
“E’ finita la sbornia. Finito il chiasso patriottico nelle strade (…). Le colonne dei riservisti non vengono più accompagnate dal chiassoso entusiasmo di un codazzo di ragazze; (…) risuona un altro coro: quello rauco degli avvoltoi e delle iene del campo di battaglia. (…) La carne da cannone caricata sui treni (…) e patriotticamente esaltata, imputridisce ora (…) in campi di morte sui quali il profitto passa la sua falce inesorabile. (…) Svergognata, disonorata, sguazzante nel sangue, grondante di sudiciume, ci sta dinnanzi la società borghese, così è veramente.”
Rosa Luxemburg
L’inverno del 1916 fu il più rigido di tutta la guerra. La primavera del 1917 annunciò invece il risveglio di una nuova epoca. Alla rivoluzione russa di febbraio fecero eco i primi scioperi di alcune città europee. Da Torino a Berlino, il proletariato provava a lasciarsi dietro il tradimento dei propri dirigenti e a rimettersi sulle gambe per uscire dall’incubo della prima guerra mondiale.
A Berlino si era sviluppata una struttura sindacale clandestina nelle aziende metallurgiche, i cosiddetti “delegati rivoluzionari”. Si trattava di una frazione creatasi al momento della dichiarazione da parte dei dirigenti sindacali della pace civile in nome della guerra. I delegati rivoluzionari controllavano l’assemblea dei metallurgici di Berlino ed avevano il proprio punto di riferimento principale nel responsabile sindacale dei tornitori Richard Muller. Proprio quest’ultimo fu arrestato il 13 aprile dalle autorità con l’accusa di attività sindacale clandestina. A questo si aggiunse due giorni dopo l’annuncio di un’ulteriore diminuzione dalla razione settimanale di pane da 1900 a 1450 grammi. Il combinarsi di questi due fattori determinò il primo grande sciopero dall’inizio della guerra: il 16 aprile scesero in sciopero a Berlino 300mila metallurgici. Il movimento si estese a Lipsia dove fu eletto anche un consiglio operaio. Quando il 17 venne liberato Richard Muller, i dirigenti sindacali invitarono ovunque a riprendere il lavoro, ricevendo il rifiuto di alcune assemblee di officina. Lo sciopero si spense effettivamente il giorno dopo con l’arresto degli attivisti più in vista. Il ghiaccio in ogni caso era rotto. Il primo sciopero significativo aveva mostrato alcune dinamiche che avrebbero accompagnato il movimento operaio tedesco per tutta la successiva fase. Gli scioperi erano nati fuori dal controllo dei dirigenti sindacali ma ne avevano subìto il ritorno: dopo un iniziale disorientamento la burocrazia sindacale aveva scelto di cavalcarli per poterli controllare. Altrettanto significativo fu il ruolo secondario giocato dagli spartachisti in tutta la vicenda: non avevano nessun esponente di spicco tra i “delegati rivoluzionari” e si limitarono a produrre qualche volantino. Sin dall’inizio la lotta per l’egemonia sul movimento era apparsa una partita a due, tra i socialdemocratici indipendenti (Uspd ) e maggioritari (Spd). Richard Muller e i delegati rivoluzionari si consideravano infatti la sinistra dell’Uspd, ma non facevano riferimento a Spartaco. Il gruppo marxista evidentemente aveva impostato tutta la propria attività attorno alla figura di Liebknecht senza una propria attività di radicamento nelle aziende.
La seconda spia dell’avvicinarsi dell’ondata rivoluzionaria si verificò in estate con un sommovimento tra i marinai. Approfittando della creazione di commissioni di cambusa, i marinai Kobis e Reichpietsch diedero l’impulso ad un movimento clandestino nella marina. L’obiettivo dichiarato era la trasformazione di tali commissioni in “consigli di marinai sul modello russo”.[1] Anche in questo caso si manifestarono tutti gli aspetti contraddittori della situazione tedesca. Sul proprio diario un marinaio annotò:
Quando sento che i miei compagni brontolano domando loro: “Che cosa faresti se fossi Dio, per migliorare la nostra situazione?” Se ne sentono di belle: “Firmare immediatamente la pace. Mandare a casa soldati e marinai. Nominare Scheidemann cancelliere e Liebknecht ministro della guerra”. [2]
Questo piccolo aneddoto, in cui era indicato un improbabile gabinetto che andava dal responsabile organizzativo dell’Spd al grande rivoluzionario Liebknecht, aveva in realtà un valore estremamente sintomatico: nonostante l’enorme tradimento del 4 agosto 1914, le masse spoliticizzate non comprendevano ancora le divisioni sopravvenute nelle proprie organizzazioni. Consideravano l’Spd il “proprio” partito e Liebknecht la sua ala sinistra. L’Uspd era il partito che meglio si prestava a rappresentare tale primo stadio contraddittorio della coscienza delle masse: sufficientemente critico per distinguersi dall’Spd, sufficientemente conservatore per esservi associato. Il movimento clandestino dei marinai prese infatti contatto con l’Uspd, saggiando la natura profondamente riformista dei suoi dirigenti:
L’azione intrapresa da Reichpietsch e dei suoi compagni era estremamente pericolosa, esigeva un’organizzazione, un lavoro clandestino, una divisione dei compiti perfetta (…). I vecchi parlamentari socialdemocratici [indipendenti] dai quali egli si aspettava aiuto e direttive non avevano la più pallida idea di tutto ciò. (…) Dittmann è dispiaciuto di non poter distribuire gratuitamente ai marinai opuscoli contenenti il suo discorso contro lo stato d’assedio (…). Egli sconsiglia a Reichpietsch di formare dei circoli del partito sulle navi: poiché i militari secondo gli statuti non pagano quote, la loro adesione formale non presta interesse. Gli consegna tuttavia dei moduli di adesione che questi giovani, per i quali la minima attività politica può significare il tribunale di guerra, dovranno riempire e restituire! [3]
Lasciato a sé stesso il movimento dei marinai finì per sfociare in un’azione prematura. Dal 25 luglio iniziarono una serie di ammutinamenti che portarono il 2 agosto allo sbarco senza autorizzazione di 400 marinai per tenere un comizio. Tutti i dirigenti dei comitati clandestini furono arrestati e Reichpietsch e Kobis fucilati ai primi di settembre.
Nel gennaio del 1918 infine scoppiarono degli scioperi in Austria in occasione delle trattative di pace di Brest Litovsk. Nonostante Richard Muller avesse da tempo segnalato l’esistenza di un ambiente favorevole anche in Germania per azioni analoghe, i dirigenti dell’Uspd si ostinavano a rimandare l’azione nascondendosi dietro il basso livello di coscienza delle masse. Jogiches li apostrofò con un’espressione colorita ma efficace: “ogni volta che hanno la diarrea, dicono che le masse hanno mal di pancia”. Fu l’assemblea generale dei tornitori di Berlino a votare il 27 gennaio una mozione per lo sciopero. Venne anche deciso di creare un consiglio di operai, formato da delegati eletti dalle diverse assemblee operaie. La piattaforma di sciopero fu la seguente: pace senza annessioni come sostenuto dai bolscevichi a Brest, miglioramento degli approvvigionamenti, abolizione dello stato d’assedio, smilitarizzazione delle fabbriche e introduzione del suffragio universale nella zona prussiana del paese. Il 28 scioperarono 400mila lavoratori. Nell’aprile precedente, il Vorwarts in mano ai socialdemocratici maggioritari aveva condannato ogni agitazione sindacale: “Gli scioperi debbono essere evitati…solo una accresciuta capacità di resistenza della Germania può portare a una pace rapida”. Ma quando a gennaio fu chiara l’enorme estensione del movimento, a sorpresa i dirigenti dell’Spd, Ebert, Scheidemann e Braun, accettarono di entrare nel comitato d’azione dello sciopero insieme a tre rappresentanti dell’Uspd. La verità è che nessuno dei due partiti aveva voluto la lotta ed entrambi contribuirono a boicottarla. I socialdemocratici indipendenti lo fecero con il proprio disarmante dilettantismo, quelli maggioritari con un piano professionale e sistematico. Ebert spiegò in seguito: “Sono entrato nella direzione dello sciopero nettamente intenzionato a porre fine al movimento nel più breve tempo possibile”[4]. In una perfetta divisione dei compiti, i socialdemocratici maggioritari si facevano portatori nella lotta della necessità di trattare con il Governo mentre il Governo minacciava la repressione se non si fosse cominciato a trattare.
Che ne era invece degli spartachisti? Essi erano presenti ma totalmente incapaci di coordinarsi fra sé. Come scrisse Jogiches: “Sembra che fra i delegati vi fossero molti nostri sostenitori. Ma così erano dispersi, non avevano piani d’azione, e si perdevano nella folla.”[5] La loro esaltazione della carica spontanea del movimento in contrapposizione all’organizzazione centralistica aveva determinato nel pieno della lotta l’assenza di un centro che sapesse organizzare il movimento contro l’egemonia burocratica dell’Spd. Lo sciopero rientrò quindi il 3 febbraio senza risultati. Lo scotto dell’insuccesso non fu piccolo: a marzo un’ondata di arresti decapitò ulteriormente le tendenze di sinistra. Anche Jogiches, il principale e forse unico organizzatore spartachista, fu intercettato e arrestato. Le masse pagarono con un ulteriore prolungamento delle operazioni belliche. La nuova offensiva sul fronte occidentale fu terribilmente cruenta: tra marzo e novembre la guerra costò 192.447 morti in battaglia, 860.287 feriti, 300.000 morti civili in più rispetto al 1917 e il raddoppio del tasso di mortalità infantile”[6] .
Nell’estate del 1918 anche lo stato maggiore tedesco si convinse che la guerra non poteva continuare. Nell’esercito serpeggiava ormai l’insubordinazione. In Germania erano penetrati 60mila volantini clandestini provenienti dai bolscevichi. Dovunque l’esempio russo diventava contagioso. A questo si sommava lo sfinimento economico dell’apparato produttivo. Ancora una volta la socialdemocrazia maggioritaria fu chiamata a fare la propria parte. Il segretario di Stato Dellsbruck aveva scritto quasi un anno prima:
qualora fossimo costretti a sopportare un altro inverno di guerra, abbiamo tutte le ragioni per temere una grave crisi interna, quasi una catastrofe. L’unico modo per prevenirla è fare un’importante concessione alla socialdemocrazia e questa concessione può essere soltanto l’immediata realizzazione della riforma elettorale in Prussia introducendo il suffragio eguale (…). Per il momento [il suffragio universale] rappresenta per noi tutti un mezzo di salvezza. [7]
La classe dominante tedesca si preparava alla rivoluzione, tessendo la trama di una “controrivoluzione democratica”: un regime transitorio dove fosse lasciato ai dirigenti socialdemocratici e sindacali il compito di disperdere il movimento in cambio di concessioni democratiche apparentemente significative. Come scrisse il generale Luddendorf: “senza questi dirigenti, e maggior ragione contro di essi, non c’è niente da fare”. Le prove generali furono fatte nell’autunno del 1918 con l’entrata nel Governo del cancelliere Max di Baden del socialdemocratico Scheidemann come ministro senza portafogli. Ma il corso degli avvenimenti era ormai segnato: a settembre il fronte occidentale crollò rovinosamente. In tutta la Germania si allentò la disciplina sociale, dovunque fu rivolta: la rivoluzione batteva ormai i propri colpi nel cuore del capitalismo europeo. 20 anni di lotte ideologiche e organizzative dovevano ormai concentrarsi in qualche mese. Ma la strada era già in salita. Come ha scritto efficacemente Pierre Brouè:
Così, sia che abbiano combattuto nel corso della guerra per la pace attraverso la rivoluzione o per la rivoluzione attraverso la lotta per la pace, i rivoluzionari tedeschi non sono pervenuti – né la maggioranza vi si è adoperata – a costituire ciò che mancava loro già nel 1914, una propria organizzazione in grado di rispondere ai bisogni e alle aspirazioni delle masse, di unificare le parole d’ordine e di centralizzare l’azione. La pace e la rivoluzione battono i rivoluzionari sul tempo.[8]
[1] PIERRE BROUE’, Op. Cit., p. 97.
[2] GILBERT BADIA, Op. Cit., p. 101.
[3] PIERRE BROUE’, Op. Cit., p. 98.
[4] Ivi, p. 106.
[5] Ivi, p. 107.
[6] Dati tratti da PIERRE BROUE’, Rivoluzione in Germania, Giulio Einaudi, Torino, 1977.
[7] GILBERT BADIA, Op. Cit., p.98.
[8] PIERRE BROUE’, Op. Cit., p.125.