Un popolo senza Stato

 

Tutti gli occhi sul Rojava

Il Rojava è una regione a nord della Siria con un’estensione territoriale non più ampia di 50.000 km quadrati, composto da tre cantoni – quello di Afrin, quello di Kobane e quello di Jazzera. Un puntino, sulla mappa globale, ma che, a dispetto delle sue dimensioni, attira ossessivamente l’attenzione delle potenze mondiali. Cosa rende questa “democrazia senza Stato” una minaccia nella geografia politica internazionale? Quali alternative propone la sua esperienza di autogoverno, in un contesto martoriato come quello del Medioriente? Che scenari futuri disegna per i lavoratori della regione?

A queste domande non è possibile dare risposta senza guardare alla lotta del popolo curdo nella sua interezza. In questo articolo, dunque, ripercorreremo le tappe fondamentali della storia di liberazione del Kurdistan, l’evoluzione politica del PKK, i punti di forza e i limiti della sua strategia, cercando di inquadrare conquiste e prospettive future per la rivoluzione sociale in quel fazzoletto di terra che oggi rappresenta il punto di approdo più avanzato di quasi un secolo di battaglie: il Rojava.

 

Piccolo territorio, grandi risorse

Quello kurdo può oggi essere definito il più grande “popolo senza Stato” del mondo. Si conta che i kurdi sparsi per il globo possano essere circa 50 milioni, divisi fondamentalmente fra Turchia, Iran, Iraq e Siria, ma molti si trovano anche in Germania, Armenia, Georgia, Azerbaigian e Kazakistan. La regione del Kurdistan è idealmente compresa tra i primi quattro Stati citati, ma la sua costituzione come stato-nazione e il suo riconoscimento da parte delle potenze che lo inglobano sono da sempre osteggiate innanzitutto per le sue stesse caratteristiche territoriali: i fiumi Tigri e Eufrate lo rendono una fonte preziosissima di risorse idriche, le sue terre sono estremamente fertili, e proprio sotto quelle terre si trovano i ricchi giacimenti petroliferi turchi, siriani, iraniani e iracheni. Inoltre, uno Stato a sé stante entro i confini immaginati avrebbe una posizione strategica nel cuore della regione mediorientale.

Il primo ostacolo alla nascita di uno stato kurdo è, dunque, di carattere economico: le potenze che ad oggi ne controllano i territori e i loro alleati internazionali hanno interessi vitali in quella regione, tali da mettere in campo il più ampio ventaglio di forze possibile per il loro controllo. La regione ha una funzione tanto essenziale per il capitalismo mondiale da attirare su di sé improbabili alleanze e feroci assalti da parte delle grandi potenze imperialiste: gli interventi militari statunitensi a fianco dei guerriglieri del Rojava contro l’ISIS e in funzione anti-siriana; gli accordi tra le Forze Democratiche Siriane[1] e il governo di Damasco per la difesa dei confini contro gli attacchi della Turchia; l’impiego di bombardamenti aerei e di miliziani dello Stato Islamico da parte di quest’ultima; il ruolo giocato dalla Russia, che difende i propri interessi in Siria, ma non esita a siglare accordi con Ankara all’indomani dell’attacco turco al Kurdistan siriano  – un carosello malato di alleanze e tradimenti, strategie di attacco e giochi al massacro, al centro del quale si trova una popolazione segnata da un secolo di resistenza. Sulle teste dei kurdi si gioca una partita troppo importante perché le grandi potenze possano fare anche solo la più piccola concessione di autonomia nella regione, permettendo alla popolazione locale di godere dei frutti di questa terra così ricca.[2]

Le vicende del popolo curdo, al contempo, sono attraversate da ondate di rivolta alle ambizioni imperialiste. Punto nevralgico dello sviluppo della civiltà fin dall’alba della storia, queste terre sono state oggetto del desiderio di romani e arabi, hanno vissuto la conquista da parte dell’impero ottomano – alla quale hanno risposto con sollevazioni continue – fino ad arrivare alla spartizione del territorio alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la sconfitta dell’Impero Ottomano stesso, Libia e Siria poste sotto mandato francese, Iraq e Transgiordania sotto quello britannico, la nascita dell’attuale Iran e della Repubblica di Turchia. Nonostante il trattato di Sèvres, firmato nel 1920 con la garanzia statunitense, promettesse l’indipendenza e il riconoscimento del Kurdistan, questo non venne mai rispettato, e si applicarono invece gli accordi di Losanna ed Ankara, stipulati nel 1923: il popolo curdo veniva ripartito fra quattro nazioni (Iran, Iraq, Turchia e Siria), una divisione che permetteva un miglior controllo politico ed economico da parte delle grandi potenze.[3]

Affinché questa spartizione, questa vera e propria rapina (di risorse e di vite) condotta secondo le leggi folli del mercato, potesse essere portata fino in fondo, era necessario rimuovere tutti gli intralci capaci di ostacolare gli interessi delle grandi compagnie private, che in quell’area vogliono mani libere per poter attingere alla gallina dalle uova d’oro. Il Kurdistan non andava solo sottomesso dal punto di vista territoriale: bisognava piegarne la popolazione sotto il profilo ideologico, materiale e politico, affinché non potessero più costituire un freno ai progetti di espansione degli stati nazionali in via di formazione. Per ottenere questo risultato, come vedremo, qualsiasi mezzo è stato considerato lecito, qualsiasi dispiegamento di mezzi e uomini giustificabile, e nessuna conseguenza – la distruzione di interi distretti, la morte di centinaia di migliaia di persone, l’assimilazione forzata e fiumi di profughi di guerra in fuga – troppo grave.

 

Una storia di resistenza, speranze e tradimenti

Dopo il fallimento degli accordi di Sevres e la stipula dei trattati di Losanna ed Ankara, il popolo curdo si ritrovò dunque diviso dal punto di vista geografico e impossibilitato a una vera e propria rappresentanza politica. La nascita dell’attuale Turchia nel 1923, con alla testa il generale Mustafa Kemal Ataturk, vide i curdi vittime di una pesantissima repressione militare, i loro diritti negati in nome di una “turchizzazione” dell’intera popolazione. Sono gli anni dello “sterminio rosso” – caratterizzati da ondate di rivolte represse nel sangue, durante i quali i curdi trucidati per mano delle forze militari turche si contano a milioni – e dello “sterminio bianco”, con il tentativo di assimilazione forzata attraverso la negazione linguistica, culturale e storica.

Nei successivi cinquant’anni, tentativi insurrezionali e lotta armata per l’indipendenza si alternarono sulla scena: guidati da Mustafa Barzani, i guerriglieri curdi si batterono contro l’Iran e fondarono, nel 1946, la Repubblica curda di Mohabad. L’esperienza ebbe vita breve: si protrasse per un solo anno e terminò tragicamente. In Iraq, i peshmerga tornarono a battersi per l’indipendenza del Kurdistan nel biennio 1962-1963, e nel 1970, il regime baasista di Baghdad cedette infine qualche metro di terreno: etnia, cultura e lingua curde vennero riconosciute ufficialmente e Saddam Hussein concesse una certa capacità di autonomia nelle regioni settentrionali dell’Iraq.

Ma se i curdi riponevano speranze nella trattativa che seguì, esse vennero puntualmente disattese: il mancato raggiungimento di un accordo causò una ripresa delle ostilità nel 1974. Al fianco dei curdi si schierarono Stati Uniti e Iran, che vedevano nella battaglia di liberazione del Kurdistan un’opportunità per indebolire Baghdad. Furono Iran e Iraq a trovare un’intesa, e, come prevedibile, i curdi stessi a pagarne il prezzo: in cambio di concessioni territoriali, l’Iran si impegnò a cessare ogni sostegno alla causa curda e ad affiancare il governo di Baghdad in caso di ripresa delle azioni di guerriglia.

È in questo tormentato contesto che, nel 1978, nasce il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). All’inizio degli anni ’70, sulla scena era comparso un giovane studente di scienze politiche di Ankara, Abdullah Öcalan, destinato a diventare il leader più amato della lotta di liberazione del popolo curdo, che continuerà a ispirare il modello di società oggi portato avanti nel Rojava anche dall’isolamento del carcere di massima sicurezza in cui si trova.

Il PKK venne fondato con il sostegno di Siria e Unione Sovietica, e alle rivendicazioni per l’autonomia, l’indipendenza e i diritti del popolo kurdo, affiancò da subito alla battaglia per l’indipendenza un vivace approccio anticapitalista. La tattica della guerriglia utilizzata dal PKK a partire dagli anni ’80 gli varrà l’etichetta di organizzazione terroristica (a tutt’oggi, tale lo definiscono Turchia, Stati Uniti, Unione Europa, Iran e la NATO). L’azione dei guerriglieri del PKK si basava sulla lotta armata contro le politiche di negazione, assorbimento forzato e sterminio dello stato turco, ma ad essa il partito affiancava un programma di rivendicazioni sociali e di proposte politiche di ispirazione marxista.

La battaglia contro Ankara era aspra e aveva un prezzo molto alto: mentre la Turchia cercava di guadagnarsi le simpatie europee tramite superficiali tentativi di riforme sociali, tra il 1988 il 1993 oltre 40 azioni militari vennero intraprese dalle forze militari turche nelle zone curde, con uso di armi chimiche e bombardamenti di interi villaggi, con l’obiettivo di stanare i guerriglieri.

Al di fuori della Turchia, il massacro dei curdi proseguiva anche in Iraq, dove, sul finire della guerra contro l’Iran, nel 1988, 5.000 persone vennero assassinate con il gas nervino ad Halabja[4]. L’appoggio statunitense agli armamenti del regime di Saddam richiederebbe un approfondimento a sé. Per ragioni di sintesi, ci limitiamo a riportare questo breve brano tratto da un’intervista a Sarajil Jalal, presidente della Comunità curda in Italia, rilasciata nel 1991:

“C’è una comune convinzione tra tutte le forze curde. Quella di sapere che comunque questa non è stata e non sarà guerra loro: è una guerra del petrolio per un nuovo ordine mondiale sotto l’egemonia americana. La nostra posizione è molto chiara da sempre: non abbiamo niente da spartire con i vari regimi dell’area. Sono tutti regimi reazionari; non solo nei nostri confronti, ma anche all’interno del loro paese. Infatti sia in Iran che in Iraq, sia in Turchia che in Siria, lottiamo assieme alle varie opposizioni progressiste. Se gli occidentali stanno organizzando una nuova mappa geografica del Medio Oriente, questo non significa che siano nostri amici o alleati. Senza illuderci in proposito, cercheremo comunque di trarne dei benefici. Voglio comunque ribadire che non abbiamo niente da spartire con chi finanzia regimi antipopolari. Non mi riferisco solo alla Siria e alla Turchia, ma anche a Israele. Sono paesi mantenuti dall’Occidente a livello politico-economico-militare. Da parte nostra comunque non c’è stata partecipazione alla Guerra del Golfo, né contro gli Stati Uniti, né contro Saddam. Piuttosto c’è stata attesa per il dopoguerra, per il momento in cui dare inizio alla rivolta popolare contro il regime.”[5]

Ridisegnare la mappa geopolitica del Medio Oriente, tracciare linee di confine che spostino l’equilibrio degli interessi a favore a volte di un asse, a volte di un altro. Questo è senz’altro stato l’obiettivo delle forze imperialiste nella regione del Kurdistan nell’ultimo secolo. La strategia di attesa del “momento opportuno per dare inizio alla rivolta popolare contro il regime” adottata da parte delle forze curde, invece, merita considerazioni approfondite, a cui diamo spazio più avanti in questo articolo.

 

Il PKK fra lotta armata e strategie di negoziazione

Fin dagli albori, il PKK guidato da Öcalan aveva avviato una campagna per il riconoscimento dei diritti della popolazione curda in Turchia, e l’aveva fatto attraverso le proprie organizzazioni studentesche e il coinvolgimento dei lavoratori. A reprimere i militanti del PKK non si impegnavano solo il governo di Ankara e le organizzazioni ultranazionaliste turche, come i Lupi Grigi, ma anche alcuni grandi proprietari terrieri curdi, minacciati dalle istanze di classe portate avanti dagli attivisti del partito.

Proprio per far fronte agli attacchi, e mentre crescevano le manifestazioni di piazza, i membri del PKK presero le armi, mentre Öcalan stabiliva contatti con i leader palestinesi e siriani. Dopo il colpo di Stato in Turchia del 1980 e la messa al bando del partito, con le persecuzioni che ne seguirono, il PKK si ritirò in Siria e Libano. Il Congresso del 1982 sancì la necessità di iniziare la lotta armata per l’indipendenza nazionale del Kurdistan su suolo turco, soprattutto attraverso la tattica della guerriglia, decisione annunciata da Öcalan stesso in una conferenza l’anno successivo.

Il PKK si preoccupò fin da subito di ampliare la strategia del partito allargandola a quei settori della società (intellettuali, studenti, operai) che potevano garantire un sostegno al di fuori delle azioni tattiche. Fu così che nacque ERNK (Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan, il Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan), organizzazione interclassista rappresentativa di ogni settore della società curda, capace di operare anche all’estero per far conoscere la lotta di autodeterminazione del popolo curdo.
I primi anni ’90 furono caratterizzati anche dalle incursioni nei paesi europei. Le azioni di guerriglia – tra cui sequestri e assalti – si protrassero per tutto il decennio, affiancate da manifestazioni di solidarietà e protesta.

In un comunicato rilasciato dall’ERNK in quelle fasi, troviamo espresse queste posizioni:

La lotta armata, oltre a svolgere un ruolo insostituibile di autodifesa, serve a mantenere viva la coscienza identitaria ed è uno strumento per aprire il dialogo e arrivare ad una soluzione negoziata del conflitto. È dovere di ogni popolo combattere, anche con le armi se necessario, per difendere i propri diritti e la democrazia.Accanto all’esercito abbiamo creato tutte le strutture di cui uno Stato ha bisogno per rappresentare gli interessi del popolo. Non è stato un lavoro facile, ostacolato dalla repressione turca e dalla società feudale che non ha potuto modernizzarsi, come per altre popolazioni, proprio a causa della mancanza di autodeterminazione che ha caratterizzato gran parte della storia curda. Ora il popolo è pronto; il PKK ha lavorato perché l’obsoleta logica feudale fosse superata anche sul piano – altrettanto fondamentale – della mentalità. Grossi passi avanti sono stati fatti. […] È nostra intenzione aprire il dialogo con Ankara ed è in questa prospettiva che abbiamo per ben due volte proclamato il cessate il fuoco unilaterale.”[6]

Una dichiarazione che ben riassume una delle contraddizioni fondamentali all’interno delle quali si muove in quel periodo il PKK: da un lato l’utilizzo della lotta armata come strumento di difesa e resistenza contro la repressione imperialista, dall’altro il tentativo di utilizzare la stessa come moneta di scambio per intraprendere un dialogo con i propri stessi carnefici. Anche sul fronte turco, l’attesa del momento opportuno per rovesciare il regime sembra destinata a perdurare, e il fronte stenta ad allargarsi a una prospettiva internazionalista. Il PKK proclama per due volte il cessate il fuoco, ma dopo la fine del secondo, nell’agosto del 1996, sferra un attacco all’esercito turco per liberare alcune zone e portarle sotto il proprio controllo; mentre in carcere proseguono gli scioperi della fame dei prigionieri politici curdi, nelle strade e nelle piazze si susseguono le manifestazioni, sostenute anche da una parte della sinistra turca.

Per tutto il decennio precedente la cattura di Öcalan (avvenuta nel 1999), e sotto continui attacchi e bombardamenti da parte della Turchia, nei territori liberati e controllati dal PKK la popolazione sperimenta forme di gestione partecipativa della vita quotidiana. “A partire dal 1990, quando abbiamo preso il controllo delle montagne, i tribunali si sono svuotati perché la partecipazione popolare, ampia in ogni settore, riduceva al minimo i contrasti, venendo ogni controversia chiarita all’origine. La milizia popolare che abbiamo costituito, sostituendo le vecchie strutture di repressione turche, è composta da milioni di curdi ed opera attivamente sul territorio pronta ad aiutare la popolazione ed a raccoglierne le istanze”.[7]

 

Il Kurdistan nel rapporto con i paesi del “socialismo reale”

Il PKK dichiara di lottare “per costituire una federazione democratica garante dell’unità del popolo curdo e dei diritti delle minoranze presenti sul territorio; fautori di un socialismo democratico e popolare, auspichiamo un modello di democrazia partecipativa dove non sia negata la libertà personale ma tutti abbiano la possibilità di intervenire nelle scelte che più direttamente li riguardano. Siamo anticapitalisti, ma anche contrari al socialismo reale così come si è realizzato nell’ex URSS.”[8]

Per essere un partito nato sotto l’egida di Unione Sovietica e Siria, questa dichiarazione, a distanza di un paio di decenni dalla sua fondazione, sembra evidenziare una maturazione nelle posizioni politiche del PKK. Per comprendere come si sia arrivati a queste elaborazioni, dobbiamo leggere il controverso rapporto che ha caratterizzato le relazioni tra il PKK di Öcalan e i paesi del socialismo reale: la Siria di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente, e l’URSS.

Negli anni che seguirono la Rivoluzione di Ottobre, un grande fermento sociale aveva caratterizzato lo sviluppo del popolo curdo, con la nascita di Soviet in tutto il Kurdistan persiano. Il progetto del Kurdistan Rosso, fortemente voluto da Lenin, aveva portato alla creazione di una regione autonoma per i curdi che vivevano in Azerbaigian e Armenia. A partire dagli anni ’30, Stalin decretò la fine di questa prima esperienza di autonomia. In seguito, avrebbe favorito l’esperienza di Mohabad nel 1946, inviando aiuti economici e militari. Alle conquiste di carattere culturale, con un livello di alfabetizzazione che era cresciuto in maniera esponenziale e teatri, scuole e libri in lingua curda che proliferavano, si erano affiancate riforme agrarie, leggi sul lavoro e sulla protezione sociale, la conquista della giornata lavorativa di otto ore, della parità di diritti tra uomini e donne. Anche quella parentesi, come già accennato, fu però di breve durata: accusata dal governo di Teheran di manovre militari sul proprio territorio, l’URSS siglò l’accordo con l’Iran che avrebbe messo fine all’esperienza di autogoverno del Kurdistan iraniano, ritirando le proprie truppe dalla regione in cambio della promessa di un riconoscimento dell’autonomia curda sul territorio. Promessa che, puntualmente, venne disattesa da Teheran nel giro di pochi mesi, con una repressione politica e militare non del tutto inaspettata.

L’atteggiamento opportunista dell’URSS stalinista nei confronti del popolo curdo si svelò dunque in più di un’occasione, ma ebbe anche un riflesso indiretto tramite l’alleato siriano nella regione. La Siria è teatro di uno dei più feroci attacchi al popolo curdo: a partire dall’inizio degli anni ’60 un processo di arabizzazione forzata venne portato avanti nel nord del paese, con centinaia di migliaia di curdi privati della cittadinanza, il divieto di utilizzare la lingua curda e un uso indiscriminato della violenza che proseguì per tutti gli anni di governo di Assad padre. La “Cuba del Medioriente” non esitò a reprimere nel sangue e nell’emarginazione sociale i lavoratori curdi, e, al tempo stesso, ad utilizzare le tattiche della guerriglia del PKK in ottica antiturca. Quando la situazione con Ankara sembrò portare le due nazioni sull’orlo del conflitto, la Siria di Assad non esitò a pretendere la fuoriuscita di Öcalan dal Paese, dove il leader del PKK si trovava in esilio da quasi 20 anni.

Questi spostamenti e voltagabbana sul grande scacchiere internazionale non devono sorprenderci. Soffocando le aspirazioni internazionaliste della Rivoluzione d’Ottobre, lo stalinismo ha mire espansionistiche che si manifestano anche nel gioco di equilibri con le potenze imperialiste. Per quanto riguarda la Siria di Assad, invece, la questione nazionale si traduce in un massacrante processo di annientamento dell’identità curda. Senza cadere nella trappola della difesa della “cultura nazionale”, un passaggio che può aiutarci a far luce ai fini della nostra analisi ci viene da una lettera dettata da Lenin alla sua segreteria nel dicembre 1922:

È necessario distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo della nazione oppressa, il nazionalismo della grande nazione da quello della piccola. Nei confronti del secondo nazionalismo, noi, appartenenti a una grande nazione, ci troviamo ad essere quasi sempre, nella prassi storica, colpevoli di infinite violenze, e anzi, compiamo in piú, senza nemmeno accorgercene, un numero infinito di violenze e offese. […] Perciò l’internazionalismo da parte della nazione dominante, o cosiddetta “grande nazione” (sebbene sia grande soltanto per le sue violenze, grande soltanto come è grande Diergimorda), deve consistere non solo nell’osservare la formale uguaglianza tra le nazioni, ma anche una certa ineguaglianza che compensi da parte della nazione dominante, della grande nazione, l’ineguaglianza che si crea di fatto nella realtà. Chi non l’ha capito, non ha capito l’atteggiamento realmente proletario verso la questione nazionale, ed è rimasto, in sostanza, su una posizione piccolo-borghese, e perciò non può non scivolare ad ogni istante nella posizione borghese.”[9]

L’oppressione nazionalista dominante e le spinte all’assorbimento e alla cancellazione delle minoranze, in nome di una “grande patria”, seppure socialista, sono due facce della stessa medaglia.

 

Öcalan e la negazione dello Stato-nazione

Per comprendere l’evoluzione del pensiero politico all’interno del PKK, è necessario tenere conto di tre fattori fondamentali.

Il primo è senz’altro la varietà di posizioni tra le fila dei sostenitori della lotta di liberazione. Se il PKK si sviluppa prevalentemente nel Kurdistan turco e siriano, infatti, altre formazioni politiche intraprendono azioni nelle restanti regioni curde. Basti pensare all’esperienza irachena, dove, a partire dalla fine della Guerra del Golfo, esiste una “Regione autonoma del Kurdistan”, governata da una coalizione tra il Partito Democratico del Kurdistan – KDP, formalmente erede del movimento di liberazione guidato da Barzani, ma nella prassi conservatore, filo-occidentale, vicino alla Turchia e con un forte radicamento nella base tradizionalista e tribale della società curda – e l’Unione patriottica del Kurdistan (PUK), nato in polemica con le posizioni del KDP, ma con il quale condivide la spartizione politica dei centri di potere nella regione e l’impronta clanica. Le posizioni del Confederalismo Democratico (delle quali parleremo a breve) sono, in quest’area, ampiamente minoritarie. In senso più ampio, dunque, il PKK non riesce ad allargare geograficamente il proprio raggio di azione e ad unificare, coordinandole, le esperienze di lotta in un’ottica di classe.

“Nel movimento curdo esiste ogni componente politica: da un’area di destra (tribale, feudale…) fino alle posizioni più progressiste, rivoluzionarie. Questo avviene sia per la composizione socio-economica della comunità curda, sia per il costante dialogo bilaterale con tutti i movimenti di liberazione presenti nell’area (iraniani, turchi, iracheni…)[10]

Il secondo elemento è legato alla strategia di lotta impostata dal partito. Il giovane Öcalan che nel 1978 fonda il PKK è l’autore del Manifesto del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, presentato al congresso di fondazione del partito. Al suo interno leggiamo:

La rivoluzione ha due aspetti, è nazionale e democratica. La rivoluzione nazionale insedierà un nuovo potere politico, militare e culturale. A questo succederà la seconda fase: la rivoluzione democratica, che punterà a superare le contraddizioni derivanti dal passato feudale: sfruttamento feudale, struttura per clan, settarismo religioso, dipendenza semischiavistica della donna. È compito della rivoluzione mettere fine a tutte le forme di dominio del colonialismo turco, avviare un’economia nazionale e puntare all’unità del Kurdistan.

Fin dal suo congresso fondativo, dunque, il PKK intendeva condurre una battaglia per fasi – la prima di liberazione e unificazione nazionale, e una seconda volta a sradicare le radici feudali della società curda. In nessuna delle due fasi si fa riferimento al superamento dell’economia capitalista attraverso la lotta dei lavoratori; al contrario, lo sviluppo di un’economia nazionale – che presuppone quindi la creazione dei canoni di produzione borghesi – diventa il solo obiettivo attraverso due tappe.

Infine, dobbiamo tener presente l’influenza e il ruolo giocato negli anni da URSS e Siria, ma anche dall’imperialismo statunitense e da quelli regionali.

Le premesse che hanno contribuito a spostare il pensiero politico di Öcalan durante gli anni dell’esilio sono ben riassunte nella Prefazione del suo testo Confederalismo Democratico, pubblicato nel 2011:

Quando il PKK si è formato negli anni ‘70, il clima internazionale ideologico e politico era caratterizzato dal bipolarismo dovuto alla Guerra Fredda e dal conflitto tra socialismo e capitalismo. Il PKK in quel momento era ispirato dal sorgere dei movimenti di decolonializzazione presenti in tutto il mondo. In questo contesto si cercava di trovare una strada che si accordasse alla particolare situazione nel proprio paese. Il PKK non ha mai considerato la questione curda come un mero problema di etnia o di nazione. Piuttosto, credevamo che fosse un progetto per liberare la società e democratizzarla. Questi gli scopi che, in maniera crescente, hanno determinato le nostre azioni dal 1990. Abbiamo anche ravvisato un nesso causale tra la questione curda e la dominazione globale del sistema capitalistico moderno. Senza mettere in questione questo nesso, nessuna soluzione sarebbe stata possibile. Altrimenti, saremmo stati soltanto coinvolti in altre relazioni di dipendenza. Dunque, con uno sguardo alle problematiche di etnia e di nazione quali la questione curda, che hanno profonde radici nella storia e nella fondazione della società, sembrava esservi solo una soluzione esperibile: la creazione di uno stato-nazione, che fosse il paradigma della modernità capitalista di quel periodo. Non credevamo, tuttavia, che alcun progetto politico precostituito sarebbe stato in grado di migliorare in maniera sostenibile la situazione della popolazione del Medio Oriente. Non era stato il nazionalismo e gli stati-nazione a creare così tanti problemi nel Medio Oriente?[11]

Nello stesso scritto, Öcalan individua nello Stato-nazione il centro del potere oppressivo, dello sfruttamento di classe e il fulcro dell’accumulazione del capitale. Identifica le istituzioni burocratiche e militari dello stato come sovrastruttura necessaria al mantenimento del potere, dove le diversità e le pluralità sono soppresse in nome dell’omogeneità nazionale e della monopolizzazione dei processi. Riconosce sessismo e utilizzo dell’influenza religiosa come colonne portanti dello Stato capitalista. Su queste basi di analisi, il leader del PKK elabora la necessità di un modello nuovo, che riconosce il fallimento della storica rivendicazione di uno Stato indipendente e separato per il Kurdistan:

La richiesta di uno stato-nazione separato risulta dagli interessi della classe dominante o dagli interessi della borghesia che non riflettono gli interessi del popolo, poiché un altro stato-nazione sarebbe solo la creazione di ingiustizia ulteriore e ridurrebbe ancor più la libertà. La soluzione alla questione curda, per tanto, ha bisogno di essere fondata in un approccio che indebolisca il capitalismo moderno o lo respinga. Ci sono ragioni storiche, peculiarità sociali ed effettivi sviluppi insieme al fatto che l’area di insediamento dei curdi si estende oltre i territori di quattro diverse nazioni, cosa che rende indispensabile una soluzione democratica. Inoltre, c’è anche il fatto importante che l’intero Medio Oriente soffre di un deficit di democrazia. Grazie alla situazione geostrategica dell’area curda, i progetti democratici curdi promettono di sospingere la democratizzazione del Medio Oriente in generale. Chiameremo confederalismo democratico questo progetto democratico.[12]

 

Note:

[1] Alleanza di cui fanno parte le milizie curde YPG (Unità di Protezione Popolare) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne), che ne costituiscono la maggioranza, insieme a milizie arabe e siriane, formatasi ufficialmente nel 2015 per rafforzare il fronte anti-ISIS

[2] Per ulteriori approfondimenti sul contesto politico attuale nella regione, rimandiamo all’articolo pubblicato su questo sito Usa, Russia, Turchia – Il fragile equilibrio dell’imperialismo

[3] Pur con caratteristiche geografiche e livelli di ricchezza molto diverse, c’è un’altra regione all’interno del bacino del Medioriente il cui destino presenta molte affinità, per rivendicazioni e trattamento riservato alla sua popolazione da parte dell’imperialismo, con quella del Kurdistan: al termine della Prima Guerra Mondiale, con la creazione a tavolino degli stati nazionali nell’area mediorientale, anche la Palestina veniva posta sotto mandato britannico per permettere alle società europee di avere accesso a un’area fondamentale nel bacino del Mediterraneo. Le tragiche vicende del popolo palestinese non sono oggetto di questo articolo, ma è sufficiente ricordare l’insediamento dello stato di Israele – fortemente voluto dalla Gran Bretagna fin dagli anni ‘20 del XX secolo –, lo sfruttamento delle risorse idriche palestinesi per l’espansione e la crescita dell’economia sionista e la resistenza messa in campo dallo stesso popolo palestinese attraverso l’Intifada per ravvisare delle somiglianze con la storia del popolo kurdo. Non è un caso che, durante la durissima repressione dei primi anni ’80 perpetrata dalla Turchia nei confronti dei prigionieri politici kurdi, i guerriglieri del PKK abbiano trovato rifugio e solidarietà proprio nei campi profughi palestinesi per il loro addestramento. A voler semplificare la questione, entrambe queste popolazioni pagano il prezzo di rivendicare per sé territori troppo preziosi perché il capitalismo possa rinunciarvi, ed entrambe, con la loro volontà di opporsi allo sfruttamento e alla razzia, costituiscono una spina nel fianco nei progetti di spartizione politica ed economica mondiale [n.d.a.]

[4]Halabja Chemical Attack: Kurds mark the tragedy on its 31st anniversary”, Kurdistan24, Marzo 2019 (https://www.kurdistan24.net/en/news/8ef87370-b486-480b-baa4-ae8b7cfef8c1)

[5] I Curdi, da Ocalan ai Peshmerga, Gianni Sartori – Rivista Etnia, 2014 (https://www.rivistaetnie.com/sartori-i-curdi/)

[6] Ahmet Yaman, rappresentante in Italia del Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan, (ENIYA RIZGARIYA NETEWA KURDISTAN), in un comunicato rilasciato nel dicembre 1996

[7] I Kurdi: storia di una nazione senza Stato, Gianni Sartori – marzo 2014 (https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=47795)

[8] Ibid.

[9] Sulla questione delle nazionalità o della “autonomizzazione, Lenin, dicembre 1922

[10] https://www.rivistaetnie.com/sartori-i-curdi/

[11] Abdullah Öcalan, Prefazione a Confederalismo Democratico, 2011

[12] Abdullah Öcalan, Confederalismo Democratico, 2011