L’esperienza del Rojava

Tra lotta all’imperialismo e Confederalismo Democratico

 

Il Rojava e il Confederalismo Democratico

Di Rojava, fino al 2011, nessun media occidentale si era davvero preoccupato. A portare questa regione sotto i riflettori sono stati gli effetti delle Primavere Arabe, i grandi movimenti che hanno messo in discussione il regime panarabo ed evidenziato la debolezza degli Stati nazionali creati a tavolino in tutto il Medio Oriente. Nel nord della Siria la popolazione a maggioranza curda ha operato, a partire dallo scoppio della guerra civile, un processo di conquista sul campo della propria autonomia governativa. Con l’entrata in campo dell’autoproclamatosi Stato Islamico della Siria e del Levante, i combattenti curdi del Rojava hanno intrapreso un’eroica battaglia per liberare metro per metro l’area settentrionale della Siria, affrancandosi al contempo dal regime baathista. In sintesi, si può affermare che nel Rojava i curdi abbiano combattuto una guerra su tre fronti: contro l’ISIS, il giogo oppressivo del governo siriano e gli interventi militari dello Stato turco e dei suoi alleati. A partire dal 2013 e fino allo scorso dicembre, come è noto, gli Stati Uniti hanno affiancato militarmente i curdi del Rojava nella lotta contro lo stato islamico; al ritiro delle truppe statunitensi, la Turchia ha avuto mano libera per tornare a sferrare l’attacco nell’area.

In tale contesto, mentre erano impegnati militarmente in una generosa battaglia, gli abitanti del Rojava hanno impostato il modello di autogoverno legato ai principi del Confederalismo Democratico. Fra i primi obiettivi della nuova forma di amministrazione, la coesistenza pacifica e paritaria tra i vari gruppi etnici (arabi, armeni, assiri, ceceni, curdi, turcomanni) e religiosi (aleviti, cristiani, musulmani, yezidi). Femminismo ed ecologismo diventano temi centrali. Per contrastare l’egemonia dello stato nazione, il confederalismo si dota di consigli, nei quali “Gli attori sociali, che sono ognuno per sé delle unità federative, sono le cellule germinali della democrazia partecipativa. Possono unirsi ed associarsi in nuovi gruppi e confederazioni secondo la situazione. Ciascuna delle unità politiche coinvolte nella democrazia partecipativa è essenzialmente democratica. In questo modo, ciò che chiamiamo democrazia, è l’applicazione dei processi democratici dei decisori a livello locale fino a livello globale nella cornice di un processo politico continuo.[1]

L’organizzazione militare si struttura in unità di auto-difesa sotto il controllo delle istituzioni democratiche. Discostandosi dalla militarizzazione tipica degli stati nazionali, YPG e YPJ – Unità di Protezione Popolare e di Difesa delle Donne – crescono su base volontaria, e negli anni si sono distinti in azioni di grande coraggio, come la difesa della città di Kobane dagli assalti dell’ISIS nel gennaio 2015.

La “terza via” sperimentata nel Rojava si propone come modello positivo e di ispirazione per tutti i popoli del Medio Oriente. Fedele alla linea che disconosce la possibilità di sviluppo di una società giusta all’interno di confini predeterminati – come quelli dei Paesi liberisti – auspica la diffusione del germe di tale rivoluzione al di fuori della propria area di azione. Consci del destino atroce riservato alle popolazioni mediorientali nell’ultimo secolo, non possiamo che guardare con rispetto, solidarietà e appoggio a quanto sta avvenendo nel Rojava, alla lotta di migliaia di lavoratori pronti a sacrificare la propria vita per un futuro di libertà e democrazia.

Tuttavia, in questo articolo ci proponiamo di provare a tracciare le prospettive future per quella lotta e per le lotte di tutti i popoli del Medioriente, perché un dibattito più approfondito anche nella sinistra italiana non può che dare più forza e più appoggio alle campagne di solidarietà al popolo curdo. Non possiamo dunque concederci il lusso di una lettura sentimentale: è necessario individuare anche i limiti di questa esperienza, che possono inficiare sulla sua efficacia, la sua resistenza, la sua capacità di espansione. Per farlo, torniamo alle sue basi teoriche, così come espresse da Öcalan:

Gli stati sono fondati sul potere; le democrazie sono basate sul consenso collettivo. L’ufficio nello stato è determinato per decreto, anche se può essere in parte legittimato dalle elezioni. Le democrazie usano le elezioni dirette. Lo stato usa la coercizione come un mezzo legittimo. Le democrazie poggiano sulla partecipazione volontaria. Il confederalismo democratico è aperto verso altri gruppi e fazioni politiche. È flessibile, multiculturale, antimonopolistico, ed orientato al consenso. L’ecologia e il femminismo sono i pilastri centrali. Nel contesto di questo tipo di auto-amministrazione diventerà necessaria un’economia alternativa, che aumenti le risorse della società invece che sfruttarle per sopperire giustamente alle molteplici necessità della società.”[2]

In questo passaggio, non c’è solo l’apertura a “gruppi e fazioni politiche” e un generale orientamento al consenso interclassista, ma salta agli occhi in maniera ancora netta l’assunzione che un contesto di auto-amministrazione dal fronte ampio, democraticamente aperto a tutte le opinioni e le esigenze, possa matematicamente trasformare la società e l’economia, superare il capitalismo e prevenirne la recrudescenza. Il rischio implicito di questa posizione è il tentativo di superare il marciume feudale e le enormi contraddizioni interne alla società curda semplicemente aggirandole, ignorandole, come se un dialogo costruttivo e continuativo tra le classi potesse portare a equilibrare i rapporti di forza fino a farli semplicemente svanire.

Esiste poi un sostanziale equivoco teorico: “Gli stati sono fondati sul potere; le democrazie sono basate sul consenso collettivo”. In queste parole Stato e democrazia vengono contrapposti. Così non è nell’elaborazione marxista. Così non è nella realtà. Lo Stato è un apparato di coercizione. Tale coercizione non è inficiata dal regime politico in cui si esprime. Uno Stato rimane uno strumento di oppressione, indipendentemente dalla forma federale o dal regime costituzionale democratico. Lo Stato esiste, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua costituzione politica, sotto forma di corpi di uomini armati chiamati a intervenire nel conflitto inconciliabile tra le classi.

Citiamo da Stato e Rivoluzione di Lenin:

“…Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa”…Non solo lo Stato antico e lo Stato feudale erano organi dello sfruttamento degli schiavi e dei servi, ma anche “lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale”.

Nello stesso libro Lenin continua, citando Engels:

“La ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura”, in primo luogo con la “corruzione diretta dei funzionari” (America), in secondo luogo con “l’alleanza tra governo e Borsa” (Francia e America)

In un contesto come quello mediorientale in cui buona parte dei regimi politici è di natura dittatoriale, è giusto e normale comprendere nel proprio programma anche rivendicazioni di natura democratica. Tuttavia, tali rivendicazioni hanno natura necessariamente limitata e contraddittoria. Esse servono a intercettare e in un certo senso a smontare le illusioni democratiche che possono ispirare movimenti di massa. Ma tali istanze democratiche vengono in un certo senso avanzate per dimostrare la propria insufficienza. Per questo esse non rappresentano che una parte relativa di un programma complessivo di trasformazione sociale.

 Di fronte a una società borghese che non è in grado di dotarsi nemmeno di un regime politico democratico borghese, i rivoluzionari possono presentarsi in un certo senso come i più conseguenti “democratici”. Ma tanto più le istanze democratiche sono avanzate con coerenza, tanto più esse devono lasciare il posto a un programma di rottura sociale. Il superamento del capitalismo, particolarmente nei paesi arretrati e soggiogati dall’imperialismo, è ormai necessario anche ai fini del raggiungimento di basilari rivendicazioni democratiche. Il punto non è quindi rimandare il movimento di abbattimento del capitalismo in nome di una fase democratica, ma collegare in forma transitoria e permanente tale fase all’abbattimento del capitalismo. Per citare, ancora una volta, Lenin:

La rivoluzione sociale non è un’unica battaglia, ma tutto un periodo di battaglie per tutte le questioni concernenti le trasformazioni economiche e democratiche, le quali saranno portate a compimento soltanto con l’espropriazione della borghesia. Precisamente in nome di questo scopo finale, dobbiamo dare una formulazione coerentemente rivoluzionaria ad ogni nostra rivendicazione democratica. É perfettamente possibile che gli operai di un determinato paese abbattano la borghesia prima dell’attuazione completa anche di una sola riforma democratica fondamentale. Ma è assolutamente inconcepibile che il proletariato, come classe storica, possa vincere la borghesia se a questo non si sarà preparato attraverso l’educazione nello spirito del democratismo più coerente e più decisamente rivoluzionario.[3]

Per questo il confederalismo democratico, per quanto si sforzi di professare la propria convivenza con il mondo attorno, non può che essere visto – indipendentemente dalle intenzioni con cui viene formulato – come un’aberrazione da combattere per qualsiasi Stato della zona o per qualsiasi potenza imperialista. I curdi sono stati costretti a tentare di costruire una rivoluzione e a difenderla in una striscia di territorio. Né la questione nazionale curda irrisolta, né l’intero meccanismo del capitalismo, si possono permettere di tollerarne l’esistenza.

 Persino un municipalismo con un autogoverno democratico radicale, un laico rispetto delle diversità religiose, un’economia mista basata in grossa parte su cooperative di autogoverno, sono oggi intollerabili per il capitalismo su scala locale e internazionale.

Un aspetto fondamentale da sottolineare, a tal proposito, riguarda uno dei punti centrali della teoria fondativa di quella esperienza: se lo Stato capitalista è l’origine di ogni sopruso, come si concilia questa posizione con la pretesa di convivenza tra il territorio del Rojava e gli Stati che lo contengono e lo circondano?

Lo stato è una macchina per mantenere il dominio di una classe sull’altra. Quando nella società non vi erano classi, quando gli uomini, prima dell’epoca schiavistica, lavoravano nelle condizioni primitive di maggiore eguaglianza e la produttività del lavoro era ancora molto bassa, quando l’uomo primitivo si procurava con difficoltà i mezzi necessari alla sua rozza, primitiva esistenza, in quel tempo non sorse e non poteva sorgere un gruppo particolare di uomini appositamente incaricati del governo e che dominavano su tutto il resto della società.[4]

In questo breve passaggio tratto da Lo Stato di Lenin, emerge il ruolo degli apparati statali come garanti ed esecutori degli equilibri di potere tra le classi. In epoca capitalista, lo Stato è necessario al mantenimento degli interessi della borghesia, e lo è a prescindere dalla forma di governo che esso assume. Questo assunto rimane vero anche nel contesto particolare del Medioriente, e lo è ancora più se si pensa che il presupposto di esistenza del Rojava sia quello di una pacifica convivenza tra il confederalismo democratico sviluppato all’interno dei suoi confini e lo Stato siriano tutto intorno ad esso.   

Prosegue poi il testo di Öcalan:

La composizione contraddittoria della società necessita di gruppi politici sia in formazione verticale che orizzontale. […] Tuttavia, questo diritto ha bisogno di una società etica e politica. Se lo stato-nazione, la repubblica, o la democrazia – il confederalismo democratico è aperto ai compromessi che riguardano le tradizioni di stato o del governo, ciò consente la coesistenza e l’uguaglianza.

Se c’è una lezione da trarre dall’esperienza centenaria della lotta curda, è proprio che la politica dei compromessi o di veri e propri tatticismi politici e militari nella regione, senza un costante lavoro di costruzione di solidarietà e di alleanze politiche con partiti di sinistra e sindacati degli altri paesi del Medioriente, non solo non paga ma è pressoché impossibile da percorrere. Se l’intento è quello di ampliare la portata della rivoluzione al di fuori dei confini del Rojava, dobbiamo fare i conti con quanto ci circonda: per quanto oggi possano apparire più fragili che in passato, gli apparati economici dei Paesi che storicamente si sono rimpallati il compito di opprimere il popolo del Kurdistan hanno le spalle grosse, rodati nell’amministrazione borghese del potere, e sistemi produttivi e di sfruttamento sviluppati in seno al mercato, avviluppati tentacolarmente dentro e fuori i propri confini. Una proposta di pacifica convivenza tra attori sociali, che implica dunque il raggiungimento di un accordo fra classi, non era una soluzione praticabile all’epoca della nascita del PKK come non lo è oggi. Una lettura distorta della questione nazionale può portare a grossi errori strategici, ma per evitarli non è sufficiente decidere arbitrariamente di cancellare dal proprio radar l’esistenza degli stati nazionali.

 

Un caso particolare o una teoria generale?

Il rischio più grosso è quello che si scambi una serie di proposte necessarie nel contesto dato, elaborate in una delle situazioni oggettive più difficili che si possano immaginare, con una teoria generale e generalizzabile. Proviamo a spiegarci meglio. Nel nord della Siria lo Stato borghese si è letteralmente disgregato. Il vuoto aperto dall’insurrezione del 2011-2012 è stato colmato nel resto della Siria dalle bande fondamentaliste e dalle trame dei diversi blocchi imperialisti.

 In Rojava invece i frutti dell’insurrezione sono stati raccolti dal confederalismo democratico. Decenni di resistenza da parte delle compagne e dei compagni del PKK si sono incontrati con le esigenze oggettive e stringenti dell’intero contesto. L’autogoverno nella situazione data non è il risultato di una teoria particolare. Diventa una stringente necessità, l’unica forma possibile di sopravvivenza. Lo Stato borghese è letteralmente collassato. Le funzioni sociali basilari, dal sostentamento all’amministrazione, sono ricadute in maniera naturale sulle comunità. L’organizzazione in comuni e municipalità è diventata la forma di questo autogoverno.

La guerra ha accelerato la disgregazione del tessuto economico, già arretrato e precario. Anche in questo campo la costituzione in cooperative si è imposta come unica forma possibile di sopravvivenza economica, di riorganizzazione minima del tessuto produttivo.

E al contempo il contesto bellico ha posto il problema di creare e sostenere le unità di autodifesa. Per quanto non si teorizzi la costituzione in Stato, l’esigenza di dover “prelevare” dall’economia una fetta di valore per destinarla al sostentamento di uomini in armi, è una delle funzioni basilari di uno Stato.

Questo si traduce nell’esigenza del confederalismo democratico di implementare da un lato le unità di autodifesa e dall’altro l’economia attraverso la formazione delle cooperative.

Il meccanismo è simile a quello che si è verificato in ogni tipo di conflitto combattuto attraverso la guerriglia o le bande partigiane. Quando una guerriglia cresce in estensione e in numero, non si può più solo basare su bande militari disperse. Tende a un certo grado di sviluppo a liberare zone del territorio, dove inevitabilmente deve garantire anche forme di autogoverno e il riavvio dell’economia. Tali zone liberate non sono “socialiste”. Al loro interno c’è appena lo spazio per sviluppare una economia di sussistenza e di sostegno all’esercito guerrigliero. Allo stesso tempo le zone liberate possono avere successo solo se si basano sul più completo coinvolgimento della popolazione e se dimostrano in concreto di saper sviluppare una società basata sulle esigenze della maggioranza.

Per questo le zone liberate, pur non essendo che il risultato di una stringente necessità di un’isola assediata, finiscono al contempo per non essere più nemmeno assimilabili a uno Stato borghese. L’esercito guerrigliero, i corpi di uomini armati, si appoggia su un’economia basilare dove non c’è spazio per l’accumulazione privata e su una forma di governo basata sul consenso ampio e l’organizzazione di tutta la comunità. Siamo di fronte a uno Stato “diffuso” e leggero e che proprio per questo non potrebbe assolvere al compito tipico di un qualsiasi Stato borghese: assoggettare la maggioranza agli interessi della minoranza.

La rivoluzione non sceglie l’isolamento. L’isolamento in un solo territorio le viene imposto spesso dai rapporti di forza generali. Chi ha rotto il ghiaccio, chi ha trovato il modo di “sfondare” in un singolo punto del pianeta non può quindi essere additato di insufficienze politiche o incoerenze da chi a malapena è riuscito a organizzare qualche piccolo gruppo militante. E per questo lungi da noi “fare la lezione” a chi ha resistito e resiste in Rojava. A loro va la nostra totale gratitudine, solidarietà e ammirazione.

Pur tuttavia crediamo che faremmo un errore altrettanto grave, ai fini della loro lotta, se confondessimo uno stato di necessità con una teoria generale. Né il municipalismo democratico, né l’economia cooperativa, sono forme applicabili alla mobilitazione internazionale contro il capitalismo, il quale è un sistema basato su grandi realtà produttive, un capitale estremamente concentrato e pervasivo a livello internazionale, un circuito finanziario mastodontico e oppressivo e apparati statali di formazione decennale o secolare. Qua il tema dell’espropriazione del grande capitale, dell’abbattimento dello Stato, della sostituzione della finanza e del mercato con una pianificazione globale e democraticamente centralizzata, rappresentano uno scoglio inevitabile.

 

Prospettive per la lotta nel Rojava e nel Medio Oriente

Stiamo assistendo a una ripresa delle mobilitazioni in tutta l’area mediorientale. La recente escalation innescata dagli USA di Trump ha avuto solo l’effetto di gettare benzina su un fuoco già acceso da tempo. Il tracollo dei delicati equilibri nazionali nella regione è già un dato di fatto, e pone un problema di prospettive per l’attuale configurazione del confederalismo.

Ci troviamo di fronte a un bivio inevitabile della storia. L’esperienza del confederalismo democratico può rimanere confinata all’interno della regione del Rojava, tra alterne vicende, oppure ricercare nei lavoratori siriani, iraniani, iracheni e turchi quella connessione necessaria ad unire gli sforzi verso una soluzione definitiva della questione nazionale. L’incredibile atto di eroismo compiuto dai combattenti di YPG e YPJ e l’esperienza di autogoverno dell’area rischiano di rimanere un fatto isolato, ciclicamente posto sotto attacco imperialista e identificato come la più grande minaccia al potere nel grande scacchiere mediorientale.

Che l’esperienza nel Rojava sia destinata a prevalere o soccombere sul fronte militare, questo non cambia i termini della questione. Pur guardando con obiettività ai fatti recenti, noi appoggiamo qualsiasi campagna di solidarietà che contribuisca alla vittoria politica delle milizie curde di auto-difesa. Ma il vero interrogativo da porsi non riguarda le battaglie condotte sul campo ristretto del Kurdistan siriano, quanto le strategie per prevalere sul putridume nazionale e imperialista in tutto il territorio.

In Storia della Rivoluzione Russa, Trotskij ripercorre le posizioni a cui il partito bolscevico tenne fede per superare le difficoltà intrinseche della Russia di inizio ‘900, dove la coesistenza di etnie e nazionalità differenti sotto il potere dello zarismo provocavano spinte centrifughe:

Mentre rifiutava apertamente agli Stati borghesi il diritto di imporre la cittadinanza obbligatoria, o perfino una lingua di Stato, a una minoranza nazionale, il bolscevismo allo stesso tempo si fece un obbligo di unire il più strettamente possibile, con i mezzi della disciplina volontaria di classe, i lavoratori di nazionalità diverse. Così ha apertamente respinto il principio della federazione nazionale nella costruzione del partito. Un’organizzazione rivoluzionaria non è il prototipo dello stato futuro, ma soltanto lo strumento per la sua creazione. Uno strumento dovrebbe essere adattato a foggiare il prodotto; non dovrebbe includere il prodotto. Così una organizzazione centralizzata può garantire il successo di una lotta rivoluzionaria, perfino quando il compito è di distruggere l’oppressione centralizzata delle nazionalità.

Liberarsi dell’oppressione nazionale in modo definitivo è un compito che solo una rivoluzione sociale con un appello internazionalista può portare a termine. Solo processi rivoluzionari nei paesi che circondano il Kurdistan e il rovesciamento degli attuali regimi possono garantire che una piena applicazione del diritto di autodeterminazione del popolo kurdo duri nel tempo. Questa lotta sacrosanta, che, come abbiamo visto, diversi imperialismi non hanno esitato a strumentalizzare, potrà essere ottenuta esattamente dalla combinazione di una lotta rivoluzionaria del popolo kurdo con la solidarietà internazionalista dei popoli dei paesi che opprimono i curdi.

Lo spiega molto bene Lenin, che scrisse profusamente della questione nazionale per tutta la sua vita politica[5]:

In qualsiasi caso, il lavoratore salariato sarà oggetto di sfruttamento. Qualsiasi lotta contro lo sfruttamento, per essere vittoriosa richiede che il proletariato sia libero dal nazionalismo, e che sia per così dire assolutamente neutrale nella lotta per la supremazia che intercorre fra le borghesie delle varie nazioni. Se il proletariato di qualsiasi nazione dà il minimo appoggio ai privilegi della “sua” borghesia nazionale, inevitabilmente susciterà sfiducia nel proletariato delle altre nazioni; indebolirà la solidarietà di classe internazionale dei lavoratori e li dividerà, per la gioia della borghesia.[6]

Se il superamento della rivendicazione prettamente nazionale è tema già affrontato dal confederalismo democratico, altrettanto non si può dire dell’impronta di classe che l’autogoverno dovrebbe avere in una prospettiva ampia. Nell’elaborazione politica di Öcalan non sono i lavoratori ad essere chiamati all’unità e alla partecipazione democratica delle istituzioni, ma tutti gli attori sociali in senso interclassista. È chiaro e comprensibile il tentativo di riconciliare la frammentazione su base etnica e la divisione feudale in clan, che certamente ha costituito un ulteriore ostacolo lungo il faticoso percorso di liberazione, ma un punto rimane centrale: cosa accadrebbe se le sollevazioni negli altri paesi mediorientali si radicalizzassero su basi di classe? Un contesto di radicalizzazione dei lavoratori di tutta l’area aggiungerebbe un tassello fondamentale all’esperienza nel Rojava: la possibilità, cioè, di intervenire sulle leve dell’economia, della produzione, portando le aspirazioni democratiche del Kurdistan a un livello differente, quello della lotta di classe.

Vogliamo sforzarci, nel nostro piccolo, di dare un contributo lucido a questo dibattito proprio per l’enorme rispetto che portiamo ai compagni e alle compagne che rischiano la propria vita nei combattimenti in Rojava. Il nostro appoggio alla loro causa rimane indiscusso. Il processo vivo del confederalismo democratico rappresenta un momento di grande avanzamento nella coscienza dei lavoratori che vi prendono parte e di tutti quelli che abbiano a cuore la lotta di liberazione dei popoli. Davvero la forza di questa esperienza potrebbe essere ancora maggiore se, oltre a cercare la nostra solidarietà, lavorasse a penetrare tra i lavoratori degli altri paesi della regione, divenisse un esempio applicabile anche per loro e non solo una peculiarità locale molto avanzata. Così facendo, le sue aspirazioni rivoluzionarie diverrebbero ancora più chiare, più operaie, più internazionaliste. Le prospettive per la lotta di liberazione del popolo curdo sono legate a questa discussione, tutt’altro che astratta. Continuerà a riproporsi, indipendentemente da quale fronte bellico si aprirà domani. Man mano che i regimi mediorientali andranno in crisi, questa esigenza di chiarezza politica diverrà sempre più forte e, se assolta, diverrà la forza stessa del movimento curdo.

[…] La democrazia proletaria avanza la rivendicazione: assoluta unità e fusione dei lavoratori di tutte le nazionalità in organizzazioni sindacali, cooperative, di consumo, di istruzione e tutte le altre, per contrastare il nazionalismo borghese di ogni tipo. Solo questa unità può salvaguardare la democrazia e gli interessi dei lavoratori contro il capitale – che è già diventato internazionale, e lo diventa sempre di più – e può salvaguardare gli interessi dello sviluppo dell’umanità verso un nuovo modo di vita al quale siano estranei ogni tipo di privilegio e di sfruttamento.[7]

 

Note:

[1]  Ibid.

[2] Ibid.

[3] Lenin, Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni, 1915

[4] Lenin, Lo Stato, 1919

[5] Per ulteriori approfondimenti sulle posizioni espresse da Lenin, rimandiamo all’articolo pubblicato su questo sito La questione nazionale (https://marxpedia.org/2019/01/08/la-questione-nazionale-2/)

[6] Lenin, Il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1914

[7] Lenin, Commenti critici sulla questione nazionale, 1913