questo aumento sfori 1.5°C. Anche solo un aumento di 2°C, terrà l’umanità in ostaggio da parte di un clima impazzito. Tempeste di fulmini e tifoni sempre più frequenti, un aumento delle carestie e delle inondazioni, uno sviluppo incontrollato di epidemie causate da un peggioramento generale delle condizioni igieniche e dallo scongelamento di virus preistorici che da milioni di anni sono intrappolati nei ghiacci artici.
La questione ambientale è un prodotto del capitalismo, che ha sviluppato la società a un costo sociale e ambientale insostenibile. E non potrebbe essere altrimenti, essendo dominato dal cieco e avido controllo privato delle risorse e della produzione asservita al massimo profitto. Dalla rivoluzione industriale la temperatura media della Terra è aumentata di 0.1°C ogni 10 anni. Ed è destinata ad aumentare, costringendo l’umanità a vivere in un pianeta che sta progressivamente perdendo le proprie condizioni di abitabilità. Il 29 luglio, con un anticipo di 3 giorni, il pianeta ha formalmente finito le risorse rinnovabili per il proprio sostentamento per il 2019 (Overshoot day). Dal 30 luglio procede a debito, prendendo a prestito dalle risorse del 2020.
È macabro il parallelismo di un sistema che poggia su una montagna di debiti dal punto di vista economico ed ora anche dal punto di vista ambientale.
Un sistema del genere non può né alleviare né curare la febbre del pianeta, perché non esiste virus che si suicidi a proprie spese. Ogni seria misura per ridurre le emissioni di CO2 vedrà l’opposizione frontale tanto delle grandi potenze quanto di quelle emergenti. Tanto le prime quanto le seconde vorranno tutelare i propri industriali. Paesi come gli Usa dichiareranno di non voler rinunciare al proprio tenore di vita e paesi come l’India recrimineranno quanto sia giunto il proprio turno, ora. Da questo balletto discenderanno solo mezze misure o una ridicola compravendita di quote di CO2, come si potesse detenere il diritto di inquinare semplicemente pagandolo.
Il capitalismo deve morire perché l’umanità possa vivere. E perché possa vivere nella maggiore armonia possibile col pianeta nella quale è nata e si è evoluta.
Fridays for future
Il movimento ha mostrato una forza oceanica e una irresistibile carica antisistema. È animato da una generazione che è nata nella crisi e a cui il sistema non offre alcun futuro. Gli scioperi globali convocati finora hanno avuto una partecipazione di massa. È il sintomo di un movimento che può crescere ancora. In natura la crescita di un organismo è correlata al cambio della sua forma. Un elefante non potrebbe avere le zampe di una gazzella. Un mammifero grande come un essere umano non può respirare come una mosca: ha bisogno di strutture complesse come i polmoni e non semplici trachee, come gli insetti. Così è per il movimento politico: più grande diviene la sua partecipazione, più alti i suoi obiettivi. Più alti divengono i suoi obiettivi, più adeguati devono essere i suoi mezzi.
Oggi il movimento è ancora nell’infanzia di manifestazioni oceaniche che chiedono al sistema di fare qualcosa. Cercano di costruire una speranza, come dice Alexandria Ocasio-Cortez del Partito Democratico americano. Non si tratta, tuttavia, di dire che questa richiesta non avrà ascolto. Genererà una forte pressione sui partiti tradizionali di tutto il mondo e sta già condizionando il dibattito pubblico. Di per sé, già questa è una conquista.
Tuttavia, un movimento del genere deve passare dalla palestra del logoramento e delle mezze promesse. Deve apprendere quanto il problema non siano solo Trump e Bolsonaro ma anche il tentativo di trovare un accordo con gli industriali di tutto il mondo. Il parlamento americano ha bocciato la proposta di un “Green New Deal”, un accordo tra governo e produttori per ridurre le emissioni industriali di CO2 e procedere a una progressiva conversione ecologica dell’economia americana. È stato bocciato perché il governo americano riflette gli interessi degli industriali, che semplicemente hanno chiesto: “Chi paga per tutto questo?”.
Il movimento Fridays for future sta dunque correndo rapidamente verso un ostacolo, che dovrà affrontare se vorrà crescere ancora. Il problema è che le sue rivendicazioni rischiano di essere caricate a salve rispetto alla resistenza opposta dai rappresentanti del sistema. L’idea che la semplice pressione di manifestazioni di massa e la forza delle evidenze siano sufficienti a generare un cambio di coscienze rischia di essere molto romantico ma poco efficace.
Il programma
Eppure, il movimento ha di per sé una impostazione promettente, con rivendicazioni sensate e condivisibili. Le possiamo leggere su tutte le piattaforme:
1) Fuori dal fossile: raggiungimento dello 0 netto di emissioni a livello globale nel 2050 e in Italia nel 2030, per restare entro i +1.5 gradi di aumento medio globale della temperatura.
2) Tutti uniti, nessuno escluso: la transizione energetica deve essere attuata su scala mondiale, utilizzando come faro il principio della giustizia climatica.
3) Rompiamo il silenzio, diamo voce alla scienza: valorizziamo la conoscenza scientifica, ascoltando e diffondendo i moniti degli studiosi più autorevoli di tutto il mondo. La scienza ci dice da anni qual è il problema e quali strumenti servono per risolverlo. Ora spetta alla politica il compito di agire.
È un programma chiaro, che oltretutto non fa sconti all’idea che per uscire dalla crisi climatica dovremmo decrescere. È un indizio di maturità, perché finalmente sposta il peso dall’idea che la malattia che affligge la Terra sia causata dall’uomo e sposta il baricentro sul sistema. Non demonizza la scienza. Ma cova in sé lo stesso limite della proposta del Green New Deal: chi pagherà per tutto questo? Chi dovrebbe controllare questa transizione? Diventa cruciale trovare una domanda a questa risposta.
Pensare che gli industriali di tutto il mondo, a partire dalla nostra Confindustria, facciano pesare questa transizione sui loro margini di profitto per pura filantropia o semplicemente perché è giusto rischia di essere un colpo a salve. Pensare che questa classe politica, che non riesce a evitare la tragedia del ponte Morandi o erigere un serio piano antisismico in uno dei paesi a maggiore rischio sismico del mondo, possa dirigere una simile transizione senza corruzione, malversazioni, sfruttamento e di portarla a termine rischia di essere un altro colpo a salve.
Il livello dello scontro
Se è vero che non c’è più tempo, allora bisogna prendere provvedimenti per rendere il movimento il più incisivo possibile. Perché questo sia possibile, bisogna fare un salto di qualità non tanto nella partecipazione di massa quanto nella connessione tra movimento e risultati. Il movimento ha già raccolto le sue prime adesioni sindacali. È un primo passo molto importante perché segna la strada giusta. Perché lo è? Perché solo chi lavora può ingaggiare quel braccio di ferro produttivo necessario a garantire una transizione ecologica. Se vogliamo arrivare a emissioni zero dovremo strappare la produzione a chi ora ne è proprietario. È un compito, questo, che può essere assolto solo con metodi tradizionali che sembrano solo apparentemente dimenticati: quelli della lotta di classe. Tali metodi sono gli scioperi, le manifestazioni, i picchetti e la costruzione di comitati dentro i luoghi di lavoro e nei quartieri. Detto altrimenti, i metodi della lotta di classe sono tutti quelli che conferiscono al movimento un potenziale contropotere.
Pertanto, i sindacati, in Italia Cgil e sindacati extraconfederali, vanno scossi dalle fondamenta. Appellarsi perché aderiscano non è sufficiente: aderire non costa nulla.
Si tratta di avvicinarli e di organizzare gli attivisti del movimento perché trovino la strada per parlare agli iscritti. Avere la forza del movimento dei lavoratori farebbe pendere la bilancia a favore del movimento molto più di mille minacce apocalittiche sulla crisi climatica del pianeta. Perché una tale partecipazione porrebbe in potenza immediatamente la risposta alla domanda “Chi paga?”: pagherete voi, industriali, con la perdita della proprietà delle aziende con cui avete ammalato il pianeta. Nelle nostre mani di lavoratori, queste aziende cambieranno da cima a fondo.
Un simile compito richiede un appello ai sindacati ma, soprattutto, ai loro iscritti. Fridays for future è un movimento di massa che richiede una partecipazione radicata, non diplomatica. Le riunioni di coordinamento del movimento dovranno fare un salto di qualità per mandare gli attivisti davanti alle aziende e portare con sé i lavoratori, le lavoratrici e i delegati sindacali per elaborare una strategia del genere. Ma è un passo necessario, perché per reggere uno scontro con compiti così alti servono mosse adeguate. Armato del sostegno dei lavoratori, qualsiasi programma diventa davvero una sveglia per tutta la società.
Il futuro
I signori del mondo guardano questo movimento dall’alto dei loro grattacieli. Leggono cosa scrive, osservano ciò che fa. Soprattutto, ne temono la carica antisistema, l’estensione, le potenzialità. Sanno che il clima è un campo incurabile per la loro avidità e sono consapevoli di quanto il movimento ne sia consapevole. Ai loro occhi Fridays for future è più che un semplice movimento ecologista e non sanno quale strategia adottare. Se faranno concessioni sulle emissioni, temono che il movimento chiedarà di più. Se saranno sordi, sono certi che il movimento si estenderà. Camminano avanti e indietro temendo inquieti che il movimento faccia un salto di qualità e si presenti dentro le loro aziende, il tempio dei loro guadagni, ossia della loro esistenza. Come sempre, vorrebbero alzarsi da tavola senza pagare il conto. Ma non possono. Sembrano forti ma vivono in castelli di paura.
È un loro problema. Il nostro problema è costruire un mondo degno di essere vissuto, che ad oggi possiamo solo tratteggiare, ma di cui la scienza e la ricerca possono porre le basi, se dirette democraticamente e senza la pressione del denaro.
E’ con fiducia che dobbiamo guardare questa lotta, perché segna un precedente dal quale non si può tornare indietro.
E noi non vogliamo tornare indietro.