
Con questo testo vogliamo provare a contribuire al dibattito che si sta sviluppando attorno al Patto d’Azione anticapitalista. Al di là del Patto, comunque, non ci sembra casuale e riteniamo positivo il crescente interesse tra un settore di attivisti verso il tema dell’unità d’azione tra le forze anticapitaliste.
1. E’ evidente per chiunque voglia vedere. E per questo qua ci limiteremo solo ad accennarlo nuovamente. Tutte le contraddizioni del sistema che hanno dato vita alla grande crisi del 2008 sono state in questi anni accresciute esponenzialmente. Il capitale, affogato da sovrapproduzione e calo del saggio di profitto, ha generato un mercato finanziario fuori controllo. La bolla finanziaria tutto domina e su tutto incombe. Gli Stati la tengono in vita con il respiratore artificiale della liquidità. Stampano moneta accumulando debito. Sono così riusciti per un po’ a ritardare il crack finanziario. Ma tanto più la crisi è stata rimandata sul terreno finanziario, tanto più ha trovato espressione su altri piani sociali. Collasso ambientale, aumento degli scontri tra nazioni, pandemia sono solo ulteriori facce della stessa crisi di sistema.
2. L’umanità è ogni giorno più incompatibile con il capitalismo. Una cupola di ricchissimi, una rete di amministratori delegati, una cricca di grandi investitori, un pervasivo sistema finanziario e bancario: questo è il capitalismo nella sua espressione terminale. La vita reale, quella fatta di cibo da mangiare, paesaggi da attraversare, scuole dove imparare, ospedali dove curarsi, scoperte tecnologiche di cui godere, arte da praticare e ammirare, è agli antipodi del capitalismo. La vita reale è anticapitalista o è destinata a soccombere. La prossima tappa dell’umanità sarà un sistema internazionale, pianificato democraticamente, dove i mezzi di produzione siano diretti dal bisogno sociale o l’intera società verrà inghiottita da una barbarie crescente. Il covid 19, alla pari della guerra in Siria o di qualsiasi altra catastrofe apparentemente casuale, sono solo l’espressione di questo bivio storico.
3. Un movimento internazionale è in cammino da mesi: Cile, Ecuador, Iraq, Libano ecc. E ora Stati Uniti. E’ stato sospeso, non azzerato, dal sopraggiungere della pandemia. Non stupiscono le inevitabili differenze di paese in paese, ma semmai i punti di contatto. La sua incredibile carica spontanea non è un male o un bene di per sé. Può essere entrambe le cose. E’ un dato di cui prendere atto. Senza esagerarlo: anche laddove le mobilitazioni non hanno incrociato organizzazioni sindacali o partiti della sinistra radicale, hanno visto comunque un protagonismo di tutte quelle reti di militanza che si sono accumulate negli anni. Ciò che stupisce di questo ciclo di lotte è la rapidità con cui esse assumono una forma insurrezionale, di sfida allo Stato. La spontaneità quindi è un dato di partenza, non un obiettivo di per sé. Senza la sedimentazione di coscienza politica organizzata, la ribellione rischia di non evolvere in rivoluzione e la rivoluzione di non partorire alcun cambiamento effettivo.
4. In Italia siamo ormai impantanati da oltre dieci anni. La situazione italiana non si caratterizza solo per l’assenza di un movimento di massa, ma ancora di più per l’assenza di qualsiasi riferimento politico di classe, seppur di minoranza, nel dibattito pubblico. E le due cose si alimentano a vicenda. Si sono sommati processi diversi. L’accelerazione della crisi economica del 2008 è avvenuta in contemporanea al crollo della cosiddetta sinistra parlamentare. Il grande movimento studentesco dell’Onda del 2008 è evaporato, a causa di una impostazione movimentista, aprendo un periodo di riflusso nei luoghi di studio. La nascita del Pd nel 2007 ha ulteriormente zavorrato i vertici della Cgil. Chi si aspettava che la fine della cinghia di trasmissione tra sindacato e Democratici di Sinistra avrebbe costretto i vertici sindacali ad aumentare il proprio protagonismo sociale e politico, è rimasto evidentemente deluso. Il mastodontico apparato burocratico sindacale ha dimostrato di non essere legato a questa o a quella corrente socialdemocratica, ma al rapporto istituzionale in quanto tale.
La finestra aperta nel 2010 in Fiat con lo scontro tra Marchionne e Fiom è stata lasciata richiudersi. Con le strutture di massa del movimento operaio assenti, immobili o balbettanti, altri attori hanno colmato il vuoto. La piccola borghesia, altrettanto rovinata dalla crisi, è entrata in fibrillazione alimentando le più svariate correnti politiche. L’ascesa dei 5 Stelle ne è stata la massima espressione. Così anche la rabbia accumulata nei luoghi di lavoro è stata imprigionata dalla bolla 5 Stelle e dispersa nei mille rivoli della confusione politica. Questo spiega anche il livello infimo del dibattito politico nel paese, persino tra le cosiddette avanguardie.
5. Questo scenario rappresenta già di per sé una critica contundente a tutti noi. La nostra non è una presa d’atto formale o una autocritica di routine. Ci sentiamo parte del problema tanto quanto aspiriamo ad essere parte della soluzione. In dieci anni qualsiasi ipotesi politica sia stata messa in campo non è riuscita a trovare la via per fornire un riferimento credibile o autorevole alla classe del nostro paese. Non ce ne vogliano le compagne e i compagni. Sappiamo bene che c’è chi nel corso di questo decennio ha fondato partiti e gruppi, partecipato a scadenze elettorali, movimenti e manifestazioni, ha registrato magari una discreta crescita militante, sviluppato pubblicazioni, strutture sindacali o anche solo banalmente ha tenuto botta.
Il punto è che questo complesso di sforzi non ha visto emergere una proposta egemone, né ha saputo aprirsi una strada nell’ immaginario della classe. C’è chi ha atteso il partito di Landini, chi ha provato a fondare il partito sociale, chi ha costruito il partito comunista autocentrato, chi ha praticato il movimento senza alcun riguardo per lo sbocco politico, chi ha sovrapposto il piano sindacale e partitico, chi ha provato a rigenerare il Prc, chi ha appoggiato cartelli elettorali unitari ecc. Non vogliamo fare del basso qualunquismo. Non siamo indifferenti alle opzioni in campo: abbiamo saputo cogliere le differenze tra di esse, cogliendo anche le dispute teoriche alla base di ognuna. Ad oggi ci limitiamo a fotografare questo dato: dovunque si sia collocata la ragione o il torto, dieci anni si sono rivelati sufficienti a dimostrare la parzialità di tutte le proposte in campo o al contrario si sono dimostrati uno spazio di tempo insufficiente perché esse rivelassero la propria adeguatezza. Alla fine dei conti, quello che tutti noi stiamo raccogliendo è una frammentazione irresponsabile al cospetto del comune nemico di classe. Un livello di frammentazione ormai intollerabile alla luce della possibile accelerazione degli avvenimenti.
6. Non sappiamo quanto tempo passerà prima che anche l’Italia sia travolta dal ciclo di lotte, ma gli scioperi di marzo, per fermare le produzioni non essenziali durante la pandemia, stanno lì a dimostrare l’urgenza dei nostri compiti. Confindustria affila le armi per un attacco frontale. La piccola borghesia è uscita con le ossa completamente rotte dal lockdown. La pandemia ha sublimato e esasperato la sostanza classista del sistema scolastico. Grandi avvenimenti ci attendono e sta a tutti noi provare a indicare la via più realistica per dotare le avanguardie e gli attivisti di questo paese di uno strumento politico in un lasso di tempo ragionevolmente breve.
Qualsiasi sia lo schema che tutti noi avevamo in testa, oggi e ad oggi, tale soggetto politico può provare a darsi solo dalla unificazione e dalla somma della galassia dei gruppi e attivisti che compongono la sinistra di classe e radicale. Va da sé che non parliamo di una unificazione a fini elettorali. Né ci riferiamo a quella gassosa sinistra moderata che si colloca ai margini del Pd. Neppure però parliamo di un semplice coordinamento di vertenze.
7. Stiamo parlando di un soggetto politico in grado di avere sufficiente massa critica perché un programma anticapitalista sia almeno nominato, propagandato tra settori della classe, nei quartieri delle principali città, nei sindacati di massa o nel sindacalismo di base. Non un soggetto politico che azzeri tutte le differenze in campo, ma che al contrario sia anche un terreno dove tali differenze si confrontino e si scontrino. Dove la lotta per l’egemonia di opzioni teoriche differenti viva come lotta di tendenza dentro una unica piattaforma militante, invece che come frammentazione nel mare aperto della società.
8. Siamo ben consapevoli dei rischi di tale proposta. La logica dell’ “intergruppo” – degli incontri tra i dirigenti di gruppi – non ha mai funzionato. E non funzionerà nemmeno questa volta. Dentro gli intergruppi finisce per prevalere la diplomazia tra vertici o al contrario veti reciproci immobilizzanti. E non è questo infatti quanto proponiamo.
9. Né si può sostituire il partito di classe che non c’è. Nessuno dei gruppi esistenti porta in dote alcun legame di massa. Per quanto possiamo convocare assemblee nazionali, noi tutti ad oggi rappresentiamo un settore ultraminoritario della classe. Il soggetto che ne nascerebbe avrebbe prima di tutto il compito di assolvere una funzione di propaganda tra la classe. Propaganda di una opzione anticapitalista. Per chiarirci sui termini, non intendiamo con questo una funzione meramente intellettuale: per quanto ci riguarda va da sé che la promozione e la diffusione di un punto di vista anticapitalista avviene nelle mobilitazioni esistenti e anche promuovendone di nuove.
10. Non abbiamo mai fatto dell’unità un feticcio. E non inizieremo a farlo ora. Ogni situazione concreta però necessita di un’analisi concreta. E la situazione in Italia ad oggi è questa: dopo dieci anni, qualche migliaio di attivisti anticapitalisti è dispersa in mille rivoli e incapace di darsi un piano programmatico e politico comune. Essi costituirebbero una forza potenziale. Affermarlo e proporne una unificazione è un gesto di pura responsabilità di fronte alle sfide che tutti noi abbiamo di fronte. E’ la semplicità che è difficile a farsi. Ma è una semplicità di cui dobbiamo sentire l’urgenza.
E non a caso questa idea si sta facendo strada in un numero crescente di attivisti. Ci sono in campo diversi tentativi, come per esempio quello del patto d’azione anticapitalista. Ma tutti finora si sono limitati a individuare alcune azioni o date comuni su cui convergere. E’ un modo per provare a creare unità nell’azione. Ma in un senso che ad oggi è frainteso o insufficiente.
Questa forma di unità rischia solo di affollare il calendario di scadenze e di date. Non si tratta di inventarsi “date”. Nè possiamo considerarci una forza sufficiente a dettare il ritmo agli avvenimenti. Dobbiamo prepararci a intervenire nel movimento reale della classe per come si darà.
Non si tratta solo di convergere nella lotta economica, nelle campagne di denuncia o di solidarietà. Abbiamo bisogno di fare fronte anche nella lotta politica e teorica, perchè un punto di vista anticapitalista emerga nella società.
Crediamo che la soluzione apparentemente più audace sia anche l’unica in grado di dare forma a questo processo. Ciò che serve, e con un senso di urgenza, è un processo costituente di un soggetto politico anticapitalista. E questo non può che passare da una fase fondativa di natura assembleare e poi congressuale, con la costituzione di organismi elettivi di coordinamento a tutti i livelli. Senza pretendere alcuno scioglimento delle organizzazioni esistenti, ma con un meccanismo dove una testa valga un voto: l’unico in grado di misurare il peso e il consenso delle diverse proposte, nel dibattito democratico prima, e dopo con la messa a verifica degli avvenimenti.