1. “Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e poichè un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società”

Prima parte del paragrafo. “Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà.” Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che esso stesso, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. Quella frase si trova in tutti i sillabari, e intanto è giusta in quanto è sottinteso che il lavoro si esplica con i mezzi e con gli oggetti che si convengono. Ma un programma socialista non deve indulgere a tali espressioni borghesi tacendo le condizioni che solo danno loro un senso. E il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezze, in quanto l’uomo entra preventivamente in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte prima di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e la tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perchè dalle condizioni naturali del lavoro ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso. Lasciamo ora la proposizione come essa è e scorre, o piuttosto come essa zoppica. Che cosa se ne sarebbe atteso come conseguenza? Evidentemente questo: “Poichè il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, anche nella società nessuno si può appropriare ricchezza se non come prodotto del lavoro. Se dunque un membro della società non lavora egli stesso, vuol dire che egli vive di lavoro altrui e che si appropria anche della propria cultura a spese di lavoro altrui.” Invece di questo, col giro di parole: “e poichè” viene aggiunta una seconda proposizione per trarre una conclusione da essa e non dalla prima.

Seconda parte del paragrafo: “Un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società.”

Secondo la prima proposizione il lavoro era la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e quindi nessuna società era possibile senza lavoro. Ora veniamo a sapere, viceversa, che nessun lavoro “utile” è possibile senza società. Si sarebbe potuto dire ugualmente bene che solo nella società un lavoro inutile, e persino dannoso alla società stessa, può diventare una fonte di guadagno, che solo nella società si può vivere di ozio, ecc., ecc., – si sarebbe potuto, in breve, trascrivere tutto Rousseau. E che cosa è lavoro “utile”? Solo il lavoro che porta l’effetto utile voluto. Un selvaggio – e l’uomo è un selvaggio, dopo che ha cessato di essere una scimmia – che abbatte un animale con un sasso, che raccoglie frutti, ecc., compie un lavoro “utile.”

In terzo luogo: la conclusione: “E poichè un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società.”

Bella conclusione! Se il lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene alla società – e al singolo lavoratore ne tocca solo quel tanto che non è necessario per mantenere la “condizione” del lavoro, la società.

In realtà questa proposizione è stata sostenuta in ogni tempo dai difensori del regime sociale esistente. In prima linea vengono le pretese del governo, con tutto ciò che vi sta attaccato, perchè esso è l’organo della società per il mantenimento dell’ordine sociale; indi vengono le pretese delle diverse specie di proprietà privata, poichè le diverse specie di proprietà privata sono le basi della società, e così via. Si vede che queste frasi vuote si possono girare e rigirare come si vuole. La prima e la seconda parte del paragrafo hanno un costrutto intelligibile solo in questa redazione:

“Il lavoro diventa fonte della ricchezza e della civiltà solo come lavoro sociale” o, ciò che è lo stesso, “nella società e mediante la società.” Questa proposizione è indiscutibilmente esatta, perchè se anche il lavoro isolato (premesse le sue condizioni oggettive) può creare valori d’uso, esso non può creare né ricchezze né civiltà. Ma ugualmente inoppugnabile è l’altra proposizione: “Nella misura in cui il lavoro si sviluppa socialmente e in questo modo diviene fonte di ricchezza e di civiltà, si sviluppano povertà e indigenza dal lato dell’operaio, ricchezza e civiltà dal lato di chi non lavora.” Questa è la legge di tutta la storia sinora vissuta. Quindi, invece di fare delle frasi generiche sul “lavoro” e sulla “società,” bisognava dimostrare concretamente come nella odierna società capitalistica si sono finalmente costituite le condizioni materiali, ecc., che abilitano e obbligano gli operai a spezzare quella maledizione sociale. Ma in realtà l’intero paragrafo, sbagliato nella forma e nel contenuto, è stato inserito soltanto per poter scrivere come rivendicazione sulla bandiera del partito la formula di Lassalle sul “frutto integrale del lavoro.” Tornerò in seguito sul “frutto del lavoro,” sull'”ugual diritto,” ecc., poichè la stessa cosa ritorna in forma alquanto diversa.

  1. “Nella società presente, i mezzi di lavoro sono monopolio della classe dei capitalisti. La dipendenza della classe operaia da ciò determinata è la causa della miseria e dell’asservimento in tutte le forme.”

Questa proposizione, presa dallo Statuto internazionale è, in questa edizione “corretta,” falsa. Nella società presente i mezzi di lavoro sono monopolio dei proprietari fondiari (il monopolio della proprietà fondiaria è anzi base del monopolio del capitale) e dei capitalisti. Lo Statuto internazionale non menziona nel passo relativo né l’una né l’altra classe dei monopolizzatori. Esso parla del “monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti dell’esistenza.” L’aggiunta “fonti dell’esistenza” mostra a sufficienza che la terra è compresa nei mezzi di lavoro. La correzione fu portata perchè Lassalle, per ragioni ora universalmente note, attaccava solo la classe dei capitalisti, non i proprietari fondiari. In Inghilterra il capitalista, per lo più, non è in pari tempo proprietario del suolo su cui sorge la sua fabbrica.

  1. “L’emancipazione del lavoro richiede la elevazione dei mezzi di lavoro a proprietà comune della società e l’organizzazione collettiva del lavoro complessivo con giusta ripartizione del frutto del lavoro.”

Invece di “elevazione dei mezzi di lavoro a proprietà comune” sarebbe meglio dire loro “trasformazione in proprietà comune”; ma la cosa è d’importanza secondaria. Che cosa è “frutto del lavoro”? Il prodotto del lavoro o il suo valore? E, nell’ultimo caso, il valore complessivo del prodotto o solo quella parte di valore, che il lavoro ha aggiunto al valore dei mezzi di produzione consumati? “Frutto del lavoro” è una rappresentazione vaga, che Lassalle ha messo al posto di concetti economici determinati. Che cosa è “giusta ripartizione”? Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è “giusta”? E non è essa in realtà l’unica ripartizione “giusta” sulla base dell’odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? Non hanno forse i membri delle sètte socialiste le più diverse concezioni della “giusta” ripartizione? Per sapere che cosa si deve intendere in questo caso sotto la frase “giusta ripartizione,” dobbiamo confrontare il primo paragrafo con questo. Quest’ultimo paragrafo suppone una società in cui “i mezzi di lavoro sono proprietà comune e il lavoro complessivo è organizzato su una base collettiva,” mentre nel primo paragrafo vediamo che “il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società.”  “A tutti i membri della società”? Anche a quelli che non lavorano? E dove se ne va allora il “frutto integrale del lavoro”? Solo ai membri della società che lavorano? E dove se ne va, allora, “l’ugual diritto” di tutti i membri della società? Ma “tutti i membri della società” e “l’ugual diritto” sono evidentemente solo modi di dire. Il nocciolo sta in questo, che in questa società comunista ogni operaio deve ricevere un lassalliano “frutto del lavoro” “integrale.” Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo. Ma da questo si deve detrarre:

Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati.

Secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione.

Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc. Queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia. Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo. Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:

Primo: le spese d’amministrazione generale che non rientrano nella produzione.

Questa parte è ridotta sin dall’inizio nel modo più notevole rispetto alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.

Secondociò che è destinato alla soddisfazione di bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc. Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.

Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri.

Soltanto ora arriviamo a quella “ripartizione,” che è la sola che, sotto l’influenza di Lassalle, grettamente viene presa in considerazione dal programma, cioè la ripartizione di quella parte dei mezzi di consumo che viene ripartita tra i produttori individuali della comunità. Il “frutto integrale del lavoro” si è già nel frattempo cambiato nel frutto del lavoro “ridotto,” benchè ciò che viene sottratto al producente nella sua qualità di privato torni a suo vantaggio nella sua qualità di membro della società. Come è scomparsa la frase del “frutto integrale del lavoro,” scompare ora la frase del “frutto del lavoro” in generale. Nell’interno della società collettivista, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi posseduta, poichè ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali non diventano più parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione “frutto del lavoro,” che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso. Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come sorge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale conferita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale a un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra. Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perchè nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perchè d’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un’altra. L’uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese, benchè principio e pratica non si accapiglino più, mentre l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo. Nonostante questo processo, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro. Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cessa di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perchè ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio in questo caso,soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale. Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società. In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!

Mi sono occupato ampiamente del “frutto integrale del lavoro” da una parte, dall’altra parte dell'”ugual diritto,” della “giusta ripartizione,” per mostrare quanto si vaneggia, allorchè da un lato si vogliono nuovamente imporre come dogmi al nostro partito concetti, che in un certo momento avevano un senso, ma che ora sono diventati frasi antiquate; e, dall’altro lato, quanto la concezione realistica, così faticosamente acquisita al partito ma che ora si è radicata in esso, viene di nuovo deformata con fandonie ideologiche di carattere giuridico e simili, così comuni tra i democratici e i socialisti francesi. Prescindendo da quanto si è detto sin qui, era soprattutto sbagliato fare della cosiddetta ripartizione l’essenziale e porre su di essa l’accento principale.

La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da se l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione. Dopo che il rapporto reale è stato da molto tempo messo in chiaro, perchè tornare nuovamente indietro?

  1. “L’emancipazione del lavoro dev’essere l’opera della classe operaia, di fronte alla quale tutte le altre classi costituiscono una sola massa reazionaria.”

La prima strofa è presa dalle parole introduttive degli Statuti internazionali, ma in forma “migliorata.” Ivi si dice: “L’emancipazione della classe operaia, dev’essere l’opera degli operai stessi.” Qui invece “la classe operaia” ha da liberare: che cosa? “Il lavoro.” Capisca chi può. In cambio l’antistrofa è una citazione di Lassalle della più bell’acqua: “di fronte alla quale (alla classe operaia) tutte le altre classi costituiscono una sola massa reazionaria.” Nel Manifesto comunista si dice: “Di tutte le classi, che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono colla grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino.” La borghesia è concepita qui come classe rivoluzionaria – in quanto organizzatrice della grande industria – rispetto alle classi feudali e ai ceti medi, i quali vogliono difendere tutte le posizioni sociali che sono l’immagine di modi di produzione antiquati. Queste ultime classi non costituiscono dunque insieme alla borghesia una sola massa reazionaria.

D’altra parte il proletariato è rivoluzionario rispetto alla borghesia, perchè, cresciuto egli stesso sul terreno della grande industria, si sforza di strappare alla produzione il carattere capitalistico, che la borghesia cerca di eternare. Ma il Manifesto aggiunge, che “i ceti medi… diventano rivoluzionari in vista della loro imminente caduta nelle condizioni del proletariato.” Anche da questo punto di vista è dunque un assurdo affermare che esse costituiscano insieme alla borghesia e ai feudali, per giunta, “una sola massa reazionaria” rispetto alla classe operaia. Nelle ultime elezioni[1] si è forse detto agli artigiani, ai piccoli industriali, ecc. e ai contadini: di fronte a noi voi costituite insieme ai borghesi e ai feudali una sola massa reazionaria? Lassalle sapeva a memoria il Manifesto comunista, come i suoi credenti le scritture sacre redatte da lui. Se egli dunque lo ha falsato in modo così grossolano, ciò è stato fatto soltanto allo scopo di giustificare la sua alleanza con gli avversari assolutisti e feudali contro la borghesia. Nel paragrafo che stiamo esaminando, inoltre, la sua sapiente sentenza viene citata a sproposito, senza alcun legame con la citazione deturpata dello Statuto dell’Internazionale. Si tratta dunque qui semplicemente di un’impertinenza, e tale da non dispiacere al signor Bismarck; una di quelle vigliaccherie a buon mercato, quali ne ha il Marat di Berlino.[2] 

  1. “La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale, essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei popoli.”

In opposizione al Manifesto comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. Si va dietro a lui in questo, e ciò dopo l’azione dell’Internazionale! S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma.” Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale,” per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale. E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli,” – frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace[3], e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. Nemmeno una parola, dunque delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca! E così essa deve far fronte alla propria borghesia, affratellata, contro di essa, con la borghesia di tutti gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale del signor Bismarck. In realtà l’internazionalismo del programma è infinitamente al di sotto perfino di quello del partito del libero scambio. Anche questo partito sostiene che il risultato del suo sforzo è “l’affratellamento internazionale dei popoli.” Ma esso fa pure qualche cosa per rendere internazionale il commercio e non si accontenta di sapere che tutti i popoli, nel proprio paese, a casa loro, fanno del commercio. L’attività internazionale delle classi operaie non dipende in alcun modo dall’esistenza della “Associazione internazionale degli Operai.” Questa fu soltanto il primo tentativo di creare un organo centrale di quella attività; tentativo che, con l’impulso che dette, ebbe un risultato permanente, ma, nella sua prima forma storica, non poteva più essere continuato a lungo dopo la caduta della Comune di Parigi.

La Norddeutsche di Bismarck era completamente nel suo diritto quando annunciava, con soddisfazione del suo padrone, che il partito operaio tedesco ha ripudiato, nel nuovo programma, l’internazionalismo. [4]

Note:

[1] Le elezioni al Reichstag ebbero luogo nel gennaio 1874.

[2] Verosimilmente il “Marat di Berlino” è Hasselmann, direttore del “Neuer Sozialdemokrat,” organo centrale dei lassalliani.

[3] Associazione fondata a Ginevra nel 1867, contro la quale lottò a fondo la I Internazionale, per volere di Marx.

[4] Si allude a un articolo pubblicato nella “Norddeutsche Allgemeine Zeitung,” l’organo di Bismarck.