
Sulla pianificazione economica e la democrazia rivoluzionaria
Il crollo del cosiddetto socialismo reale ci ha lasciato un cumulo di detriti e di macerie, che giocano forse un ruolo storico ormai residuale. Smaltirli per liberare la via all’alternativa rivoluzionaria si è rivelato però tutt’altro che facile.
Sono detriti composti da una miscela tossica di distorsioni, falsità, luoghi comuni conficcatisi in profondità nell’immaginario collettivo. Tra questi c’è l’idea che il socialismo sia sinonimo di statalismo: una società in cui lo Stato, per di più pensato a immagine e somiglianza di quello attuale, tutto sovrasta e tutto inghiotte.
È l’idea di un’economia dominata da una macchina burocratica, che sarebbe in grado di garantire alti livelli di assistenza sociale e occupazione solo combinandoli – non si sa per quale iattura storica – con un forte culto del leader, un discreto grado di sorveglianza poliziesca e una enorme difficoltà a sviluppare una economia di tipo complesso.
Non sarebbe un tipo di società pur sempre preferibile a quella attuale? Come se si trattasse di gusti, di scegliere tra le miserie del dominio del capitale o di una sorta di collettivismo burocratico.
Simile alternativa semplicemente non esiste. Grande capitale e burocrazia statale non sono poli opposti del processo storico. La pervasività della macchina statale nei paesi stalinisti era dovuta alla persistenza dei meccanismi della società divisa in classi, non del loro superamento. Era segno del mancato sviluppo del socialismo e allo stesso tempo chiave per il ritorno al capitalismo.
Lungi da essere il gendarme d’acciaio a guardia della proprietà pubblica, la burocrazia statale cresciuta all’ombra del cosiddetto socialismo reale ha saputo integrarsi perfettamente con la piena restaurazione del capitalismo. Nel caso cinese addirittura il ritorno al mercato non ha avuto bisogno al momento nemmeno di cambiare le forme estetiche del potere.
Così prospettava Trotsky nella Rivoluzione Tradita, riguardo al possibile trionfo in Urss di un partito borghese:
“Se (…) un partito borghese rovesciasse la casta dirigente sovietica, troverebbe non pochi servitori tra i burocrati attuali, tra i tecnici, tra i direttori, tra i segretari del partito, tra i dirigenti in generale. (…) Il principio della pianificazione [dell’economia – Ndr] si trasformerebbe nei primi momenti in compromessi tra il potere statale e le singole ‘corporazioni’ cioè i capitani dell’industria sovietica quali suoi proprietari potenziali, i vecchi proprietari emigrati e i capitalisti stranieri. (….)”.[1]
Continuava, poi, vagliando l’ipotesi che la nuova classe capitalista emergesse dalla stessa burocrazia:
“Ammettiamo una terza ipotesi, cioè che né il partito rivoluzionario né il partito controrivoluzionario si impadroniscano de potere. La burocrazia resta alla testa dello Stato. Anche in queste condizioni l’evoluzione dei rapporti sociali non si ferma. (…) Se essa [la burocrazia – Ndr] ha già ritenuto possibile, malgrado gli inconvenienti evidenti di questa operazione, ristabilire i gradi e le decorazioni, in seguito dovrà inevitabilmente cercare un appoggio nei rapporti di proprietà. (…) Non basta essere direttore di un trust, bisogna esserne azionista. La vittoria della burocrazia in questo settore decisivo ne farebbe una nuova classe possidente”.[2]
Il punto è che né in Urss né ancora meno in Cina la restaurazione del capitalismo è avvenuta prendendo lo Stato e la società dall’esterno. I meccanismi della restaurazione del capitalismo si sono alimentati dall’interno. Si sono nutriti dei malfunzionamenti dell’economia socialista pianificata, della burocratizzazione dello Stato e delle diseguaglianze di reddito e di potere che ne sono derivate.
Torniamo alla nostra fantomatica alternativa. Non c’è scelta tra una società dominata dal grande capitale e una ipoteticamente dominata da una sorta di statalismo spinto. Quest’ultimo può confliggere con i capitalisti per un periodo. Ma non può superare il capitalismo nel complesso. Soccombe al capitale, lo rigenera, vi si accorda per nuovi equilibri. Giammai può sconfiggerlo.
Senza la sostituzione della macchina statale con un nuovo potere basato sulla democrazia dei consigli, il socialismo semplicemente non esiste. Non si tratta nemmeno qua di gusti, di scegliere tra regimi politici più o meno libertari. La democrazia consiliare è uno degli ingranaggi fondamentali nella costruzione di una economia pianificata. E’ precisamente il punto che vogliamo sottolineare.
La macchina statale e il capitalismo
Nel gioco distorto dei luoghi comuni e della propaganda liberista, il mercato capitalista e lo Stato appaiono come fattori alternativi. Così non è. Essi raggiungono il culmine insieme e insieme devono cadere.
La storia è storia di lotta di classe. E la storia della società divisa in classi è la storia del sorgere e del rafforzamento dell’apparato burocratico statale. Il capitalismo, come ultimo stadio della società divisa in classi, non coincide con un alleggerimento dello Stato, ma con un suo rafforzamento. Nessuna società umana ha mai conosciuto un simile accentramento di potere, di potenziale inquadramento di uomini nella macchina militare e amministrativa. Compito del socialismo non è sublimare questa tendenza storica, ma romperla, invertirla.
Scrive Lenin in Stato e Rivoluzione, riprendendo direttamente le analisi di Marx ed Engels:
“Il potere statale centralizzato, proprio della società borghese, apparve nel periodo della caduta dell’assolutismo. Le due istituzioni più caratteristiche di questa macchina statale sono: la burocrazia e l’esercito permanente. Marx ed Engels parlano molte volte, nelle loro opere, dei mille legami che collegano queste istituzioni appunto con la borghesia. (…) La burocrazia e l’esercito permanente sono dei “parassiti” sul corpo della società borghese, parassiti generati dalle contraddizioni interne che dilaniano questa società, ma parassiti appunto che ne “ostruiscono” i pori vitali. (…) Questo apparato burocratico e militare si sviluppa, si perfeziona e si rafforza attraverso le numerose rivoluzioni borghesi di cui l’Europa è stata teatro dalla caduta del feudalesimo in poi”.[3]
E ancora:
“L’imperialismo – epoca del capitale bancario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato – mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico militare”.[4]
Le contraddizioni interne alla società spingono a una continua crescita della spesa statale. Lo Stato leggero, l’amministrazione a buon mercato, sono nel capitalismo pura utopia, non più che desideri da enunciare in qualche convegno liberista, propaganda di bassa lega. Attorno al 1870 la spesa pubblica media nei principali paesi capitalisti ammontava a circa il 10% del Pil, per raggiungere il 46% nel 1996. Il grosso di questa crescita avviene dal 1960 in poi[5]. In parte deriva dalle concessioni strappate in quel periodo dai lavoratori in termini di stato sociale. Ma come sappiamo tali concessioni vengono ridimensionate, e poi quasi azzerate, a partire dalla fine degli anni ’70. Il peso dello Stato borghese non è per questo venuto meno.
Socializzazione e pianificazione
Il capitalismo ha legato l’intera umanità in un unico processo produttivo, dove miliardi di persone sono vincolate l’una all’altra da legami per lo più invisibili ma indissolubili.
Ma il carattere sempre più esteso e sociale del processo produttivo cozza ogni giorno di più con la natura privata e sempre più concentrata della proprietà del capitale e dei mezzi di produzione. A sua volta il sorgere del monopolio capitalista ha permesso a enormi colossi multinazionali di arrivare a controllare e pianificare soggettivamente le sorti di interi comparti dell’economia. Ma questo lungi da introdurre forme di razionalità e pianificazione del mercato, lo ha reso ancora più irrazionale e fuori controllo.
Per dirla con le parole di Engels:
“Abbiamo visto che il modo di produzione capitalistico si inserì in una società di produttori di merci, di produttori individuali, il cui nesso sociale era determinato dallo scambio dei loro prodotti. Ma ogni società fondata sulla produzione di merci ha questo di particolare: che in essa i produttori hanno perduto il dominio sui loro rapporti sociali. Nessuno sa in quale quantità del suo articolo arriva al mercato, né in generale quale quantità ne è richiesta (…). Domina l’anarchia della produzione sociale. (…)
(…) Ma il principale strumento con cui il modo di produzione capitalistico accresceva questa anarchia della produzione sociale era precisamente l’opposto dell’anarchia: era la crescente organizzazione della produzione, in quanto produzione sociale, in ogni singola azienda produttiva. (…) La contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si presenta ora come antagonismo tra l’organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l’anarchia della produzione nel complesso della società”.[6]
Lo sviluppo dei cartelli, di grandi monopoli capitalisti, spinge al massimo la capacità del capitale di determinare l’andamento di settori dell’economia. Ma questo non elimina la concorrenza tra i diversi produttori. Tende semplicemente le forze produttive allo spasmo, con conseguenze sempre più disastrose, non solo economiche ma sociali, ambientali, sanitarie. Con le proprie scelte un colosso capitalista non determina potenzialmente il fallimento di questa o quella impresa economica, ma è in grado di gettare nel caos l’intero globo terrestre.
Da un lato socializzazione della produzione, dall’altro proprietà privata dei mezzi di produzione e ricchezza sempre più concentrati; da un lato pianificazione delle scelte economiche esercitata da enormi colossi capitalisti e dall’altro incontrollabilità di un mercato sempre più gigantesco e fuori controllo: questi due poli del processo storico, il passato ereditato e il futuro in gestazione, dilaniano la società presente.
Lo Stato borghese è chiamato a intervenire in mezzo a queste convulsioni. Entro certi limiti tenta di dare al capitalismo quella pianificazione che il mercato capitalista non sa darsi.
Ma ogni piano è legato intimamente al fine che lo guida. E il fine, all’interno di una società di mercato, è l’accumulazione e la riproduzione del capitale, la massimizzazione del profitto. L’intervento dello Stato borghese è quindi finalizzato a permettere la continuazione delle contraddizioni del meccanismo capitalista, non la loro correzione. È come benzina pompata in un motore che gira al contrario: ad ogni nuovo pieno la società si trova trasportata in un nuovo stato di crisi e di caos accresciuto.
L’intervento dello Stato borghese non “corregge” le contraddizioni del capitalismo, semplicemente le prolunga e le rende più stridenti. Attraverso le mille leve della spesa pubblica realizza una immane socializzazione delle perdite, spingendo così il capitale oltre i propri limiti. Ne deriva una inesorabile crescita del debito pubblico, il quale conferisce allo Stato una doppia parte in commedia: esso è il prestatore di ultima istanza del grande capitale, sempre pronto a foraggiarne le perdite e a rilevarne i fallimenti, ma è anche il suo primo debitore. Lungi da impedire la finanziarizzazione dell’economia e la sua deriva speculativa, lo Stato stesso diventa un prodotto finanziario su cui il grande capitale può guadagnare e speculare.
Ma non vogliamo entrare qua nei dettagli di questo meccanismo. Quello che ci interessa rilevare è come la crescita del peso dello Stato sia entro certi limiti uno dei sintomi che la società è giunta a un grado di sviluppo delle forze produttive in cui non può più vivere senza un piano. Ma ogni elemento di supposta pianificazione dell’economia capitalista, lungi da alleviare i problemi, genera solo un livello di maggiore contraddizione.
Il dualismo di potere
Nel capitalismo non si producono scarpe, vestiti, cibo o altro. Si producono profitti. Il bisogno del capitale di accrescersi è il punto di partenza e di arrivo dell’intero movimento economico. L’intero meccanismo produttivo sociale è l’effetto collaterale.
Non può esistere alcuna pianificazione sociale dell’economia se i mezzi di produzione sono incatenati ai bisogni della proprietà privata. E per rompere con i rapporti di proprietà, è necessario affossare lo Stato che ne è a guardia, sostituirlo con un nuovo potere politico, che non nasce dal nulla né per decreto. Si basa sugli istituti di lotta che si sono creati in opposizione alla vecchia società, durante lo stesso processo rivoluzionario.
La forza di un processo rivoluzionario è tale da trasformare organismi di lotta o addirittura anche solo di rappresentanza della classe oppressa in nuovi organismi di potere. Non di rado, quando la classe rivoluzionaria entra in fibrillazione inizia a premere per dirigere la società. In alcuni casi, per ironia del processo storico, può arrivare a impossessarsi anche dei canali posticci di rappresentanza che la vecchia società le aveva riservato.
Il primo Soviet di San Pietroburgo non fu inizialmente nient’altro che un comitato formato dai delegati eletti dalle aziende per preparare e coordinare lo sciopero generale. L’idea di eleggere delegati e riunirli in un unico coordinamento era stata mutuata da una iniziativa paternalistica adottata dallo zarismo in precedenza per dare l’impressione ai lavoratori di avere una qualche forma di rappresentanza.
Così invece l’Ordine Nuovo di Gramsci si approcciava al problema delle commissioni interne, elette nelle fabbriche:
“Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra di loro questi istituti, coordinarli (…) significa creare già fin d’ora una vera e propria democrazia operaia in contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese. (…) Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica (….). Sviluppate e arricchite dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e amministrazione.”[7]
Da organismi di lotta e di rappresentanza i consigli diventano quindi lo strumento attraverso cui organizzare il nuovo potere. Se l’espropriazione e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione sottraggono i mezzi di produzione al ciclo capitalista, la democrazia dei consigli è lo strumento attraverso cui il piano economico può essere elaborato, applicato, corretto. In mancanza di tale livello di democrazia consiliare, l’intera economia pianificata si dimena in una serie di contraddizioni apparentemente banali quanto insolubili.
Piano e partecipazione
Nella sua fase terminale il capitalismo è dominato dal mercato finanziario. Anche in questo campo grandi banche e istituti finanziari hanno sviluppato posizioni di monopolio. L’intera contabilità del sistema produttivo è nelle mani di questi colossi. Una volta espropriati, tale contabilità “concentrata” è uno strumento potenzialmente formidabile per permettere alla società di conoscere le risorse a disposizione e allocarle. Ma comunque è di per sé ancora insufficiente a realizzare il piano economico socialista.
La stessa pianificazione dei gruppi capitalisti si scontra con un ulteriore problema interno allo stesso processo aziendale. La concentrazione della proprietà, tra l’altro nelle mani di grandi istituti finanziari, e l’enorme estensione del processo produttivo hanno teso al massimo la distanza tra l’elaborazione delle scelte direttive e la concretezza della produzione.
Mai come oggi agli occhi della piramide capitalista il processo di riproduzione del capitale appare come un flusso di numeri, dividendi, valori azionari, guadagni, perdite, ammortamenti senza alcuna relazione con il processo materiale della produzione di beni.
Il capitale esorcizza questa distanza affidandosi a manager in cui ripone la stessa fiducia salvifica che una tribù di primitivi riponeva in un qualche idolo sacro. E a maggiori difficoltà la tribù aumenta il valore dei sacrifici sull’altare dell’idolo. Così assistiamo alla spettacolare crescita delle retribuzioni e dei buoni uscita dei manager, senza che questa trovi in verità alcuna giustificazione razionale nella gestione stessa dell’azienda. Le retribuzioni dei top manager sono cresciute del 1000% negli ultimi 40 anni, arrivando ad essere 278 volte lo stipendio di un dipendente medio[8].
La pianificazione aziendale capitalista ha poi perfezionato al massimo la rete di tecnici, l’area logistica e naturalmente i mezzi informatici. Lo sviluppo della rete e la connessione delle diverse macchine permettono in teoria di conoscere in tempo reale l’andamento produttivo. Anche in questo caso, così come in quello della contabilità dei grandi istituti finanziari, ci troviamo di fronte a strumenti potenzialmente formidabili se messi a disposizione di un piano sociale complessivo.
Il flusso di dati però non va solo raccolto. Va capito, conosciuto e incrociato con la conoscenza concreta della produzione. Nemmeno tale rete di tecnici e di informazioni è in grado di penetrare fino in fondo le problematiche produttive e di conseguenza correggerle. E questo avviene per un motivo semplice. Il soggetto concretamente protagonista dell’attività, il lavoratore, è espropriato sia del possesso dei mezzi di produzione sia del potere direttivo e decisionale.
La possibilità di applicare un piano, di precisarlo, di articolarlo in una serie di dettagli vitali, di raccogliere informazioni e correggerlo, non è una questione puramente tecnica. Alla tecnica si deve sommare un fattore squisitamente politico e sociale: la possibilità dei lavoratori, coloro che applicano il piano, di metterlo in discussione, elaborarlo, precisarlo. Insieme a tale potere decisionale emerge una crescente consapevolezza e interesse nella propria attività lavorativa, una capacità di collocarla in una visione di insieme e di farla interagire con il piano complessivo.
Ad un certo grado di sviluppo lo stesso capitalismo è costretto ad ammetterlo implicitamente.
La rigida organizzazione del lavoro della catena di montaggio fordista lascia spazio al cosiddetto toyotismo. Nella misura in cui il toyotismo si pone teoricamente l’obiettivo di correggere nel tempo più rapido possibile il piano aziendale e di dar vita a un miglioramento continuo in grado di aggredire sprechi e inerzie, esso deve anche aprire a forme di “partecipazione” dei lavoratori. Non stiamo parlando di una vera “partecipazione”, ma di un suo simulacro grottesco. Si incentivano riunioni con le “maestranze”, l’invio di lettere e suggerimenti da parte degli operai e la loro responsabilizzazione nella segnalazione di problemi tecnici e qualitativi.
Ma complessivamente il lavoratore è chiamato a contribuire a intensificare il proprio sfruttamento. Non solo non ha alcuna possibilità di determinare le finalità della produzione, ma nemmeno le direttive aziendali essenziali. Può solo favorirne l’applicazione. Spinto al suo estremo, il toyotismo sbocca nel massimo stress lavorativo. L’ultima ruota del carro è chiamata ipocritamente a farsi carico di decisioni e processi che non controlla, di mansioni che non gli spetterebbero. La funzione di tecnico, manutentore, controllo qualità, gestione dati vengono scaricate sull’operaio a cui è chiesto di sostituire in sedicesimi altre figure professionali. Naturalmente senza abbassare il proprio ritmo produttivo. La tecnologia non elimina tale stress: lo rende solo tecnicamente possibile e maggiore.
In altri modelli organizzativi capitalisti, il contributo dei lavoratori viene ricercato attraverso le loro organizzazioni. Istituti come la partecipazione dei sindacati tedeschi ai consigli di amministrazione o i comitati aziendali francesi paritetici non hanno solo un effetto sui vertici sindacali, ma tendono a cascata ad aumentare la compenetrazione dell’intera struttura sindacale con quella aziendale. L’apparato sindacale finisce per affiancare l’ufficio risorse umane nella gestione delle ristrutturazioni, nell’applicazione delle scelte aziendali o anche banalmente nella trasmissione al corpo dei lavoratori delle volontà della proprietà.
In un certo senso anche così il capitale è costretto ad ammettere che il processo produttivo necessita, seppur nella sua forma più burocratica e distorta, di istituti di democrazia operaia.
Con tale partecipazione operaia posticcia alla produzione, l’azienda non prova solo a dotarsi di maggiori occhi per verificare le proprie stesse direttive. Tenta anche di risolvere il problema dello stimolo e l’incentivo a produrre. Il lavoratore, che non possiede l’azienda, che verrà scaricato alla prima congiuntura di mercato sfavorevole, che riceve una parte infima della ricchezza da lui prodotta, viene convinto della propria importanza attraverso ogni genere di artifici. Non si chiama operaio, ma operatore. E non è un operatore qualsiasi. E’ un team-leader e in quanto tale viene interpellato dai capi.
Ma nessuna di queste “finzioni” può reggere alla lunga. Il lavoratore rimane pur sempre un salariato e il salario lo scopo principale della sua attività. Tali misure si alternano perciò a incentivi economici alla produzione. Essi possono arrivare sotto forma di premi individuali, premi produzione o nella più classica forma del cottimo: tanto produci, tanto guadagni.
Incentivi “morali” e incentivi materiali si combinano o si alternano così nel tentativo disperato di legare il lavoratore a un processo produttivo che non gli appartiene e che egli non determina.
Ed è disdicevole, ma non un caso, che questo binomio abbia attraversato anche le economie a socialismo reale: uno dei tanti sintomi dell’incapacità del socialismo burocratico di superare le contraddizioni ereditate dal capitalismo.
Nuovo potere politico e democrazia dei consigli
Non entriamo qua nelle cause che portarono alla degenerazione della Rivoluzione sovietica. Basti dire in questa sede che tale degenerazione soffocò gli istituti di democrazia consiliare, sovietica, nati nel 1917.
La rivoluzione jugoslava, cinese e cubana si diedero come risultato di guerriglie vittoriose. Non vi fu alcuna fase “consiliare”. Il nuovo Stato, pur privo di legami con la borghesia, nacque come risultato dell’insediamento di eserciti guerriglieri vittoriosi. Questo si rivelò sufficiente a procedere alla nazionalizzazione dell’economia, ma inefficace nella costruzione di una genuina economia socialista.
Lo Stato che sorge da una rivoluzione socialista vittoriosa ha alcune funzioni vitali, tra cui la difesa dai tentativi di ritorno della vecchia classe dominante. Si tratta di una funzione militare ma anche sociale. La borghesia può tornare con un’invasione o con un colpo di mano. O si può semplicemente rigenerare.
La società ereditata dal vecchio sistema capitalista porta con sé tutte le disuguaglianze. L’espropriazione dei principali colossi capitalisti e del sistema bancario taglia la testa al meccanismo borghese, ma in basso le differenze di classe continuano ad operare. Lo squilibrio della ricchezza, la diversa accumulazione di credito, permettono ancora la riattivazione del ciclo capitalista e la rinascita dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Per questo una delle prime funzioni del nuovo Stato operaio è quello di salvaguardare l’uguale distribuzione della ricchezza prodotta, non come principio della nuova società ma come strumento di difesa contro il risorgere della vecchia. Così spiega Lenin:
“Così, nella prima fase della società comunista (comunemente chiamata socialismo) il “diritto borghese” non è completamente abolito, ma solo in parte, soltanto nella misura in cui la rivoluzione economica è compiuta, cioè per quanto riguarda i mezzi di produzione. (…) Ma esso sussiste nell’altra sua parte, sussiste quale regolatore (fattore determinante) della distribuzione dei prodotti fra i membri della società. (…) ciò non è ancora il comunismo, non abolisce il “diritto borghese” che attribuisce a persone disuguali e per una quantità di lavoro disuguale (di fatto disuguale) una quantità uguale di prodotti. (…) Rimane perciò la necessità di uno Stato che mantenendo comune la proprietà dei mezzi di distribuzione mantenga l’uguaglianza del lavoro e l’uguaglianza della distribuzione dei prodotti.”[9]
La distribuzione uguale dei frutti del lavoro tra persone disuguali non è quindi un principio comunistico ma il freno necessario, in una società completamente pervasa dalla disuguaglianza economica, al ritorno del meccanismo capitalista. In un certo senso il socialismo si muove dall’uguaglianza ad una disuguaglianza di tipo superiore: da ognuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni. Tuttavia si tratta di una disuguaglianza basata sull’abbondanza armoniosa e il libero sviluppo degli individui, non sull’arricchimento di una minoranza della società ai danni dell’intera vita terrestre.
Visti i compiti che deve assolvere, la struttura di cui si dota il nuovo Stato non è neutrale. Non è indifferente se è composta da un apparato permanente e fossilizzato di funzionari civili e militari o da una struttura di consigli che si affidano a funzionari a rotazione, eleggibili e revocabili.
Sul terreno militare, il nuovo potere politico ha bisogno di organizzare una classe che è maggioritaria contro una minoranza di sfruttatori. Non vi è quindi bisogno di un esercito permanente, gerarchizzato, composto da una casta staccata dalla vita civile. Simile casta rischierebbe prima o poi di cercare di accordarsi nuovamente con la classe dominante per mantenere i propri privilegi.
Nella misura in cui il nuovo potere politico si pone l’obiettivo di salvaguardare l’uguale distribuzione della ricchezza, esso ha bisogno di un potere diffuso. Se tutti sono potenzialmente funzionari, è più difficile che una minoranza approfitti della propria posizione per accaparrare per sé una quota maggiore della ricchezza distribuita dal nuovo Stato.
Il nuovo potere ha dunque bisogno della democrazia operaia per sviluppare a pieno la pianificazione sociale dell’economia. Come più volte ripetuto, un piano economico sociale non può funzionare completamente senza la totale sovrapponibilità tra il carattere pubblico dei mezzi di produzione, l’appropriazione sociale della ricchezza e il potere politico dei lavoratori di determinare democraticamente il fine e l’applicazione del piano.
Pianificazione burocratica
Sprovvista di istituti di democrazia operaia, la pianificazione burocratica incappa in una serie di problematiche. Esse appaiono inizialmente come il risultato degli squilibri adottati dalla precedente economia o derivate dall’inesperienza iniziale. In un certo grado lo sono. Il meccanismo economico deve inoltre scontrarsi con una serie di problematiche. Espropriando i mezzi di produzione, si rescindono i legami con il resto del mondo capitalista. Va ricostituita l’intera filiera produttiva, la quale all’inizio deve vivere in una sorta di ristrettezza autarchica. Il boicottaggio internazionale dei capitalisti obbliga a provare a produrre tutto “in casa”.
In seguito, con lo stabilizzarsi dell’economia pianificata burocratica, inefficienze e squilibri appaiono apparentemente inspiegabili: diventano nodi sempre più stretti e inestricabili che finiscono per soffocare l’intero processo economico.
Nel mercato capitalista i rapporti tra i diversi produttori emergono a posteriori, in forma cieca. Quando un prodotto rimane invenduto significa che esso non ha risposto ai bisogni sociali. Forse è in eccedenza o per la sua scarsa qualità o perché reso obsoleto da altri tipi di prodotti. Naturalmente nel capitalismo non parliamo di bisogni assoluti, ma di quelli solvibili dalla capacità di acquisto del mercato stesso.
Ma come misurare l’efficacia della divisione del lavoro in una società in cui quantità e qualità dei prodotti vengono stabilite da un piano?
In una certa misura e in un primo periodo continuano a funzionare alcuni meccanismi del mercato. Il gioco dei prezzi e la valuta continuano inizialmente ad essere indicatori fondamentali per misurare l’efficacia di una scelta economica. La burocrazia stalinista reagì spesso agli insuccessi del piano economico truccando i suoi indicatori. I prezzi venivano decisi amministrativamente senza alcuna aderenza alla realtà: così un prodotto che veniva venduto a un prezzo altamente accessibile sulla carta in pratica era irreperibile.
Il valore della moneta veniva modificato arbitrariamente, modificando così il valore delle risorse allocate nei diversi comparti. Con la stessa efficacia di chi nega la febbre modificando la scala del termometro, il piano perdeva così sempre più aderenza con la realtà.
Questa pratica fu sottoposta in seguito a critica anche da economisti di ispirazione stalinista o maoista. Fu individuata come la causa principe dei problemi, che però non cessarono.
Nel socialismo burocratizzato il rendimento del lavoro viene mangiato da due tarli. Da un lato il piano burocratico, calato nella realtà senza la possibilità di essere corretto dalla democrazia operaia, produce a livello periferico enormi sprechi.
Fino a che si tratta di decidere relativamente all’industria militare o pesante, il piano centrale burocratico trova una discreta corrispondenza con la realtà. Eppure tanto più l’economia si sviluppa nel dettaglio, tanto più le direttive si scontrano con crescenti malfunzionamenti: macchine senza pezzi di ricambio, materie prime scarse o in eccesso ecc.. In altre parole, ore di uomo-lavoro vanno perse perché non si trasformano in una quantità di valori d’uso fruibili dalla società. L’Urss manda il primo uomo in orbita nello spazio ma non riesce ad eliminare le code per acquistare un elettrodomestico.
In secondo luogo, il lavoratore privato dell’effettivo potere politico e decisionale sul processo produttivo non acquisisce un grado differente e più consapevole di attaccamento al lavoro. Lo stimolo dell’individuo alla produzione deve essere ripristinato tornando così ai vecchi metodi capitalisti. Si stabilisce una serie di incentivi morali che rasentano il vero e proprio volontarismo. E visto che, anche in questo caso, tali incentivi rimangono simulacri ipocriti di partecipazione, essi alla lunga falliscono nel proprio obiettivo: si deve reintrodurre quindi un numero crescente di incentivi materiali.
L’alternativa tra incentivi morali e materiali alla produzione mostra due scuole di pensiero che attraversano e in alcuni momenti dividono la casta burocratica.
Le correnti burocratiche che provano a resistere alla restaurazione del capitalismo denunciano il rischio che i crescenti incentivi materiali, e la differenziazione salariale che ne deriva, finiscano per riattivare il meccanismo capitalista. Non è un caso che ad un certo punto tali correnti finiscano anche per sostenere, unitamente agli incentivi morali alla produzione, la reintroduzione di qualche forma di democrazia consiliare.
Ma nella misura in cui la burocrazia si è cristallizzata come casta incapace di cedere i propri privilegi, tali esperimenti di “democrazia” finiscono in farsa o in tragedia. Fu così con gli organismi pensati dal Che[10], con le comuni maoiste e ancora peggio con il modello di autogestione jugoslava che diventò un vero e proprio volano per la reintroduzione del capitalismo e la frantumazione dell’intero tessuto sociale.
Le correnti burocratiche che spingono per gli incentivi materiali sostengono al contrario che essi siano lo strumento migliore per alzare il rendimento del lavoro e assicurarsi che il piano sia svolto efficacemente.
Entrambe hanno ragione ed entrambe torto perché l’intero dibattito si muove all’interno di un campo dove il problema non ha soluzione.
Se alcuni meccanismi di mercato continuano a funzionare in un primo periodo del socialismo, compreso l’interesse egoistico e individuale all’arricchimento, essi devono essere limitati, affiancati e poi superati dalla pianificazione cosciente dove domanda, offerta, innovazione, correzioni, sprechi si presentino come risultato della volontà sociale. E tale volontà è nulla senza gli strumenti perché si possa sviluppare.
Non stiamo parlando di strumenti meramente tecnici: contabilità centralizzata, flussi dati, rete della logistica, connettività, algoritmi ecc. Tali meccanismi sono oggi infinitamente più avanzati e renderebbero la pianificazione economica ancora più semplice. Stiamo parlando di strumenti di direzione.
Ma un piano è nulla senza un fine. E le finalità di un piano, la sua correzione per successive approssimazioni, la sua applicazione, appartengono alla capacità della classe di dare una direzione alla società.
Tale capacità è impossibile se non si basa sulla più ampia partecipazione della classe stessa attraverso i suoi istituti di democrazia diretta.
Non si tratta solo di produrre di più per estirpare definitivamente povertà e miseria, che già di per sé non sarebbe poco. Si tratta di produrre diversamente, meglio. Un piano socialmente indirizzato è destinato a modificare l’intero spettro di bisogni sociali: i robot per sollevare l’uomo dalla fatica e non per massimizzare di qualche millisecondo il ciclo della catena di montaggio, i mezzi di trasporto collettivi e non la corsa a ingolfare il mondo di auto private, i trasporti di merci quando strettamente necessari e non per collocare la produzione a migliaia di chilometri di distanza solo per pagare meno un essere umano, i prodotti tecnologici pensati per durare il più possibile ed essere riparati con gran risparmio di materie prime, l’acquisto come soddisfazione di un bisogno di vita migliore e non come shopping compulsivo per riempire una misera vita ecc…
E’ per noi anche solo impossibile immaginare la quantità di passaggi che dovranno essere ripensati, di fili che dovranno essere recisi e riannodati. La classe organizzata in nuovo potere politico avrà questa possibilità. E se il capitalismo non ha altro obiettivo che produrre profitti, il socialismo non avrà altro effetto che produrre una nuova umanità.
Note:
[1] TROTSKY LEV, “La rivoluzione Tradita”, pag. 287, Edizione Ac Editoriale
[2] Op. Cit. p. 297-298
[3] LENIN V.I., Stato e Rivoluzione, pp. 88-89. Edizione Editori Riuniti 1970
[4] Op. Cit. p. 92
[5] TANZI, SCHUKNECHT, La spesa pubblica nel XX secolo, Firenze University Press
[6] ENGELS F., L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, pp.107-110
[7] Democrazia Operaia, L’Ordine Nuovo, 21 giugno 2019.
[8] https://www.wallstreetitalia.com/gap-salari-stipendi-ceo-1-000-in-40-anni-ora-guadagnano-278-volte-piu-dei-dipendenti/
[9] LENIN, Op. Cit, pp.169-170
[10] Rimandiamo alla lettura del nostro contributo “Il Che, lo stalinismo e la democrazia operaia” https://marxpedia.org/2018/09/24/il-che-lo-stalinismo-e-la-democrazia-operaia/