“E’ una caratteristica della classe operaia in generale, e del Partito Socialista italiano in particolare, il fatto che un lavoratore acquisti fiducia nell’organizzazione che gli ha fatto prendere coscienza e lo ha formato” L. Trockij

L’onda d’urto della rivoluzione d’ottobre si espande rapidamente in tutta Europa. In Ungheria la creazione di una repubblica sovietica sembra cosa fatta, così come in Germania le basi del capitalismo appaiono irrimediabilmente compromesse. Ma ancora prima di infrangersi contro gli scogli della reazione borghese e del fascismo, l’onda sbatte contro le direzioni dei partiti operai europei. Tuttavia questo non è immediatamente chiaro in Europa e lo è ancora meno in Italia. Il Psi sembra di gran lunga più a sinistra del resto dei vecchi partiti della Seconda Internazionale.

Come sempre succede, quando milioni di persone passano da un livello di assoluta spoliticizzazione al primo istintivo tentativo di prendere in mano il proprio destino, lo fanno rivolgendosi alle organizzazioni che per tradizione ritengono essere “le proprie”. A dispetto delle loro direzioni, il risveglio rivoluzionario della classe si traduce in un incredibile afflusso verso le organizzazioni a cui il proletariato si sente legato per tradizione storica. Il Psi passa dai 24mila iscritti del 1918 agli 87mila del 1919 e ai 200mila del 1920. La Cgl passa dai 200mila iscritti dichiarati alla fine della Prima Guerra Mondiale ai 2 milioni dell’autunno del 1920. Si tratta di un moto che non tarda ad esprimersi anche sul terreno elettorale. Nelle elezioni del 1919 il Psi raccoglie oltre 1,8 milioni di voti e controlla il 24% dei comuni. Il movimento cooperativistico assume una forza crescente. Nel 1920 si calcola che 3,8 milioni di lavoratori facciano parte di qualche forma di cooperativa o associazione operaia. E’ qua che risiede la contraddizione, una contraddizione di cui nessuna corrente interna alle organizzazioni di massa è pienamente consapevole. Le masse si rivolgono alle proprie organizzazioni convinte di trovarvi uno strumento di cambiamento. Vi trovano invece un apparato burocratico che si è venuto consolidando negli anni e che è completamente assuefatto alla gestione dell’esistente. Un apparato che inizialmente può addirittura trarre giovamento dall’aumentata percentuale di voti o di iscritti.

All’ombra delle roboanti dichiarazioni di solidarietà alla Russia bolscevica, cresce così una schiera di amministratori di cooperativa, di consiglieri comunali e di funzionari sindacali ai cui occhi la rivoluzione non può che delinearsi come un obiettivo lontano a cui giungere gradualmente attraverso un processo di crescita lineare del consenso elettorale e del movimento cooperativistico. Una schiera di burocrati che, come ammetterà Nenni dopo anni, “non concepiva altra forma di lotta e di agitazione all’infuori della lotta parlamentare” . Lo stesso Gramsci li descrive come socialisti che non sanno fare altro che “aspettare di essere diventati la metà più uno” e che “aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri”. Tuttavia la polemica di Gramsci è rivolta esclusivamente alla corrente riformista di Turati e Treves, gli unici che rivendicano apertamente nel Psi la prospettiva elettoralistica o minimalista. Per il resto tutti i rivoluzionari nel Psi si riconoscono dietro al generico termine intransigente-massimalista . Quando nel novembre del ’17 si riunisce la frazione massimalista vi troviamo Gramsci, Bordiga ma anche Lazzari e Serrati: si tratta di una riunione di circa venti delegati da cui scaturiranno nel giro di pochi anni almeno quattro correnti diverse e due scissioni di partito.

I Consigli di fabbrica

“La rivoluzione non è un Dio che crea dal nulla, ma un sole che fa schiudere i fiori” A. Tocqueville

In occasione del primo maggio del 1919 esce a Torino il settimanale L’Ordine Nuovo. Il segretario di redazione è Antonio Gramsci e sulla testata si legge “Rassegna settimanale di cultura socialista” e più in basso “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Il giornale ha un approccio totalmente militante, a partire dalla diffusione. L’attenzione verso l’autofinanziamento è assoluta. I primi numeri in particolare si aprono con un editoriale politico ed uno organizzativo in cui si spiegano i passi in avanti sul terreno della diffusione. Nel terzo numero leggiamo: “I nostri abbonati sono ad oggi 179 di cui 21 sostenitori; gli ordinari sono 158 e di essi 136 vengono dal Piemonte. E ora voi direte che sono delle pedanterie, queste statistiche, che è un’inutile rassegna di forze appena nascenti. Inutile se si trattasse di una impresa giornalistica, di un affare che si cerca di lanciare. (…) Noi guardiamo più in là. (…) nei nostri abbonati vediamo dei collaboratori (…). Per questo piace contarci”. La progressione della diffusione è inizialmente impressionante: 300 abbonati e una tiratura di 3mila copie a giugno, 500 abbonati e 3200 copie a settembre e 650 abbonati e 3500 copie di tiratura a novembre. Ma è il numero 25 dell’8 novembre a sorprendere la redazione, un numero dove esce l’articolo “Sindacalismo e consigli” e soprattutto il programma dei commissari di reparto approvato da una riunione di fine ottobre dei delegati operai di 32 stabilimenti, in rappresentanza di 50mila operai. Il numero 25 infatti tira 5mila copie e deve essere immediatamente ristampato per altrettante 5mila.

L’Ordine Nuovo è subito identificato dagli operai torinesi come il giornale dei consigli, ed è in effetti questa la sua ispirazione principale. Ad un anno dalla sua prima uscita così Gramsci ne ricorda la nascita: “Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? (…) Fu detto – Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? Qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo; il Soviet è la forma in cui, dappertutto dove esistano proletari in lotta per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino? (…) Sì esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la Commissione Interna”.

La rivoluzione russa aveva confermato ciò che Marx aveva già intuito analizzando la Comune di Parigi. Nessuna nuova società sorge dal nulla, ma deve necessariamente appoggiarsi su organismi sorti nel seno di quella vecchia e che costituiscono forme embrionali del nuovo potere. Per questo ogni sconvolgimento rivoluzionario tende a dare vita ad uno stadio di dualismo di poteri. I Soviet erano nati nel 1905 senza avere altra funzione se non quella di comitati di sciopero formati dai delegati eletti dalle assemblee operaie delle diverse fabbriche di San Pietroburgo. Se come comitati di sciopero si erano posti l’obiettivo di paralizzare la produzione nella vecchia società, sotto la spinta del movimento rivoluzionario del 1917 iniziarono a porsi l’obiettivo di rimetterla in moto secondo i canoni del nuovo sistema. La nascita dei Consigli operai in Ungheria e in Germania confermava come non si trattasse di un fenomeno esclusivamente russo.

A Torino i padroni cercano di impedire la nascita di un fenomeno simile con una concessione dall’alto. Nel febbraio del ’19 nascono le Commissioni Interne, risultato di un accordo tra Fiom e associazione degli industriali torinesi. Il loro regolamento è profondamente antidemocratico e la scelta dei membri riservata praticamente solo al sindacato. Si prefigurano così più come appendici dell’apparato sindacale che come organismi di democrazia operaia. Spiega lo stesso Gramsci: “Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata (…) Le commissioni interne sono organi di democrazia proletaria che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori (…) Già fin d’oggi gli operai dovrebbero procedere alla elezioni di vaste assemblee di delegati, scelti tra i migliori e più consapevoli compagni, sulla parola d’ordine: ‘Tutto il potere dell’officina ai Comitati di officina’, coordinata dall’altra parte ‘Tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini’”. Questo è scritto nel giugno ’19 in un articolo che non a caso è intitolato “Democrazia operaia”. Già ad agosto la stessa proposta viene approvata all’unanimità dai 132 delegati al congresso piemontese della gioventù socialista. Viene approvato anche un ordine del giorno che dice: “I giovani socialisti piemontesi, riuniti in Congresso, plaudendo all’iniziativa dei compagni che hanno promosso la pubblicazione dell’‘Ordine Nuovo’ s’impegnano affinché venga diffuso nella regione tra le masse operaie e contadine”. Per iniziativa dello stesso Ordine Nuovo si tiene ad ottobre una prima riunione dei Comitati esecutivi dei Consigli di Fabbrica. Vi sono rappresentati 30mila operai torinesi. Poco dopo se ne tiene una seconda, dove il numero dei delegati presenti è arrivato a 50mila. Vi si approva il “Programma dei commissari di reparto”. Lo stesso che viene votato a grande maggioranza dall’assemblea generale della sezione torinese della Fiom l’1 novembre.

Nonostante i primi a non rendersene conto siano gli stessi redattori dell’Ordine Nuovo, l’idea dei consigli ha iniziato una propria lotta di corrente all’interno delle organizzazioni del movimento operaio e senza inizialmente incontrare eccessive resistenze. L’illusione che domina il gruppo torinese è che la stessa dinamica sia destinata a ripetersi a livello nazionale, che sia sufficiente che i consigli si estendano a livello regionale e nazionale perché le direzioni del movimento operaio ne riconoscano la validità. Al contrario l’esperienza torinese dovrà presto vivere uno scontro frontale con l’apparato del Psi e della Cgl, uno scontro di cui gli ordinovisti ignorano la necessità e a cui non si sono preparati.

La lotta di frazione nel Psi e la questione sindacale

“il capitale della rivoluzione prossima si dissipa in orge di parole” A. Tasca

Nell’ottobre del ’19 si tiene a Bologna il primo congresso del Psi dopo la guerra. Vi si presentano 3 mozioni: quella di destra dei riformisti di Turati e dei massimalisti-unitari di Lazzari raccoglie 14.880 voti, mentre quella dei massimalisti-intransigenti di Serrati 48.411. La novità però è rappresentata dalla presenza di una mozione che cerca di staccarsi da sinistra dal massimalismo. Si tratta della mozione astensionista di Bordiga, redattore del Soviet di Napoli, che raccoglie 3.417 voti. Il Psi è completamente inebriato dalla propria crescita. Vi domina la fraseologia rivoluzionaria senza alcuna attenzione per la sostanza. I richiami alla Russia in realtà coprono la mancanza della preparazione della rivoluzione in Italia. La distanza tra parole e fatti è tale che la stessa frazione riformista vota favorevolmente all’adesione del partito alla Terza Internazionale. La base del partito non riesce ancora a vedere tale distanza e l’Ordine Nuovo non fa eccezione. Nel dibattito precongressuale Gramsci scrive: “riteniamo doveroso prendere nettamente posizione in questa rivista, nel dibattito ora apertosi e che prelude al cozzo delle tendenze al prossimo Congresso. E senz’altro dichiariamo di aderire – e ciò non farà meraviglia a quanti ci hanno sinora seguito – al programma della frazione massimalista, quale è stato formulato dai compagni Gennari e Serrati”. Ancora dopo il Congresso descriverà il partito come“un organismo sano e forte”.

Il partito al contrario è già ampiamente infettato da uno spirito di adattamento alla democrazia parlamentare, un male che trova espressione lampante nella frazione riformista ma che non si esaurisce con essa. Sintomi dell’infezione sono più che riscontrabili nella corrente massimalista. A Bordiga va dato atto di essere il primo a cogliere simile malattia. Costruendo una corrente nazionale individua la forma con cui attaccarla, non però il contenuto da contrapporvi. La frazione bordighista, infatti, incentra tutta la propria polemica sulla proposta dell’astensione rivoluzionaria. Come un medico che cerchi di amputare la gamba per non doverla curare da una ferita, così i bordighisti individuano nell’astensione da qualsiasi partecipazione alla vita parlamentare la via per amputare il rischio burocratico. Si tratta di una proposta che non solo entra in contraddizione con Serrati, ma anche con lo stesso Lenin. Agli occhi degli ordinovisti si tratta poi di un doppio errore. Come Gramsci spiega: “Osserviamo qui che a parer nostro la disputa sull’elezionismo e sull’anti-elezionismo minaccia di prendere nelle sezioni e forse anche nel Congresso una importanza che non meriterebbe (…) Oggi l’elezionismo e l’antielezionismo rappresentano per taluni i termini che separano la destra e la sinistra del partito; noi insistiamo invece che sarebbe una vera iattura che al Congresso la disputa si esaurisse entro quei termini, quando vi sono nel programma massimalista alcuni punti attorno ai quali veramente dovrebbe arrivare la netta separazione delle tendenze”.

In verità la mozione astensionista non ha da offrire un programma alternativo al partito, può al massimo rappresentare lo sfogo per il mal di pancia che inizia a serpeggiare tra un settore di militanti. Tasca pubblica sull’Ordine Nuovo un resoconto del Congresso dove descrive i bordighisti come “un gruppo rumoroso, che si moltiplica con interruzioni qualche volta felici, spesso inopportune e fatte un po’ pel piacere innocente dell’eresia (…) Ce lo perdonino i nostri amici, ma ci pare che le illusioni d’ottica elettorale che essi ci rimproverano abbiano raccolto, sia pure in senso negativo, troppa parte della loro attività e della loro attenzione, e che sia venuta così a mancare da parte loro una seria, concreta, radicale differenziazione di principi che giustifichi il nome, secondo noi non ancora meritato di ‘frazione comunista’. Ritornando a Torino sul treno abbiamo parlato col rappresentante di una sezione piemontese che votò per essa, egli ci confessò che quel voto era la conseguenza dell’irritazione prodottasi colà per la non simpatica gara di due che chiedevano la candidatura del collegio”. Questo non toglie che le conclusioni a cui sono giunti gli ordinovisti siano altrettanto scorrette. Tasca continua il suo resoconto affermando: “Ma allora si vedrà che non era proprio il caso di formare una frazione comunista, poiché comunista è oggi la maggioranza del Partito; ma il Bordiga piuttosto che aver ragione in compagnia preferisce aver torto da solo”.

L’Ordine Nuovo dichiara così inutile formare una corrente, mentre nei fatti è già l’organo di una tendenza specifica del movimento operaio. Settimana dopo settimana il gruppo entra in polemica con tutte le correnti nazionali del movimento operaio. Il terreno su cui coglie dapprima l’incoerenza della maggioranza del partito è quello sindacale. Nella Cgl vige un atteggiamento di quieto vivere tra massimalisti e riformisti. Lo stesso atteggiamento sembra prevalere complessivamente tra direzione del Psi e della Cgl. Tra le due organizzazioni è stato addirittura firmato un patto nel 1918 in cui il partito si impegna a non invadere il campo sindacale e viceversa. Così Gramsci commenta l’atteggiamento del Psi nel gennaio del ’20: “Partito degli operai e dei contadini rivoluzionari lascia che l’esercito permanente della Rivoluzione, i Sindacati operai, rimanga sotto il controllo di opportunisti che ne incantano a loro piacere il congegno di manovra, che sistematicamente sabotano ogni azione rivoluzionaria e che sono un Partito nel Partito, e il Partito più forte, perché padroni dei gangli motori del corpo operaio. Due scioperi, che potevano essere micidiali per lo Stato, si sono svolti (…) senza che il Partito avesse nulla da dire, un metodo da affermare che non sia quello vecchio e logoro della più vecchia e logora Seconda Internazionale: il distinguo tra sciopero economico e politico”.

Aprile del 1920 a Torino

“Nelle fabbriche non ci può essere che un’unica autorità” manifesto della Lega Industriali di Torino

L’esistenza dei consigli di fabbrica comporta uno stato di perenne dualismo di potere all’interno delle fabbriche torinesi che non può essere tollerato a lungo dagli stessi padroni. Già nel novembre del ’19 il prefetto di Torino comunica al Ministero dell’Interno che “per dichiarazioni fatte da alcuni principali industriali di questa città che questa Lega Industriale ha intenzione di iniziare subito dopo le elezioni politiche una lotta contro le organizzazioni operaie ricorrendo, appena occasione si presenterà, alla serrata generale degli stabilimenti”. Di questa intenzione viene informata la stessa Fiom in un memoriale ricevuto dall’Amma (Associazione industriali metallurgici, meccanici e affini), ma i mesi che passano dal novembre del ’19 al marzo del ’20 sono interamente spesi a polemizzare con l’Ordine Nuovo riguardo alla natura dei Consigli di Fabbrica. Secondo la Cgl non bisogna concedere il voto ai non iscritti al sindacato e la direzione del Psi è d’accordo. Il Soviet di Bordiga, invece, accusa i consigli di essere organi di corruzione del movimento operaio che creano una forma di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda. Ognuno vi contrappone un proprio modello: la direzione della Cgl favoleggia di un “parlamento del lavoro”, i massimalisti progettano a tavolino le regole per i futuri soviet e Bordiga rimanda il problema ad un momento successivo alla presa del potere. Eppure i consigli di fabbrica vivono e si sviluppano, tanto che nel marzo del 1920 sono indette in tutta le aziende della città le elezioni generali per il rinnovo delle commissioni interne secondo le modalità democratiche indicate dallo stesso Ordine Nuovo. Le elezioni sono precedute da due settimane di intensa propaganda in ogni fabbrica, di volantinaggi e di comizi per spiegare le funzioni ed il significato dei nuovi Consigli di Fabbrica. Il padronato comprende di non poter più rimandare l’attacco.

Come racconterà in seguito Gramsci: “Il 7 marzo si tiene a Milano un Convegno Nazionale degli Industriali. (…) L’onorevole Gino Olivetti, segretario confederale, riferisce al Convegno sulla questione dei Consigli di Fabbrica e conclude proclamando che i Consigli operai torinesi devono essere schiacciati implacabilmente”. Il 20 marzo Olivetti, Debenedetti e Giovanni Agnelli si presentano al prefetto annunciandogli la serrata imminente. 50mila guardie regie vengono ammassate attorno alla città, batterie d’artiglieria vengono piazzate sulle colline circostanti, mitragliatrici sui tetti. Il 28 marzo i lavoratori delle Industrie Metallurgiche (indotto Fiat) scioperano contro il licenziamento di tre membri della commissione interna. La risposta industriale è l’immediata serrata “per imporre la fine dello stato caotico in vigore nelle fabbriche”. I metalmeccanici non possono che rispondere con l’inizio di uno sciopero che durerà venti giorni. Come ammetterà Gramsci: “la classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto”. L’Ordine Nuovo sospende le pubblicazioni e viene inglobato nella redazione del bollettino del Comitato di sciopero formatosi per l’occasione.

La costante preoccupazione del Comitato è quella di espandere i confini della mobilitazione: dal 15 aprile l’agitazione è estesa al resto delle categorie. Chimici, tipografi, lavoratori dell’edilizia si sommano allo sciopero per un totale di 500mila lavoratori mobilitati. Il 19 lo sciopero viene invece esteso a tutto il Piemonte. Gli ordinovisti, però, non possono andare oltre, sono alla mercé delle decisioni degli organismi nazionali del Psi e della Cgl. Quest’ultima si è già dichiarata contraria allo sciopero, il Psi invece riunisce il proprio Consiglio Nazionale il 20-21 aprile. Originariamente la riunione è fissata a Torino ma la direzione del partito ne sposta la sede a Milano. Nota in maniera sprezzante Gramsci: “una città in preda allo sciopero generale sembrava poco adatta come teatro di discussioni socialiste”. L’atteggiamento del Psi è in realtà già abbastanza eloquente. L’edizione nazionale dell’Avanti quasi censura i fatti del Piemonte. Su diversi giornali locali dei socialisti lo sciopero torinese viene spesso descritto come “un’insurrezione di carattere anarchico” (la Voce, giornale socialista di Empoli). Al Consiglio Nazionale a Milano vi partecipa per l’Ordine Nuovo Terracini che dichiara che i compagni torinesi “hanno un desiderio solo e per mia bocca lo manifestano: che il Consiglio Nazionale deliberi un programma d’azione”. La risposta è negativa. Lo è ovviamente da parte dei riformisti ma anche da parte di quella maggioranza del partito che Tasca aveva definito pochi mesi prima “comunista”. L’analisi di Bordiga, anche in un momento così decisivo, rimane astratta: i Consigli oggi danno fastidio agli imprenditori ma domani daranno fastidio alla rivoluzione proletaria. Di fronte al rifiuto dei vertici del Psi ad estendere l’agitazione non resta altra strada che quella di una ritirata ordinata. Lo sciopero si chiude con un accordo tra padronato e sindacato sul riconoscimento dei consigli di fabbrica in cambio di una limitazione dei loro poteri. E’ una sconfitta e Gramsci non lo nasconde: “La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la superstizione, la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano (…) La vasta offensiva capitalista fu minuziosamente preparata senza che lo ‘Stato maggiore’ della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali (…) Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, bisogna impostare un piano organico di rinnovamento dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi”.

La sconfitta di Torino e l’Internazionale Comunista

“Se dunque noi siamo stati sconfitti, è nostro dovere ricominciare da capo” K. Marx

La primavera a Torino anticipa ciò che nell’autunno successivo riguarderà tutta Italia. Passata la paura per lo scampato pericolo, la borghesia pretende ora di dominare con il pugno duro. Quando il primo maggio la classe operaia torinese torna a sfilare in modo massiccio e compatto, la polizia apre il fuoco provocando due morti. I fatti hanno dimostrato quanto il gruppo torinese abbia preparato la rivoluzione a Torino sottovalutando completamente la costruzione di una corrente su scala nazionale. Ancora dopo anni Gramsci lo giudicherà il proprio errore fondamentale: “Nel 1919-20 abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia”.

Finito il movimento torinese, l’Ordine Nuovo cerca di rimediare il più rapidamente possibile alle proprie mancanze. Gramsci partecipa alla riunione nazionale della corrente bordighista per proporre un’unificazione sulla base della rinuncia alla tattica dell’astensionismo rivoluzionario. Torna a casa con un sostanziale rifiuto. L’8 maggio pubblica sull’Ordine Nuovo le tesi “Per un rinnovamento del partito socialista” che contengono contemporaneamente un bilancio della sconfitta torinese e il lancio di una frazione nel Psi. Si tratta probabilmente di uno dei suoi scritti migliori: “La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: – o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario (…) – o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito Socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i Sindacati e le Cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese. (…) Il Partito Socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale Comunista, non lancia parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria. (…)”. Il documento anticipa di fatto non solo l’imminente scoppio dell’occupazione delle fabbriche, ma anche la successiva reazione fascista.

A settembre si tiene in Russia il Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista. Si tratta di una riunione ancora profondamente viziata dalla mancanza di collegamenti e informazioni tra l’Italia e gli stessi bolscevichi. Vi prendono parte i dirigenti massimalisti del Psi e addirittura alcuni esponenti della mozione riformista. Il segretario della Cgl D’Aragona viene portato in trionfo dai lavoratori russi che lo accolgono come un dirigente rivoluzionario. E’ infine presente Bordiga e la mozione astensionista. Le discussioni che riguardano più da vicino l’Italia si sviluppano attorno a due punti fondamentali: l’espulsione dei riformisti dal partito e la partecipazione alle elezioni parlamentari. Rispetto alla prima questione i dirigenti dell’Internazionale sono profondamente convinti che in Italia si stia avvicinando un momento rivoluzionario e sono guidati dalla preoccupazione di impedire che la frazione riformista di Turati possa immobilizzare dall’interno il partito. La formula proposta è quella di “scindersi da Turati per allearvisi” in un secondo tempo. L’Internazionale ribadisce contemporaneamente la necessità di utilizzare le istituzioni e le elezioni parlamentari per allargare la base di massa del partito, tesi brillantemente spiegata nello scritto di Lenin “L’estremismo malattia infantile del comunismo”. Di fatto si trovano in disaccordo con Serrati e i massimalisti riguardo al primo punto, e con Bordiga e gli astensionisti sul secondo.

Al Congresso non è presente Gramsci e nessuno degli ordinovisti, ma a Mosca sono state inviate le tesi “Per un rinnovamento del partito socialista”che abbiamo citato. Suscitando la uguale indignazione di massimalisti e astensionisti, Lenin le definisce il migliore documento scritto sulla situazione italiana. L’episodio è riportato dallo stesso Gramsci sull’Ordine Nuovo del 21 agosto: “Ecco le parole del compagno Lenin: ‘Per ciò che riguarda il Partito Socialista Italiano, il Secondo Congresso dell’Internazionale comunista trova fondamentalmente giuste le critiche e le proposte pratiche, che sono state pubblicate – come indirizzo della Sezione torinese al Consiglio del Partito Socialista Italiano – nel giornale l’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920 e che corrispondono integralmente a tutti i principi fondamentali della Terza Internazionale. Per queste ragioni il Secondo Congresso della Terza Internazionale prega il Partito Socialista Italiano di convocare al più presto un congresso straordinario’”. Si tratta però di una magra consolazione perché il 30 agosto, con l’occupazione della Romeo a Milano, scocca la scintilla che porta all’occupazione della maggioranza delle fabbriche italiane. Le decisioni dell’Internazionale Comunista non sono ancora conosciute in Italia e già è iniziato un episodio decisivo della lotta di classe di questo paese. Come già anticipato da Gramsci, ci si trova di fronte alla più grande delle vittorie o alla peggiore delle sconfitte.

Settembre 1920: l’occupazione delle fabbriche

“Lo ‘spontaneo’ era la prova più schiacciante dell’inettitudine del partito perché dimostrava la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili” A. Gramsci

La base della dinamica della lotta di classe del biennio ’19-’20 poggia innanzitutto sulla situazione economica disastrosa ereditata dalla guerra. L’Italia in particolare è uno dei paesi più colpiti. L’arretratezza economica si è riflessa prima in una palese inferiorità a calarsi sul terreno militare e poi in una maggiore difficoltà ad uscirne. Nel 1909, l’indice dei prezzi dei beni di prima necessità è pari a 100, nel 1919 è di 480, nel gennaio 1920 è di 637 e a giugno dello stesso anno è di 774, per poi raggiungere quota 832 a settembre. La guerra ha significato anche un’impennata di profitti per le aziende: tra il 1914 ed il 1917 la produzione siderurgica è raddoppiata, i profitti dell’Ilva passano da 30 milioni nel 1916 a 300 nel 1918, quelli della Fiat dai 17 del 1914 ai 200 del 1919. Si tratta di una crescita ampiamente finanziata dal debito pubblico. Con la fine della guerra tutte le contraddizioni che sono state scaricate verso l’esterno del paese ricadono sul fronte interno: il debito è completamente fuori controllo e passa dai 74mila milioni di lire del 1919 agli 86mila milioni del 1920. Contemporaneamente la produzione industriale, privata ormai dello sbocco bellico, subisce una brusca frenata. Ma la classe operaia è tutt’altro che domata. Nel 1919 la curva degli scioperi schizza alla cifra sbalorditiva di 14 milioni di giornate di lavoro perse contro le 600mila dell’anno precedente. Le giornate di lavoro perse saranno addirittura 16 milioni nel 1920.

In questa situazione si fronteggiano un padronato reso sempre più feroce dalla caduta dell’economia e le direzioni sindacali, costrette a posizioni radicali da una base sempre più spostata a sinistra. La vertenza chiave è quella contrattuale dei metalmeccanici, in stallo da almeno tre mesi. I dirigenti sindacali non possono permettersi di cedere, i padroni semplicemente non vogliono. I primi sono portati loro malgrado allo scontro, i secondi lo ricercano coscientemente. A metà agosto si rompono definitivamente le trattative. Buozzi, il segretario della Fiom, racconta: “Quando la delegazione operaia ebbe terminata la confutazione delle affermazioni della delegazione padronale, il capo di questa, avvocato Rotigliano – allora nazionalista e in seguito divenuto fascista – pose fine al contraddittorio con questa dichiarazione provocatoria: ‘Ogni discussione è inutile. Gli industriali sono contrari alla concessione di qualsiasi miglioramento. Da quando è finita la guerra essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta e cominciamo da voi’”. La Fiom risponde dichiarando l’ostruzionismo nelle aziende: gli operai continuano a lavorare ma abbassano i propri ritmi. In diversi stabilimenti la produzione cala anche del 60% in una settimana. La risposta da parte dei padroni è nuovamente la serrata, a partire dalla Romeo di Milano, che i lavoratori trovano chiusa il 30 agosto. Il 31 la occupano. Il Corriere della Sera descrive così la situazione: “Gli ingressi venivano severamente guardati da gruppi di operai. Non l’ombra di un funzionario o d’un agente di forza pubblica. Gli scioperanti erano completamente padroni del campo”. Come un sasso caduto nello stagno, l’occupazione si allarga a cerchi concentrici. Tra l’1 e il 4 settembre si estende a tutti gli stabilimenti metalmeccanici italiani e da metà mese riguarda la maggioranza delle fabbriche del paese. Tutto si svolge nella massima disciplina e in alcune aziende il lavoro viene ripreso sotto la direzione del consiglio di fabbrica. Non si tratta quindi di una vertenza sindacale, ma della rivoluzione. Secondo la Stampa, un fornitore di materie prime chiama la Fiat per avere conferma di una consegna: “Pronto? Con chi parlo?” – “Fiat Soviet” – “Allora scusi sarà per un’altra volta…”.

Le forze della controrivoluzione sono completamente incapaci di fronteggiare la situazione. Sul piano militare l’apparato statale è impotente. Sarebbe necessario mettere una guarnigione di soldati davanti ad ogni azienda. Secondo un calcolo del primo ministro Giolitti le truppe sarebbero sufficienti a presidiare le principali 600 aziende metalmeccaniche. Rimarrebbero a quel punto da fronteggiare 500mila operai. Agnelli insiste per un intervento armato ma quando gli viene chiesto se l’artiglieria debba procedere con il bombardamento delle fabbriche, risponde ovviamente di lasciar stare. I fascisti sono già nati, ma rappresentano ancora un elemento di folklore. Questo stato di impotenza è ben espresso dallo stesso Giolitti che durante tutta l’occupazione delle fabbriche si ritira nella sua casa di villeggiatura a Bardonecchia. L’iniziativa ricade completamente sulle direzioni del movimento operaio: le uniche che possano portare a termine la rivoluzione e le uniche che possano impedirla. Questo è ben compreso anche dai settori più lungimiranti della borghesia. Il direttore del Corriere della Sera in una telefonata riservata suggerisce di dare il potere alla Cgl. A chi gli fa notare che questo significherebbe la rivoluzione risponde che al contrario “per non farla l’unico mezzo è di dare il potere alla Confederazione del lavoro”.

Dietro le frasi incendiarie, le direzioni del movimento operaio non possono e non vogliono offrire alcune direttiva pratica ai lavoratori in lotta. La direzione riformista della Cgl ha sempre chiarito di non volere la rivoluzione. La sua posizione politica si fa addirittura paradossale quando il 4 settembre delibera che si procederà alla socializzazione dei mezzi di produzione se non vengono accolte le richieste sindacali. Una posizione che viene canzonata dal Corriere della Sera: “farete dunque la rivoluzione come rappresaglia al mancato accoglimento di rivendicazioni salariali di una categoria di lavoratori?”. I massimalisti sanno solo far piovere proclami sulla testa dei lavoratori. Nei volantini del Psi si leggono spesso frasi del tipo: “l’ora è vicina” o “si avvicina lo scontro decisivo”. La direzione della Fiom occupa tutte le proprie energie a cercare di riaprire le trattative piuttosto di spendersi per la vittoria della lotta. I lavoratori sono quindi “incastrati” all’interno delle proprie stesse aziende. All’interno degli stabilimenti sono i padroni, ma nessuno è in grado di organizzare una sortita verso l’esterno. Gramsci indica correttamente cosa andrebbe fatto: spostare la battaglia in altri campi, dirigere “le forze operaie contro le vere centrali del sistema capitalistico: i mezzi di comunicazione, le banche, le forze armate, lo Stato”. Ma ancora una volta, come spiegherà nel 1924, deve scontrarsi con la mancanza di “una frazione che avesse ramificazioni in tutto il paese; così nel 1920 non osammo organizzare un centro urbano e regionale dei Consigli di fabbrica che si rivolgesse, come organizzazione della totalità dei lavoratori piemontesi, alla classe operaia e contadina italiana al di sopra e, occorrendo, contro le direttive della Confederazione Generale del Lavoro e del Partito Socialista”. Manca quindi una direzione alternativa e questa non può essere semplicemente improvvisata nella lotta.

A metà settembre le direzioni del movimento operaio compiono il loro definitivo atto di viltà. La direzione Cgl vota un ordine del giorno in cui nega la necessità della rivoluzione e rassegna le proprie dimissioni, lasciando campo libero al Psi. Il Psi a sua volta non ritiene di poter procedere senza l’appoggio della Cgl. E’ un gioco di scarica barile che porta dritto alla sconfitta. Il Governo riapre le trattative con grosse concessioni sulla rappresentanza dei Consigli, mentre i lavoratori sono costretti a smobilitare a partire dal 20 settembre, presi dalla stanchezza e dalla delusione.

L’Ordine Nuovo ha sospeso ancora una volta le pubblicazioni durante il mese di mobilitazione. Il primo numero che esce ad ottobre non può nascondere la sconfitta. La prima pagina è composta da un breve editoriale in cui Gramsci scrive: “La nostra critica al partito e ai sindacati, l’uno e gli altri paralizzati dal verbalismo demagogico e dall’arteriosclerosi burocratica, ancora una volta purtroppo, ha avuto conferma dagli avvenimenti”. A fianco di queste considerazioni il solito editoriale politico generale è significativamente sostituito da un articolo di Trockij dal titolo: “Soviet, partito, sindacati”. Se la sconfitta è chiara da subito, ancora non ne può essere chiara la portata.