Oh Tito, guarda, oh guarda che cosa hai fatto”

(W. Shakespeare, Tito Andronico – atto I)

Riavvolgere il nastro

Solo una rivoluzione con un appoggio di massa, i lavoratori in armi e un mutamento profondo della coscienza di classe causato dalle atrocità dei nazisti e dagli orrori della seconda guerra mondiale permisero alla vittoria dei partigiani di Tito di riunire sotto un’unica federazione sei gruppi nazionali principali (serbi, croati, sloveni, macedoni, montenegrini, musulmani bosniaci, per tacere di un dedalo di gruppi minori come albanesi, bosgnacchi – maggioranza in Bosnia, minoranza altrove – cechi, rom, bulgari), che parlavano tra loro tre lingue diverse e scrivevano in due alfabeti (latino e cirillico), oltre a praticare tre religioni distinte (cattolica, ortodossa e musulmana).

Conflittuale ed eterodiretta da imperi e dinastie straniere, questa diversità conviveva nei Balcani da più di 1200 anni, dall’ascesa delle tribù slave nei Balcani nel VI-VII secolo d.C.1 . Convulsioni insolubili dei primitivi sistemi sociali dell’età antica e del feudalesimo avevano tracciato la storia di questa regione. Solo l’ascesa del capitalismo dalla seconda metà del 1800 aveva introdotto un contraddittorio impulso all’indipendenza nazionale, ossia alla formazione di ulteriori impossibili barriere.

Per secoli, diversi imperi europei esercitarono sui Balcani una pressione centrifuga che sarebbe diventata ingestibile all’inizio del 1900. Ancora nel XII secolo i croati cadevano sotto il dominio dell’impero ungherese, mentre Bosnia e Serbia finivano sotto il dominio turco dell’impero ottomano dopo la battaglia di Kosovo polje del 1389. Il declino dell’impero ottomano e l’avanzata di quello asburgico, all’inizio del 1800, crearono lo spazio per la diffusione di idee riformiste nella soggiogata borghesia balcanica.

L’illuminismo prima e il dominio del capitalismo poi ebbero una profonda influenza sulle idee coltivate dai settori più colti dell’intellighezia slava. Ricorda Pirjevc:

In questo clima di fervore intellettuale cominciò a prender corpo l’idea jugoslava la quale nacque dalla convinzione, di matrice illuminista, che, data l’affinità del loro lessico, sarebbero bastate una lingua letteraria e una cultura comune per far scoprire ai popoli jugoslavi la loro parentela, fondendoli in un solo Stato.2

Queste idee centralizzatrici non preludevano alla formazione di nuove barriere, ma confliggevano con gli interessi economici delle diverse piccole borghesie balcaniche, tra loro in competizione. Non è casuale che, su un piano diverso, una simile istanza sarebbe stata assorbita un secolo e mezzo dopo dai partigiani di Tito. In fondo le idee socialiste non sono che idee illuministe conseguenti, che il capitalismo non può applicare, una volta accettato che una sola classe possa dominare la società.

Le rivoluzioni borghesi che scossero l’Europa nel 1848, borghesi negli obiettivi ma già proletarie nella composizione, non poterono che avere un profondo riflesso su queste aspirazioni. La relativa debolezza dell’impero ottomano già nella metà del 1800 permise ai serbi di farsi carico della maggior parte dei tentativi insurrezionali per liberarsi dal giogo degli imperi stranieri e fondare uno stato borghese autonomo nei Balcani. Questo protagonismo avrebbe plasmato successivamente le argomentazioni dei nazionalisti al crollo della Federazione Jugoslava, tra l’orgoglio di sentirsi protagonisti delle sollevazioni antimperiali e il fervore religioso della rivincita ortodossa dopo la sconfitta con i musulmani del 1389. Figure come Slobodan Milosevic o Radovan Karadzic, come vedremo, non lesineranno queste argomentazioni reazionarie per i propri interessi burocratici.

Ad ogni modo, dopo la sollevazione greca del 1828-30, si sollevarono i bosniaci nel 1831, vi fu la rivoluzione del Danubio nel 1848, la crisi serbo-turca nel 1862, una nuova rivolta bosniaca nel 1875-78 fino alle guerre balcaniche del 1912-13. La conquista del Kosovo da parte dei serbi fu proprio il lascito di queste guerre, oltre a conferire una spallata fatale all’Impero ottomano.

Nei manuali di storia si sottolinea spesso che la prima guerra mondiale venne innescata proprio da queste contraddizioni profonde. L’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando da parte di Gavrilo Princip fu la scintilla che diede il via a un conflitto latente tra le borghesie di tutta Europa.

È senz’altro vero, ma non coglie un aspetto. La prima guerra mondiale vide le diverse direzioni nazionali slave su opposte fazioni, con quelle slovene e croate schierate con la corona asburgica, mentre quelle serbe e montenegrine, raccolte nell’Intesa, poterono sedersi al tavolo dei vincitori.

Non è un dettaglio di poco conto. Riflette la dipendenza che tutte queste piccole nazionalità avevano nei confronti del grande capitale degli imperi. Queste piccole borghesie non potevano giocare alcun ruolo indipendente su mercati già conquistati da potenze più grandi di loro. Erano destinati ad aggrapparsi al primo carro imperialista di passaggio e a massacrarsi per conquistare brandelli di mercati. Gavrilo Princip colpì al cuore la corona asburgica, certo, ma non lo fece per l’idea di una Jugoslavia unita e indipendente: la borghesia serba voleva una Serbia autonomia, con mire sul Montenegro e l’Albania. Le altre borghesie slave avevano i propri interessi.

La prima guerra mondiale banalmente li mise a nudo.

 

Ciò che il capitalismo divide, la rivoluzione unisce

Quanto sarebbe accaduto poco meno di 30 anni dopo, con l’occupazione balcanica da parte di fascisti e nazisti, ebbe invece l’effetto contrario. L’occupazione nazista fece dei Balcani una fonte di materie prime, umane e materiali, per la tenuta dell’imperialismo tedesco e italiano. L’occupazione nazista, che regalò la Slovenia all’Italia fascista e trasformò la Croazia nel proprio avamposto locale, fu la più brutale della storia bellica.

I nazisti schiacciarono senza pietà qualsiasi aspirazione nazionale dei popoli balcanici. Nemmeno nella regione croata, dove la borghesia locale divenne immediatamente collaborazionista, il regime militare si astenne dal reprimere tanto la classe operaia croata che tutte le minoranze, a partire da quella serba, per ovvie ragioni economiche e politiche. Anzi, fu proprio l’utilizzo strumentale di una nazionalità contro un’altra, resa possibile dall’asservimento delle borghesie locali all’occupante nazista, a rendere ancora più odiosa questa forma di oppressione. Il protettorato croato degli Ustascia fascisti di Ante Pavelic infatti fece della minoranza serba ciò che i nazisti nel cuore dell’Europa avrebbero fatto degli ebrei e delle minoranze nazionali: materia prima da consumare a piacimento per poi disfarsene. Come accaduto nell’800 con la dominazione austro-ungarica, questo elemento conferì alla componente serba della resistenza un’importanza ancora maggiore, di traino delle altre nazionalità oppresse dal giogo nazista. Proprio per questo, il processo prese la direzione dell’unità dei popoli slavi contro il nazismo. La possibilità di espropriare la società e di costruirne una senza barriere, dopo la barbarie del nazismo, era più forte di qualsiasi divisione etnica.

Il peso e il ruolo giocato dai serbi nella liberazione dei Balcani è un elemento praticamente assente dalla storiografia ufficiale. L’importanza fu tale che perfino la direzione della resistenza di Tito dovette cercare di mitigarla, diluendone il peso rappresentativo.

Proprio per bilanciare questa preponderanza, al momento della vittoria

Tito e i suoi collaboratori decisero dunque di mettere la Serbia sul letto di Procuste: oltre a perdere la Macedonia, costituita in Repubblica Autonoma, e il Montenegro, ripristinato nella sua Autonomia statale, la Serbia dovette infatti accettare, nell’ambito dei territori che le rimanevano, la costituzione di due province autonome: la Vojvodina a nord, il Kosovo a sud.3

La vittoria di Tito non ebbe la fisionomia classica di una vittoria rivoluzionaria. Solo una sollevazione popolare potè scacciare i nazisti, ma la vittoria non poggiò sulla formazione di organismi consiliari nei luoghi di lavoro e nelle città. È vero, la classe operaia che va al potere per la prima volta governa all’inizio solo attraverso i suoi attivisti, ma la classe operaia slava che vinse in armi non trionfò nel controllo politico.

Come per i paesi dell’est Europa dopo l’avanzata dell’Armata rossa verso Berlino, la direzione militare di Tito aveva un sostegno di massa tale che la rivoluzione diede la caccia alle borghesie nazionali slave. Ma nei fatti erano poco più che ombre. L’imperialismo nazista e italiano le aveva spolpate fino al midollo. Chi non riuscì a fuggire venne giustiziato, ma fondamentalmente la direzione della resistenza procedette a nazionalizzare l’economia con un tratto di penna. La transizione dal capitalismo al socialismo venne gestita dalla direzione militare. Questo conferì un carattere distorto alla rivoluzione in Jugoslavia, privata di un protagonismo di massa sul piano politico.

Tuttavia, l’impulso fu tale da spingere in avanti la società jugoslava come mai avvenuto prima e la direzione fu assolutamente centripeta. Forte della nazionalizzazione dell’economia e della possibilità di pianificare, Tito riuscì a domare la forza delle diverse direzioni locali e a unificarle. Fu il nido che avrebbe accudito figure come Franjo Tudjman e Slobodan Milosevic, futuri protagonisti dello smembramento reazionario della Jugoslavia. Dirigenti di primo piano dell’apparato della Federazione Jugoslava, avevano costruito la propria autorità nei decenni di crescita economica della Federazione, anni dopo la vittoria dei partigiani sul nazismo, a testimonianza dei quali era rimasto in vita simbolicamente Tito.

Questo aspetto non può essere colto dalla storiografia liberale, che dipinge i protagonisti delle guerre jugoslave come se non avessero alcun passato storico. Su questo piano, finiscono con l’attribuire ad intere etnie dei sentimenti naturali che permettono loro di spiegare la guerra:

Mentre i croati, gli sloveni e in parte anche i macedoni miravano al rafforzamento del principio federale per rivendica la propria individualità nei confronti dei serbi, costoro erano attratti dal centralismo partitico e statale, l’unico capace, a loro avviso, di garantire compattezza alla complessa compagine di cui costituivano l’elemento più numeroso e influente.4

Così i serbi “erano attratti” dal centralismo e quindi naturalmente inclini a impiegare i carri armati per soffocare le naturali prerogative delle altre minoranze. Sarebbe tutto davvero così semplice, non fosse che a differenza dei russi nella Russia zarista i serbi erano maggioranza solo in Serbia. Semmai è il peso giocato dai serbi durante la guerra di liberazione a conferire loro un ruolo più protagonista nella tenuta della Federazione.

Dunque, la Federazione socialista jugoslava conteneva in sé numerose contraddizioni. Aveva nazionalizzato l’economia, ma i lavoratori non ne decidevano davvero le sorti; aveva unificato popoli e confini, ma le direzioni locali del partito si basavano su un consenso locale fatto di lingue e tradizioni che, senza democrazia dal basso, era destinato ad accumularsi fino ad esplodere. Era uscita dalla guerra in condizioni di disastrosa arretratezza economica, ma la pianificazione le permetteva tassi di crescita enormi.

Quest’ultimo aspetto, in particolare, conferì a Tito una autonomia nel mondo comunista che impose una svolta decisiva alle sorti della Federazione.

 

Lo scontro Tito-Stalin

Nessun’altro processo politico che non fosse un piano di nazionalizzazioni e di reciproca autonomia, pur gestita da un governo centrale composto dalle diverse direzioni nazionali della resistenza, avrebbe potuto tenere insieme tutto questo. Sconfiggere i nazisti mise da parte qualsiasi spinta centrifuga coltivata dalle diverse direzioni nazionali. L’idea di accomunare risorse e intelligenze sul piano produttivo anziché dividerle sul piano della lingua creò la Federazione socialista jugoslava nel 1945.

Stalin non l’aveva prevista e non vi è traccia della Jugoslavia negli accordi di Yalta. D’altronde non avrebbe potuto, essendo la mentalità ristretta del socialismo in un solo paese dell’apparato sovietico una distorsione nazionalista del marxismo. Come si poteva costruire il socialismo in un solo paese in un mondo capitalista? Era un non-sense che tuttavia godeva dell’immensa autorità della vittoria bellica, e che risentiva della difficoltà a vedere nell’apparato sovietico degli usurpatori della rivoluzione anzichè degli eredi.

Per Stalin contavano i vantaggi che avrebbe potuto trarre per la diplomazia sovietica, come se l’Urss potesse essere trattata alla pari dal resto del mondo capitalista, più che i processi rivoluzionari degli altri paesi che avrebbero potuto contribuire allo sviluppo dell’Urss e porre le basi della rivoluzione mondiale. I partigiani italiani lo avrebbero pagato a proprie spese, nello stesso periodo della vittoria di Tito, confrontandosi con l’uomo di Stalin in Italia, Palmiro Togliatti. 5

Eppure c’era un aspetto centrale che differenziava la Jugoslavia di Tito dagli altri paesi del Patto di Varsavia. In questi ultimi l’abbattimento del capitalismo era avvenuto attraverso l’invasione dell’Armata rossa. Lungi dal suscitare rivoluzioni, l’Armata rossa che stava sconfiggendo il nazismo era concepita da Stalin e dalla burocrazia sovietica come l’organismo della politica estera dall’Urss, non come uno strumento per la rivoluzione planetaria. Le masse di questi paesi vennero liberate dai loro padroni borghesi senza esserne direttamente impegnate.

La Jugoslavia si era liberata da sola e senza nemmeno l’intervento alleato, impegnato a scongiurare che la rivoluzione socialista non scoppiasse nella ben più importante Grecia. Tito aveva prima cacciato il più brutale esercito della storia e poi abbattuto l’ombra della borghesia slava con un sostegno di massa. I regimi in Europa dell’est invece erano stati introdotti per decreto dopo l’invasione dell’esercito sovietico. Nella sostanza, erano tutti regimi di bonapartismo operaio, dove una corretta nazionalizzazione non era però gestita da soviet funzionanti che decretassero un regime operaio sano. Ma tra la Jugoslavia e la Bulgaria o la Romania vi era, nel mezzo, la forza del consenso di massa di cui godeva Tito, la cui autorità era stata guadagnata sul campo.

Questo inevitabilmente portava a crescenti frizioni con Stalin che, come per la Cina di Mao, non poteva sopportare che esistessero modelli socialisti indipendenti e competitivi verso l’Urss. Nel luglio del 1948 queste frizioni spinsero Stalin a espellere Tito dal Cominform6.

La rottura impresse alla Jugoslavia una rotta peculiare. Tito, anche per smarcarsi politicamente da Stalin, cominciò presto a giocare il ruolo di figura indipendente e originale nel comunismo mondiale, trasformando la Jugoslavia in un apparente esperimento.

È curioso leggere le motivazioni della rottura, soprattutto dalla parte di Mosca, che accusa Tito di eterodossia e, profonda ironia della storia, di burocratismo:

La direzione del Partito Comunista Jugoslavo sta conducendo una politica ostile verso l’Unione Sovietica e verso il Partito Comunista dell’URSS. In Jugoslavia è stata permessa una politica indegna volta a sminuire gli esperti militari sovietici ed a screditare l’esercito sovietico. Gli specialisti civili sovietici in Jugoslavia sono stati sottoposti a un regime speciale, in base al quale sono stati messi sotto la sorveglianza degli organi di sicurezza dello Stato e sottoposti a pedinamenti. Il rappresentante del Partito comunista dell’Unione Sovietica (bolscevico) presso il Cominform, il compagno Yudin, e alcuni rappresentanti ufficiali dell’Unione Sovietica in Jugoslavia, sono stati sottoposti alla stessa sorveglianza da parte degli organi di sicurezza dello Stato jugoslavo.

Tutti questi fatti, ed altri simili, dimostrano che i leader del Partito comunista jugoslavo hanno assunto un atteggiamento indegno per dei comunisti, sulla base del quale hanno iniziato a identificare la politica estera dell’URSS con la politica estera delle potenze imperialiste e si sono comportati nei confronti dell’Unione Sovietica allo stesso modo con cui si comportano nei confronti degli Stati borghesi. Proprio in conseguenza di questo atteggiamento antisovietico, la propaganda calunniosa – mutuata dall’arsenale del trotskismo controrivoluzionario – sulla degenerazione del Partito comunista dell’Unione Sovietica, sulla degenerazione dell’Unione Sovietica e così via è diventata ricorrente nel Comitato centrale del Partito comunista jugoslavo.7

È notevole il fatto che, più di 40 anni dopo, la Russia nazionalista avrebbe sostenuto indirettamente la Serbia di Milosevic, ma solo sul piano diplomatico (almeno fino all’occupazione russa dell’aereoporto di Pristina nel giugno del 1999). Evidentemente la religione ortodossa, nuovo collante della Serbia nazionalista, non era un pegno sufficiente per riacquistare completamente la fiducia dell’imperialismo russo.

 

Il socialismo biscottato

Effettivamente in Jugoslavia si assistette a due peculiarità fondamentali rispetto al regime sovietico. Il Partito Bolscevico aveva conquistato il potere in Russia alla testa di minoranze a cui promettere l’autonomia o perfino il diritto di scissione, pur mostrando loro i vantaggi del centralismo. Tito invece si bilanciò tra le diverse nazionalità e compose un governo federale per somme aritmetiche.

Soprattutto, l’indipendenza politica ed economica di cui godette Belgrado nei confronti di Mosca lasciò spazio anche per esperimenti, almeno nei primi 20 anni di esistenza della Jugoslavia. In assenza di una reale democrazia operaia, simili esperimenti si potevano condensare solo sulla base di una crescita economica sufficiente, che è quanto visse il regime fino alla metà degli anni ‘70.

La pianificazione economica mostrò presto i propri vantaggi. La Jugoslavia divenne un modello di crescita persino per i paesi a capitalismo avanzato. Era l’unico paese dell’orbita socialista a godere di un regolare turismo occidentale, che non provenisse esclusivamente dai paesi del Patto di Varsavia o dai viaggi organizzati dai partiti comunisti di tutto il mondo.

Vi erano alcune sfumate differenze rispetto all’Unione sovietica. Il Partito Comunista Jugoslavo fissava obiettivi per le singole imprese, che potevano anche competere tra loro. Ma tali obiettivi non erano obbligatori. Inoltre, il Partito non aveva il pieno controllo dei prezzi, come conseguenza del primo aspetto. Di fatto, la pianificazione galleggiava su una linea di strisciante liberalismo. Questo aspetto era impensabile in Urss, almeno fino alla Perestroijka di Gorbaciov, che fece da ostetrica alla definitiva caduta.

L’aspetto centrale di queste sperimentazioni fu indubbiamente l’autogestione operaia, un modello di organizzazione per cui da tutte le aziende i dipendenti potevano contribuire alla pianificazione della produzione. Questi stimoli pervenivano poi al potere centrale attraverso i funzionari del partito.

Come detto, l’esperimento durò per almeno 20 anni con un certo successo. Le condizioni economiche permettevano alla burocrazia slava di allentare i cordoni del controllo, pur mantenendo correttamente il polso del piano economico. Se dal 1965 la prima riforma economica del paese aveva rivisto il sistema dei prezzi, svalutando il dinaro e aprendo agli investimenti esteri, dal 1976 il processo di autonomizzazione del sistema dell’autogestione diventava irreversibile. Tutto il potere viene conferito alla cellula di base, l’Oour (Osnovna oranizacija undruzenog rada), coordinata all’interno dell’impresa e in competizione tra loro8. Di fatto, da sistema di autogestione emerse una sorta di sistema di cooperative, con le singole aziende costrette ad autosfruttarsi per competere sempre di più in un mercato a cui la Jugoslavia era ormai inevitabilmente aperta.

Naturalmente una simile autogestione non era che una pallida imitazione del controllo operaio. Paradossalmente, la Jugoslavia che aveva espropriato la borghesia reintroduceva forme di competizione individuale per spingere avanti l’economia.

Darko Suvin, uno dei principali storici marxisti dell’esperienza jugoslava, riassume così i vantaggi dell’autogestione:

Ne cito sei: creò un ambiente favorevole ai miglioramenti produttivi; creò una barriera alla monopolizzazione del potere, permettendo a tutti di discutere degli obiettivi; stimolò l’accumulo di benessere attraverso il sacrificio, incoraggiando anche uno spirito imprenditoriale di gruppo; incoraggiò la ricerca di una verità obiettiva anche nel rapporto con la direzione […]; infine, diede ai lavoratori la sensazione di poter prendere nelle mani i propri compiti.9

Questo modello attenuò molto le tensioni tra diverse nazionalità. Il criterio individuato da Tito dava i propri frutti, nei limiti del possibile. Giustamente l’economista Brokemeyer sottolineò come la Jugoslavia non venne attraversata dalle stesse convulsioni che avrebbero attraversato la Polonia o la Romania, dove un’insurrezione armata depose Ceausescu nel dicembre 1989:

Questa transizione avvenne senza convulsioni severe. Non ci sono state carestie o scontri sanguinosi tra lavoratori e polizia, come avvenuto in Polonia, né una miseria crescente come in molti altri paesi.10

Ma il modello era destinato a non durare perché i lavoratori avevano solo la parvenza del controllo. Con la competizione, riemerse una stratificazione sociale che il socialismo burocratico non aveva mai nascosto:

[…] durante gli anni ‘50 l’autogestione aiutò i lavoratori ad acquisire quella disciplina operaia che non avevano dalle campagne da cui provenivano; nelle fabbriche ridusse le barriere tra lavoratori di diversa estrazione etnica e religiosa e stimolò gruppi crescenti di lavoratori a prendere decisioni su questioni più ampie. L’aspetto negativo fu che gli strascichi del diritto borghese nell’ideologia e nella produzione si riversarono nella divisione tra colletti blu e colletti bianchi.

[…] Gli specialisti laureati, all’inizio in materie tecnico-scientifiche ma poi anche in discipline più morbide come legge ed economia, erano pressoché intoccabili; soprattutto erano pagati fino a cinque volte tanto.11

Il paese crebbe a un tasso del 10% fino alla metà degli anni ‘70. La crisi economica internazionale svelò una Jugoslavia vulnerabile alle sorti del mercato mondiale, priva com’era di un organico appoggio da Mosca. La Jugoslavia doveva competere esportando verso est a prezzi agevolati, ma il sistema, senza un reale controllo del commercio estero, veniva compensato a suon di indebitamento statale. Fu in questo periodo che la direzione per la prima volta aprì ai prestiti esteri. Il declino si riflesse prima sul piano sociale, poi su quello economico, infine su quello ideologico. Riporta significativamente Suvin:

La percentuale di lavoratori coinvolti nell’autogestione cadde dal 76.2% del 1960 al 67.5 del 1970, di cui solo il 55% erano lavoratori di produzione. Nella Slovenia più produttiva, a partire dal 1974 solo gli alti dirigenti e i tecnici esperti avevano la possibilità di decidere degli investimenti a lungo termine, delle norme produttive e perfino dei criteri di retribuzione dei lavoratori senza cura del fatto che i lavoratori si sentivano privi di potere e alienati e che per l’80% di loro – più del 90% se consideriamo i lavoratori meno qualificati e le lavoratrici – il termine “socialismo” non significa molto più che raggiungere un più alto livello di vita.

[…] Il risultato fu un sistema misto che combinava elementi di socialismo in politica e nell’ideologia, elementi di capitalismo nella produzione di beni e nelle influenze culturali ed elementi di autogestione – come di cogestione – ai livelli più bassi della gerarchia produttiva e delle attività culturali (ma non in quelle politiche). […] L’aspetto centrale rimane: l’autogestione operaia era stata pensata e costruita attraverso tutte le forme di democrazia operaia possibile e realizzata nella pratica per estinguere l’apparato dello stato? La risposta è no.12

Il sistema di autogestione venne creato dall’alto e dall’alto crollò. Il suo fallimento era contenuto nella continua frizione tra il controllo del partito e l’illusione di libertà che il sistema di autogestione forniva.

Quando Tito morì, il 4 maggio 1980, la direzione slava aveva già avuto contatti con il Fondo Monetario Internazionale. La Federazione socialista di Jugoslavia esisteva già da quasi 40 anni. Non era certo un governo rivoluzionario isolato, nuovo al potere e in piena guerra civile, costretto ad introdurre elementi di capitalismo nell’attesa di ricevere aiuto dalla classe operaia al potere in altri paesi. Detto altrimenti, certo non era la Russia dell’inizio degli anni ’20. Era invece uno stato deformato sì, ma con l’economia nazionalizzata e il monopolio del commercio estero. L’apertura ai prestiti privati costituì sì un paradosso ma era soprattutto un riflesso dell’impossibilità di mantenere a lungo uno stato operaio in un’isola di capitalismo e quindi di costruire il socialismo in un paese solo. Accerchiato da un mare capitalista, questa federazione apparentemente granitica era destinata a sgretolarsi come una fetta biscottata.

Tra il 1982 e il 1990 il tenore di vita si dimezzò, mentre l’inflazione crebbe senza controllo. Ancora nel 1962 l’apparato aveva abbandonato il terzo piano quinquennale. Queste crescenti disparità economiche produssero ripetuti tentativi di correzione dal basso, con mobilitazioni sindacali e del movimento studentesco che culminarono nel 1974 con l’occupazione dell’Università di Belgrado al grido di “Abbasso la borghesia rossa”.

Ma il “socialismo di mercato” che l’apparato aveva adottato timidamente all’inizio degli anni ‘70 venne ritirato solo formalmente. Nella sostanza era vivo e vegeto.

Dalla morte di Tito i principali dirigenti nazionali dei vari partiti slavi emersero come dirigenti complessivi del paese. Lo stesso Slobodan Milosevic divenne segretario del Partito Comunista Serbo nel dicembre 1987, cavalcando una crisi istituzionale nata dopo una stagione di proteste operaie molto accese.13 È in questo periodo che, chi apertamente come le direzioni slovene e croate e chi strumentalmente come quella serba, voltano le spalle alla Federazione Jugoslava. Non vi è stato alcun complotto: la Jugoslavia venne smembrata dall’interno, non dall’esterno.

L’unico modo di riciclarsi con il nuovo sistema economico che stava arrivando che questi dirigenti avrebbero avuto era diventare capitalisti in uno stato unitario, come accaduto a molti oligarchi in Russia, oppure costruirsi i propri mercati nazionali a scapito di territori e popolazioni altrui.

Scelsero tutti questa seconda strada. Non fecero poi molta a fatica sbriciolare il socialismo slavo: era friabile da molto tempo.

 

La secessione slovena

Ancora nel gennaio 1991 Milosevic preconizzava apertamente quanto sarebbe accaduto di lì a pochi mesi:

Se la Jugoslavia dovesse diventare una Confederazione di stati indipendenti, la Serbia chiederà dei territori dalle Repubbliche confinanti affinché tutti gli otto milioni e mezzo di serbi possano vivere nello stesso stato.14

Mentre assecondava l’astro nascente del nazionalismo serbo-bosniaco, lo psichiatra Radovan Karadzic, il principale dirigente serbo cominciò a riporre le proprie attenzioni sia sulla Slovenia che sulla Croazia, i due paesi dove le spinte centrifughe dell’apparato burocratico erano più palesi. Nel febbraio 1991 arrivò perfino a proclamare la costituzione della repubblica serba della Krajina, in territorio croato. Simili proclami verranno ripetuti decine di volte negli anni successivi, in piena occupazione militare.

Era chiaro che la direzione serba si sentisse erede di diritto della Jugoslavia perché al centro della direzione dell’Armata popolare, l’esercito ufficiale del paese. Assumeva che Belgrado sarebbe rimasta la capitale, perfino se avessero dovuto concedere delle briciole di autonomia.

La Slovenia era stata il punto d’approdo di esportazioni e importazioni dall’inizio degli anni ‘80. L’apertura al mercato mondiale era passata da Lubiana, così come il legame politico e finanziario con la cancelleria tedesca. La direzione comunista slovena accarezzava da tempo l’idea di un’autonomia ancora più marcata. Con lo sgretolamento della tenuta politica ed economica del paese dalla fine degli anni ‘80, i preparativi per lavorare militarmente e diplomaticamente all’indipendenza vennero meticolosamente pianificati. Eppure la stessa scissione slovena non fu un complotto, ma l’esito naturale di un processo che aveva gettato le sue radici nelle contraddizioni accumulate in 40 anni di distorsione socialista burocratica.

Nel 1988 la Slovenia venne attraversata da un vasto movimento d’opinione pubblica contro il disfacimento jugoslavo. Nemmeno il Partito comunista locale potè sottrarsi, ormai completamente vulnerabile alle pressioni che provenivano oltre confine. Nell’aprile 1990 vennero organizzate in Slovenia le prime vere elezioni multipartitiche nella storia slava. Il Partito comunista sloveno andò all’opposizione, portando al governo una coalizione liberal-cattolica, DEMOS.

Era un chiaro segno del processo politico in corso.

Per precisione, accadde lo stesso in Croazia. La vittoria dell’Unione Democratica Croata di Franjo Tudjman avviò un processo di epurazione dei serbi dalle cariche pubbliche, che costituivano circa il 12% della popolazione. Ai serbi venne tolto anche lo status di nazione costituente della Repubblica, relegandoli a una minoranza tra le tante. Tudjman condì il tutto con un costante richiamo alla simbologia fascista e al regime di Ante Pavelic. Tutto questo venne accolto a Belgrado con selvaggio furore, memori dei sacrifici serbi durante la liberazione dal nazismo. Anche in Croazia il processo avanzò rapidamente, tanto che nell’agosto del 1990 la comunità serba di Knin, in Croazia, si ribellò contro le autorità locali.

L’ultimo atto della Jugoslavia unita fu il tentativo di Izetbegovic in Bosnia, Tudjman in Croazia, Kucan in Slovenia e Gligorov in Macedonia di trasformare la Jugoslavia in una confederazione di stati indipendenti, anticipando quanto sarebbe accaduto nel dicembre dell’anno successivo in Russia.

Ma è importante comprendere che ormai le diverse burocrazie slave, che avevano piani per la secessione e per l’organizzazione di milizie indipendenti, stavano costruendo una propaganda necessaria alla scissione. Il loro obiettivo era costruire un proprio mercato per trasformarsi in rispettive borghesie nazionali. Milosevic e i suoi, che controllavano gran parte dell’esercito jugoslavo, non si opposero per amor di patria per gli stessi contrapposti interessi.

È in questa cornice che va letta la citazione del discorso del gennaio 1991 all’inizio di questo capitolo. A Milosevic della Jugoslavia non importava più nulla, ma aveva bisogno di costruire una retorica che strizzasse l’occhio ai nostalgici della crescita economica degli anni ‘70 e alla nuova generazione vulnerabile all’idea di una Grande Serbia capitalista dopo le macerie della Federazione.

I principali paesi imperialisti europei furono inizialmente scettici di fronte a questo processo secessionista. È tipico del riformismo approcciare staticamente la realtà. Pirjevec accusa addirittura l’Unione Europea di essere stata filoserba a lungo, prima di cedere di fronte alle atrocità perpetrate ai danni dei musulmani di Bosnia.

Col consueto cinismo di un partito che di socialista aveva ormai solo il nome, nel marzo 1991 il ministro degli esteri italiano socialista Gianni De Michelis ricordava alla diplomazia slovena:

Signori miei, in Europa non c’è più spazio per nuovi stati, e voi sicuramente non volete trasferirvi su un altro continente.”15

Era lo stesso approccio tenuto dall’ambasciatore americano a Belgrado, Warren Zimmermann, che esprimeva la linea di Washington di puntare tutte le proprie carte sul presidente federale Ante Markovic, la cui autorità era ormai completamente sospesa in aria.

Il 19-20 giugno 1991 fu convocato a Berlino il primo congresso dei ministri degli esteri della Confederazione sulla sicurezza e cooperazione in Europa (CSCE), dove fondamentalmente si assunse l’impegno di sostenere gli sforzi della Jugoslavia di trasformarsi economicamente e politicamente. La Comunità Europea trattava la Jugoslavia come se esistesse ancora. In realtà, questa posizione fotografava la posizione dell’imperialismo tedesco: assistere la secessione per guidare la transizione al capitalismo del maggior territorio possibile nei Balcani, a partire dalla fidata Slovenia e poi dalla Croazia. Fare dei balcani un nuovo mercato per il capitalismo tedesco: questo fu il significato della politica tedesca nella regione.

Implicitamente, per Kunic e Tudjman fu un via libera. Il 25 giugno 1991 i parlamenti di Lubiana e Zagabria votarono l’indipendenza. Un atto di penna sanciva formalmente la dissoluzione della Jugoslavia, avvenuta nei fatti ormai da quasi 10 anni.

La storia del conflitto militare sloveno fu breve e senza particolare rilevanza se non per un dettaglio, che si rifletterà nei 4 anni di conflitto successivo. La Slovenia era pronta alla secessione da tempo. Il suo astro nascente politico e militare, Janez Jansa, aveva organizzato una forza paramilitare di circa 36mila uomini basandosi su reclutamento locale, polizia locale e caserme dell’esercito ufficiale composto prevalentemente da soldati di leva sloveni e ufficiali misti, in parte sloveni e in parte serbi. L’aviazione serba si allungò a bombardare i ripetitori delle televisioni e l’aeroporto di Brnik ma fondamentalmente l’esercito venne preso di sorpresa e le caserme non allineate agli sloveni prese in ostaggio.

Ricorda Pirjevec dello stupore dei vertici militari serbi:

A Belgrado, l’impatto delle notizie provenienti da Lubiana fu traumatico; generale fu il biasimo nei confronti dell’Armata popolare per la sua inefficienza, ma ancor più diffusa fu la condanna degli sloveni, che avevano osato sparare sui ‘nostri ragazzi’ come su bersagli mobili e fin dall’inizio delle ostilità avevano preso d’assedio le caserme, togliendo loro l’acqua e la corrente elettrica, così da trasformarle, data la calura estiva, in gironi infernali: ‘Bisogna livellarli al suolo’, dicevano gli uni, ‘E lasciamo che se ne vadano’, sostenevano gli altri.”16

Le milizie di Jansa occuparono le strade principali cogliendo di sorpresa i vertici militari jugoslavi, che credevano che il movimento di qualche carro armato avrebbe fatto desistere un movimento che, si credeva, fosse di soli studenti e intellettuali. Alla fine la Slovenia si scisse con non più di 70 morti dopo un braccio di ferro con Belgrado durato non più di un mese. Divenne subito di esempio per Zagabria e Skopje, tanto che Milosevic il 6 luglio 1991 espresse il proprio consenso alla scissione slovena, ma solo perché di fatto non vi abitavano serbi.17

C’è quindi un solo elemento importante da considerare: le secessioni, almeno all’inizio, ebbero un consenso di massa. L’esercito jugoslavo avrebbe incontrato una simile resistenza anche in Croazia pochi mesi dopo. Questo consenso dialetticamente si sarebbe trasformato nel proprio contrario man mano che emergeva chiaramente l’incubo nazionalista nella quale le diverse popolazioni andavano sprofondando. Ma sul momento fu decisivo per dare credito ai propri dirigenti locali. Agli occhi di Milosevic e di Tudjman, con la secessione slovena, si apriva la vera partita che avrebbe condizionato l’intero conflitto: il controllo delle coste croate e del corridoio bosniaco.

Ma com’era possibile che popolazioni civili che avevano apertamente convissuto per decenni potessero d’improvviso trasformarsi in nemici mortali? E tale trasformazione fu davvero improvvisa, come maliziosamente tende a negare la storiografia liberale con lo scopo velato di dimostrare che il regime di Tito semplicemente aveva messo sotto il tappeto diversità naturalmente inconciliabili? Dobbiamo una risposta razionale e di classe a questa mitologia, ora che il conflitto slavo è uscito dalla cronaca per entrare nella storia. Vi impegneremo la parte conclusiva di questa analisi, quella che dall’invasione serba di Croazia e Bosnia ci porterà fino ai traballanti accordi di Dayton del 1995 lungo una strada che il criminale di guerra Radovan Karadzic non avrebbe lastricato di buone intenzioni:

State attenti a che gioco giocate. Se ci muoviamo, l’intero vostro popolo perirà sull’autostrada dell’inferno”.18

 

Note:

1 Joze Pirjevec – Le guerre jugoslave, Einaudi Storia. Siamo debitori nei confronti di questa monumentale opera per tutti gli aspetti cronologici considerati (ma non per l’analisi oggetto di questo articolo, che anzi sottopone a critica l’approccio liberale di questo storico)

2 Idem, pag 6

3 Idem, pag 19

4 idem, pag 22

5 Potete approfondire alcuni aspetti del rapporto tra resistenza italiana e direzione comunista qui: https://marxpedia.org/2020/04/24/la-resistenza-non-si-rivede/

6 La confederazione dei partiti comunisti d’Europa, almeno fino al 1956

7 Dichiarazione di espulsione dal Cominform, riportata dal Daily Worker britannico, 30 giugno 1948

8 D. Suvin, Splendour, misery and possibilities – An x-ray of socialist Jugoslavia

9 D. Suvin, Splendour, misery and possibilities – An x-ray of socialist Jugoslavia (nostra traduzione)

10 Broekmeyer, 1970, cit. in Suvin

11 Idem

12 Idem

13 J. Pirjevec – Le guerre jugoslave – Einaudi editore

14 Idem

15 J. Pijevec, Le guerre jugoslave, Einaudi editore

16 J. Pirjevec – Le guerre jugoslave, Einaudi Editore

17 Idem

18 Ibidem