“La coscienza di una classe,quando tale classe rompe col suo partito, è subito disorientata”L. Trockij
Con la sconfitta di settembre, Gramsci rompe qualsiasi indugio: accetta la fusione con il gruppo di Bordiga per dar vita alla frazione comunista che ad ottobre pubblica il primo manifesto e a novembre tiene la sua prima conferenza nazionale ad Imola. Formalmente Bordiga ha rinunciato alle proprie posizioni, in verità le sue idee rimangono assolutamente predominanti. Più che una fusione alla pari tra diversi gruppi, è il gruppo bordighista ad inglobare di fatto tutte le altre correnti sotto la propria direzione. Non si tratta tanto di una questione numerica, ma di una questione politica. Gli ordinovisti non hanno la necessaria omogeneità. Nei mesi precedenti hanno addirittura aumentato le proprie divergenze interne. Come ricorderà Gramsci sono “semplici individui o quasi, mentre nell’altro gruppo, quello astensionista, la tradizione di frazione e di lavoro in comune ha lasciato tracce profonde”. Gramsci entra di fatto nella frazione subordinato all’impostazione di Bordiga e non se ne libererà in maniera esplicita almeno fino al 1924, mentre il partito nel suo complesso impiegherà ben sei anni per fare altrettanto.
Sin dall’inizio, la frazione comunista ritiene indispensabile la scissione dal Psi. La fretta viene motivata con il rifiuto di Serrati e della corrente massimalista di dividersi dai riformisti di Turati. L’epurazione del partito viene vista al contrario dai comunisti come un passo necessario e urgente per prepararsi ad una nuova occasione rivoluzionaria. Ma il barometro della lotta di classe ha già segnato un brusco cambiamento dei rapporti di forza. La rivoluzione è per il momento alle spalle e non più di fronte. La sconfitta di settembre ha lasciato un proletariato profondamente disorientato politicamente e indebolito dalla crisi economica. Rispetto al 1919 il processo è inverso: alla fine del 1922 le organizzazioni di massa crollano. La Cgl passa da 2 milioni a 800mila iscritti, la Federterra da 1,5 milioni a 200mila. Il Psi entra al Congresso di Livorno con 200mila iscritti, ne registra 106mila dopo la scissione, 73mila nell’ottobre del ’22 e 10.250 nell’aprile del ’23.
Il crollo delle organizzazioni operaie è contemporaneamente la causa e l’effetto dell’affacciarsi di un fenomeno nuovo: il fascismo. Le nuove sezioni del Pci non sono ancora nate e già devono lottare per la propria sopravvivenza. Tra il ’21 ed il ’24 l’ascesa del fascismo è impressionante per rapidità. Non si tratta tuttavia di un processo inarrestabile: in almeno due occasioni la teppaglia di Mussolini rischia di vacillare ed andare in crisi. Né il Psi né la Cgl sanno o vogliono coglierle. Il Pci tuttavia non fa molto meglio. Il settarismo che guida l’azione del giovane partito si rivelerà un limite estremamente grave di fronte all’avanzata fascista.
La scissione di Livorno
“Serrati teme che la scissione indebolisca il partito, in particolar modo i sindacati, le cooperative, i comuni. (…) Quindi Serrati mette a repentaglio la sorte della rivoluzione per non danneggiare l’amministrazione comunale di Milano” V. Lenin
La corrente comunista, dopo appena tre mesi di lavoro di frazione, dà vita alla scissione. Bordiga è il più convinto di simile scelta, ma non è solo nel compiere questo errore. Tutta l’azione dei rappresentanti dell’Internazionale Comunista al Congresso spinge nella stessa direzione. Se Gramsci non ha la colpa di essere alla testa di simile processo, non ha nemmeno il merito di opporvisi. Ha lasciato la direzione completamente nella mani del gruppo di Bordiga. Se questo avvenga per convinzione, per stanchezza o per passività è difficile dirlo. E’ un fatto però che il suo ruolo diventa relativamente marginale per un dato periodo di tempo. Non prende la parola al Congresso di Livorno, entrerà a malapena nel comitato centrale del nuovo partito e sarà escluso dal comitato esecutivo. Dal ’21 l’Ordine Nuovo si trasforma da rassegna teorica in uno dei quotidiani del Pci.
Su quale base e con che propositi l’Internazionale Comunista spinge per la scissione? Innanzitutto la prospettiva è quella che l’Italia si trovi ancora di fronte ad un’imminente occasione rivoluzionaria. Da Mosca è impossibile valutare attentamente lo svolgimento degli avvenimenti e nessuno dall’Italia dà indicazioni in senso opposto. In secondo luogo i rapporti ricevuti dalla frazione comunista autorizzano a pensare che la scissione sarà altamente maggioritaria. Zinoviev dice nel novembre del ’20: “I comunisti capeggiati da Bombacci, Bordiga, Terracini (…) affermano di avere con sé il 75-90% del partito (…) Io ritengo che nell’attuale situazione politica italiana qualsiasi compromesso con Serrati e i comunisti unitari sarebbe dannoso”. Ma il più grosso errore è rappresentato dalla modalità con cui la scissione viene portata avanti e soprattutto dall’atteggiamento che il Pci terrà nel periodo immediatamente successivo.
Agli occhi di Bordiga la scissione è un atto unico, un ultimatum da lanciare in nome della Terza Internazionale di per sé sufficiente a smascherare i riformisti. Al Congresso nazionale che si tiene a Livorno nel gennaio del ’21 ribadisce a più riprese che si tratta di “stare nella Terza Internazionale, il che vuol dire nella Terza Internazionale, come vuole la Terza Internazionale”. Tutta la questione viene perciò impostata in maniera formale: per aderire alla Terza Internazionale è necessario accettare 21 punti e Serrati non ne mette in pratica uno, quello della scissione dai riformisti di Turati. L’illusione contemporaneamente è che il Psi abbia ormai i giorni contati. Lo stesso Ordine Nuovo scrive: “Prenda Turati il cadavere del fu Partito Socialista e se ne faccia sgabello per la sua ambizione senile. Comunisti avanti!”. I numeri del Congresso già smentiscono parzialmente questa prospettiva. La mozione dei riformisti di Turati e di Treves prende 14mila voti, quella comunista 58mila e i massimalisti di Serrati mantengono la maggioranza con 98mila voti. Di per sé non si tratta di un completo insuccesso: la Federazione Giovanile Socialista passa completamente in mano ai comunisti. Nelle elezioni politiche immediatamente successive, però, si comprende quanto il Psi mantenga una propria egemonia tradizionale sulla classe: ottiene 1,5 milioni di voti contro i 291mila del Pci. Il legame che un partito ha stabilito con la propria classe di riferimento nel corso di decenni non può essere spezzato da tre mesi di lotta di frazione, neppure dopo una sconfitta di dimensioni storiche come quella del 1920.
La frazione comunista abbandona il congresso socialista al teatro Goldoni di Livorno il 21 gennaio e si ritira nel vicino teatro di San Marco per dare vita al Pci. Tre anni dopo il giudizio di Gramsci sarà inequivocabile: “Fummo sconfitti perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale, che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito Socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani del 1919-20”. Sicuramente esagerando si spingerà a definire la scissione “il più grosso trionfo della reazione”.
Ascesa e analisi del fascismo
“Purtroppo mentre tutti parlavano di rivoluzione, nessuno la preparava. (…) La borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde e morde sodo” G. Serrati
Gli echi del congresso di Livorno non si sono ancora spenti che già si assiste al generalizzarsi della violenza fascista. Fino a quel momento gli attacchi erano stati isolati e circoscritti. A fine febbraio si registrano invece 20 morti, 150 feriti e 1500 arrestati solo a Firenze: i fascisti hanno dato vita alla caccia all’uomo, uccidendo il dirigente comunista e ferroviere Spartaco Lavagnini. Alla prima reazione operaia la città è stata messa sotto assedio dall’artiglieria. Stessa dinamica ad Empoli e Prato. Il 25 aprile viene assaltata la Camera del Lavoro anche a Torino. L’uccisione del giovane comunista Ferruccio Ghinaglia a Pavia sancisce l’arrivo del terrore in Lombardia. In sei mesi vengono saccheggiate e incendiate 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni e circoli socialisti e comunisti, 100 circoli di cultura, 28 sindacati di categoria. Dovunque i fascisti colpiscono e si ritirano lasciando che siano le forze dell’ordine a intervenire.
Ma che cos’è esattamente il fascismo? Sulla sua natura si sentono dire le cose più diverse ancora oggi. I comunisti di allora avevano la scusante di trovarsi di fronte ad un fenomeno inedito, scusante che noi non possiamo concederci ai nostri giorni. La confusione allora fu comprensibile, riprodurla oggi sarebbe imperdonabile. La violenza reazionaria nei confronti dei lavoratori non era in sé una novità. Secondo lo stesso Giolitti tra il 1919 ed il 1920 c’erano stati 140 conflitti tra polizia e socialisti con 320 operai uccisi. La novità, però, consiste nella composizione delle forze in campo e nella natura di simile violenza. Durante l’occupazione delle fabbriche la grande borghesia ha scoperto l’incapacità del proprio apparato statale a fronteggiare un movimento rivoluzionario e la necessità di basarsi su forze sociali più ampie. Sin dall’inizio il fascismo riceve l’appoggio e i finanziamenti del grande capitale, ma la sua natura non si esaurisce in questo dato.
Le squadracce fasciste agiscono di concerto con la repressione dello Stato, ma non ne sono una diretta emanazione. Il fascismo è a tutti gli effetti un movimento di massa. Come spiega Gramsci nel 1924: “il fatto caratteristico del fascismo consiste nell’esser riuscito a costruire un’organizzazione di massa della piccola borghesia”. La sconfitta del 1920 non ha avuto effetti solo sul proletariato, rendendolo apatico e insicuro, ma ha lasciato profondi strascichi sulla psicologia di tutte le classi. L’occupazione delle fabbriche è passata e la crisi economica si è approfondita: tra il dicembre del ’20 e il settembre del ’21 i disoccupati passano da 102mila a 400mila. Con la propria sconfitta, il movimento operaio ha perso di fronte agli altri settori oppressi della società la possibilità di candidarsi a far uscire la società stessa dalla propria crisi. La piccola borghesia, rovinata dalla concorrenza del grande capitale come dall’attività sindacale del proletariato, persa la speranza di liberarsi del primo si rende ora disponibile ad eliminare il secondo. Il sottoproletariato, confidando dapprima nei risultati della lotta operaia, si lascia ora andare alla più bieca guerra tra poveri. Scrive Gramsci: “Questa classe, o meglio questa accozzaglia di classi, si era avvicinata nel 19-20 al proletariato, nella speranza di risolvere il suo problema economico con la vittoria degli operai e dei contadini. Venuto a mancare il moto rivoluzionario del proletariato italiano, la piccola borghesia si sposta verso quel movimento che promette la soluzione dei problemi che interessano particolarmente i ceti medi”. Ma il fascismo non si limita solo a spaventare o a reprimere il proletariato, il suo scopo è usare la “piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia” per frantumare il movimento operaio organizzato. Per mobilitare lo scontento sociale da destra, un grammo di demagogia vale più dei finanziamenti di qualsiasi banca e Mussolini ne porta a tonnellate. Quest’uomo, dice Gramsci, “era allora come oggi il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato, divenne il dittatore della borghesia”.
Di fronte al pericolo
“Noi ci stacchiamo dalla massa: tra noi e la massa si forma una nuvola di equivoci, di malintesi, di bisticci complicati” A. Gramsci
Le direzioni del movimento operaio sono si dimostrano incapaci di comprendere la contraddittorietà del fenomeno fascista. Inizialmente nemmeno Gramsci è esente da colpe. La più grave è quella di tentare un abboccamento col poeta reazionario D’Annunzio. D’Annunzio era stato uno dei candidati principali a guidare un movimento controrivoluzionario in Italia. La sua natura aristocratica ne aveva fatto un perfetto esponente letterario e militare del vile e finto eroismo dell’alta borghesia, ma mai avrebbe potuto renderlo un dirigente della teppaglia fascista. La sua personalità entra in contrasto con quella di Mussolini. Lo scontro è però tutto interno al campo, si tratta di due galli per un solo pollaio. Per la cronaca, comunque, l’incontro tra Gramsci e D’Annunzio non avvenne mai. Ma quello che in Gramsci è un errore dovuto ad un inevitabile disorientamento iniziale, per il resto dei dirigenti del movimento operaio sarà una sistematica sottovalutazione del problema fascista.
I dirigenti del Psi fanno della propria debolezza una bandiera. La consegna di fronte alla violenza squadrista è quella di non reagire. Turati sintetizza tale posizione nella frase: “bisognerebbe avere il coraggio della viltà”. Ogni tentativo di organizzare la resistenza operaia è sconsigliato o lasciato a se stesso. L’Avanti pubblica la Storia di Cristo, esaltando la qualità cristiana di porgere l’altra guancia. L’articolo si intitola: “Non resistere!”. La direzione del partito si barrica dietro alla richiesta di legalità, non fa che invocare l’intervento delle forze dell’ordine. Dovunque è invece chiara la connivenza tra apparato statale e fascisti. . Immobilizzando la rivoluzione, i dirigenti riformisti si illudono di dimostrare alla borghesia l’inutilità dei servizi della controrivoluzione. Ma l’obiettivo fascista non è fermare questo o quello sciopero, chiudere questo o quel circolo operaio, ma farla finita con il movimento operaio organizzato in quanto tale. Il fascismo, come spiega Gramsci, si scaglia contro l’organizzazione operaia “colpendola come tale, non per ciò che essa ‘faceva’ ma per ciò che essa ‘era’, cioè come fonte in grado di dare alle masse una forma e una fisionomia”.
Nell’estate del 1921 si arriva addirittura alla firma di un patto di pacificazione tra Partito Fascista e Psi. Alla caduta del Governo Giolitti, infatti, Mussolini deve dimostrare la propria affidabilità alla grande borghesia. Dopo aver dimostrato di saper scatenare le proprie squadracce, deve ora dimostrare di saperle controllare. La firma del patto con il Psi e con la Cgl è funzionale a questa strategia. Una circolare prefettizia invita tutti i comuni a darne ampia pubblicizzazione. Mentre la base del Psi viene ipnotizzata dall’illusione di poter vincolare il fascismo con questo o quel patto legalitario, le squadracce utilizzano la pausa per rinsaldare la propria organizzazione. A meno di un mese dalla firma del patto una nuova ondata di violenza si abbatte sulle organizzazioni del movimento operaio.
Gli Arditi del Popolo
“Operai, impiegati, vecchi soldati delle trincee, rivoluzionari sinceri,accorrete ad ingrossare il nuovo esercito di difesa proletaria” Manifesto degli Arditi del Popolo
Il Pci è nato sulla base dei 21 punti della Terza Internazionale. Ciononostante i socialisti continuano a chiedere di poter aderire alla stessa Internazionale. La divisione è stata perciò vissuta in modo formalistico dalle larghe masse. Le elezioni lo hanno dimostrato. L’incapacità del Psi di fronteggiare il fascismo fornisce ora un terreno pratico al piccolo partito comunista per dimostrare di fronte alla classe la necessità della propria esistenza. I militanti del Psi non sono ancora disposti ad abbandonare il proprio partito, ma sono disposti ad abbandonarne la politica. Si tratta di dotarsi di strutture che permettano loro di sommarsi alla lotta contro il fascismo senza per il momento dover necessariamente aderire al Pci. Le milizie armate di partito, le guardie rosse del Pci, non corrispondono a tale scopo. L’organizzazione che risponde a tale fisionomia nasce invece spontaneamente. Si tratta degli Arditi del Popolo. Vengono fondati nel marzo del ’21 da Argo Secondari, personaggio dal dubbio passato, a metà strada tra l’anarchico e l’avventuriero. Nonostante questo, vengono immediatamente circondati e permeati dalla simpatia di larghi strati del proletariato, una simpatia a cui non sono immuni né i militanti del Psi né quelli del Pci. A Genova le unità degli Arditi si chiamano non a caso “Lenin” e “Trockij”. A Vercelli sono i giovani comunisti a farsi da promotori della loro creazione. Gramsci intervista Argo Secondari, lo critica ma conclude: “Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt’altro essi aspirano all’armamento del proletariato”. Lo stesso Gramsci spiega come la base del Psi avesse vissuto fino a quel momento la posizione della non resistenza come “una mascheratura tattica (…) ciò spiega il grande entusiasmo con cui furono accolte le prime apparizioni degli Arditi del popolo. Si credette da parte di molti operai che la predicazione della non resistenza fosse servita appunto al Partito Socialista e alla Confederazione per organizzare minuziosamente il corpo degli Arditi del popolo”.
Il patto di pacificazione tra socialisti e fascisti arriva a spazzare via ogni illusione a riguardo. Quando gli stessi Arditi sono all’apice del proprio sviluppo i militanti del Psi vengono invitati a firmare la pace con i fascisti. Ma una doccia altrettanto gelata cade sulla base del Pci. Appena tre giorni dopo il partito minaccia di espulsione chiunque aderisca agli Arditi. Il gruppo dirigente bordighista ritiene infatti che l’inquadramento militare debba avvenire solo nelle milizie di partito. Motivazioni diverse per un solo risultato: gli Arditi del Popolo vengono lasciati a loro stessi. Dopo nemmeno due mesi sotto i colpi della repressione squadrista e poliziesca sono ridotti ad un fragile nucleo di qualche migliaio di militanti a livello nazionale. Il proletariato ha così assistito al boicottaggio frontale da parte dei propri partiti dell’unica struttura che sembrava aver garantito fino a quel momento una risposta efficace alla violenza squadrista. Due partiti sono nati a Livorno. Entrambi predicano la rivoluzione, entrambi la promettono, entrambi ora si chiamano fuori dagli Arditi del Popolo.
L’atteggiamento del Pci viene sottoposto ad una critica impietosa dall’Internazionale: “E’ chiaro che agli inizi avevamo a che fare con un’organizzazione di massa proletaria e in parte piccolo borghese che si ribellava spontaneamente contro il terrorismo… Dov’erano in quel momento i comunisti? Erano occupati ad esaminare con una lente d’ingrandimento il movimento per decidere se sufficientemente marxista e conforme al programma? Il Pci doveva penetrare subito energicamente nel movimento degli Arditi ( …) per il partito non c’è movimento a cui partecipino masse di operai troppo basso e troppo impuro”. Si tratta del primo dissenso di rilievo tra il gruppo dirigente dell’Internazionale e il nuovo partito. Un dissenso destinato ad allargarsi inesorabilmente.
Fascismo, socialdemocrazia e fronte unico
“Secondo le informazioni pervenutemi dagli amici italiani, il Partito Comunista Italiano, eccezione fatta per Gramsci, non ammetteva la minima possibilità di presa del potere da parte dei fascisti.” L. Trockij
L’errore compiuto riguardo agli Arditi non è un abbaglio estivo ma il frutto di un’intera impostazione politica. Appena uscito dalla scissione, il gruppo dirigente del Pci continua a ritenere il Psi il nemico principale. Il patto di pacificazione sembra confermare la concezione già espressa da Bordiga: “man mano che il Psi va denunziando i metodi rivoluzionari, il movimento fascista disarma le sue forme di violenta repressione e la distanza tra i due contendenti tra poco si ridurrà alla distanza che separa due contraenti (…) fascisti e socialdemocratici sono due aspetti dello stesso nemico di domani”. Il parlamentarismo rimane quindi un sistema che la borghesia “non si sogna di sopprimere”. Ma anche in caso contrario l’ottica che domina la propaganda del partito è inspirata ad una logica del tanto peggio, tanto meglio: “se veramente la borghesia andrà fino in fondo e nella reazione bianca strozzerà la socialdemocrazia, preparerà – non sembri un paradosso – le migliori condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione”. Qualsiasi verità generale applicata fuori dal contesto può diventare una falsità. Il Psi è stato il principale ostacolo sulla via della rivoluzione: non per questo è indifferente se simile ostacolo cada per mano fascista o per l’azione del Pci. Quando il Comitato Centrale del Pci lancia la formula “la rivoluzione passa sul cadavere del Partito Socialista”, i cadaveri ci sono veramente e sono quelli dei militanti socialisti e comunisti colpiti dallo squadrismo fascista. E’ Bordiga il principale ispiratore di tale linea, ma nessuno dei dirigenti se ne discosta. Togliatti è, come sempre gli capiterà, più realista del re: “costituito in partito, il fascismo avrà la sua parte al festino della democrazia, più o meno sociale. Tutti si metteranno facilmente d’accordo”.
La concezione del gruppo dirigente del Pci trova la propria ufficialità nelle Tesi che preparano il Congresso di Roma del ’22, il secondo ufficialmente ma il primo a tutti gli effetti. Le Tesi sono sottoposte ad una minuziosa critica da parte dell’Internazionale Comunista: “le tesi della Direzione del Partito dimostrano che essa non ha superato l’infantilismo, la malattia di un giovane sterile radicalismo, di un radicalismo il quale si risolve in una paura settaria del contatto con la vita reale, in una mancanza di fiducia nelle proprie forze e nelle tendenze rivoluzionarie della classe operaia quando questa entra in lotta, anche solo per scopi transitori”. Ed è su quest’ultimo punto che l’Internazionale insiste più chiaramente: il Pci deve adottare una tattica di fronte unico con il Psi. Spiega Trockij: “Ebbene gli operai che non entrano nel nostro Partito e che non comprendono il nostro Partito – ed è il motivo per cui non vi entrano – vogliono avere la possibilità di lottare per il pezzo di pane, per il pezzo di carne. Essi vedono il Partito Comunista e il Partito Socialista, e non comprendono perché essi si siano separati”. La base del partito socialista va conquistata quindi invitando gli stessi dirigenti del Psi ad intraprendere azioni comuni su campagne che difendano gli interessi immediati della classe operaia. Se la direzione del Psi accetta simili inviti si troverà invischiata in una lotta che non può condurre fino in fondo, che inevitabilmente sarà portata a tradire. “Se il Psi respinge la nostra proposta – scrive l’Internazionale – allora le masse si persuaderanno che noi gli abbiamo mostrato una via concreta, che il Psi invece non sa cosa fare”.
Per non violare la disciplina internazionale, il gruppo dirigente del Pci propone di dare alle Tesi di Roma un valore esclusivamente consultivo. Si tratta però di una misura formale. Consultive o no, le Tesi vengono spiegate, discusse e approvate dal Congresso. Alla fine dei lavori congressuali l’Internazionale si è ormai convinta della necessità di costruire un’alternativa alla direzione di Bordiga. Viene così richiesto al Comitato Centrale italiano di inviare un proprio rappresentante a Mosca. La scelta ricade immediatamente su Gramsci. Si tratta di un fatto significativo: la direzione del Pci ritiene di potersene privare, mentre quella dell’Ic lo considera forse il dirigente che può rivelarsi più aperto alle proprie posizioni.
Dallo sciopero legalitario alla marcia su Roma
“Siamo entrati dopo la scissione di Livorno in uno stato di necessità (…) Dovemmo organizzarci in Partito nel fuoco della guerra civile” A. Gramsci
Gramsci parte per Mosca nel maggio del ’22. L’idea è quella di farlo lavorare a stretto contatto con il gruppo dirigente dell’Internazionale per fargliene comprendere a fondo metodi e idee. Nella Commissione italiana vi sono oltre a lui anche Trockij, Zinoviev e Bucharin a dimostrazione dell’importanza che viene data alla questione. L’Italia viene considerato il paese più vicino ad una crisi rivoluzionaria ma anche alla vittoria della controrivoluzione. La lotta contro il settarismo di Bordiga viene per questo vista con urgenza e Gramsci la leva principale per condurla. Come ammette Trockij: “Abbiamo dovuto premere molto per convincerlo a prendere una posizione di lotta contro Bordiga e non so se ci siamo riusciti”. E’ sopraggiunto nel frattempo uno di quei momenti in cui la salute sottrae Gramsci alla possibilità di svolgere un ruolo attivo. Arrivato in Russia deve ricoverarsi per sei mesi in un sanatorio. Amnesie, convulsioni e stati di incoscienza gli impediscono qualsiasi lavoro.
In Italia intanto la situazione subisce un’altra brusca accelerazione. Il gruppo dirigente del Pci rifiuta la teoria del fronte unico politico, mentre in teoria accetta quella del fronte unico sindacale. Una posizione che si riduce in fin dei conti ad accettare un’alleanza con D’Aragona per rifiutarne una con Serrati, come se le stesse masse potessero vivere solo di sindacato e fuori da ogni vincolo politico. Ma anche il fronte unico sindacale è in realtà una posizione presa più per lavarsi la coscienza che per dargli un seguito effettivo. L’iniziativa viene lasciata totalmente in mano alla direzione della Cgl che a febbraio lancia l’Alleanza del Lavoro, un cartello tra tutte le forze sindacali dal carattere prevalentemente burocratico e sotto il ferreo controllo delle correnti riformiste. Gli stessi vertici della Cgl infatti si rifiutano di lanciare qualsiasi mobilitazione contro il fascismo. Si trincerano dietro una presunta neutralità sindacale e sperano in qualche intervento istituzionale. Eppure la corrente sindacale massimalista del Psi e quella del Pci avrebbero la maggioranza assoluta degli iscritti, ma simile maggioranza non viene sfruttata per lanciare congiuntamente un appello allo sciopero generale contro il fascismo. L’iniziativa viene clamorosamente presa da Turati.
Quando cade il Governo Facta i riformisti si giocano l’ultima possibilità di entrare a far parte della coalizione governativa. Lo sciopero generale viene allora concepito come l’ultima arma di pressione per dimostrare alla borghesia l’inevitabilità del proprio coinvolgimento al potere. Dopo aver sistematicamente scoraggiato qualsiasi dichiarazione di sciopero, l’Alleanza del Lavoro compie una svolta improvvisa e repentina. Lo sciopero generale è proclamato dal 29 luglio per il giorno 31 senza alcun preavviso e senza alcuna preparazione. Turati dichiara che lo scopo principale deve essere rimettere in carreggiata “la barca dello Stato” e che gli operai devono astenersi dal commettere “atti di violenza che tornerebbero a scapito della solennità della manifestazione e si presterebbero alla speculazione degli avversari”. Gli avversari in effetti non speculano ma agiscono. Il proletariato è invitato ad uno sciopero in campo aperto contro la violenza fascista senza che alcuna risposta a simile violenza sia stata preparata. Nelle principali città operaie lo sciopero cessa già il due agosto disperso da un’ondata di devastazioni fasciste. Solo a Parma, dove è ancora attiva un’unità degli Arditi del Popolo, la resistenza operaia viene organizzata. I quartieri popolari della città resistono all’assalto di più di 15mila fascisti e cadranno solo sotto i colpi dell’artiglieria regolare dell’esercito.
Il fallimento dello sciopero generale avvia la definitiva disgregazione delle forze operaie. Gli iscritti della Cgl crollano e il Psi subisce l’ennesima scissione. Sotto i colpi dei propri stessi errori il partito è ormai dilaniato internamente dalla lotta di corrente. Ne esistono quattro di cui due massimaliste e due riformiste. Al congresso il Psi si spacca in due: 32.106 voti vanno alle mozioni di sinistra, 29.119 a quelle di destra. Appena terminato il Congresso Turati, Treves e Menotti danno vita alla scissione di destra con la nascita del Psui (Partito Socialista Unitario). Si conclude così la parabola del massimalismo italiano. In nome dell’unità, Serrati si è rifiutato di scindersi da Turati mentre quest’ultimo ha spremuto il partito come un limone per poi abbandonarlo.
Quando si apre il Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista nell’ottobre del ’22 la posizione della direzione internazionale si è ulteriormente radicalizzata. Ormai non si tratta più solo di favorire il fronte unico tra Psi e Pci, ma di portare avanti una fusione tra i due partiti. Gramsci arriva al congresso dopo sei mesi di sanatorio. Ancora una volta di fronte alla richiesta di farsi carico della lotta per le posizioni dell’Internazionale nel Pci “anguilleggia” (come dice lui stesso). Un atteggiamento che la direzione dell’Internazionale non è più disposta a tollerare tanto che recapita alla delegazione italiana una lettera firmata dai principali dirigenti internazionali, Lenin, Zinoviev, Radek, Trockij e Bucharin, in cui invita a prendere atto delle decisioni del Congresso e ad accettare di gestire la nuova linea. Bordiga rifiuta simile posizione e di fatto consiglia al gruppo dirigente del Pci di porsi in una posizione di passività all’interno del partito. Gramsci è l’unico ad opporsi apertamente a tale prospettiva. Si tratta della prima divisone aperta tra i due dal 1920, ma è sicuramente una presa di posizione tardiva. Il Pci esce immobilizzato e decapitato dal Congresso Internazionale. Bordiga si rifiuta di dirigere il partito senza che nessun gruppo dirigente alternativo sia stato preparato. Tutto questo mentre la repressione fascista dà vita ad un’altra brusca accelerata.