
“Ma come l’insurrezione spontanea distanziava (…) la coscienza politica, così la necessità di agire lasciava parecchio dietro di sé la febbrile opera organizzativa. In questo la debolezza della rivoluzione – di ogni rivoluzione – in questo la sua forza. Chi vuole esercitare influenza nella rivoluzione, deve prenderla nel suo complesso” [1]
Lev Trockij
Si sarebbero cercati invano i segni premonitori della futura rivoluzione nella coscienza dei lavoratori russi. Fino al 1905 essi erano saldamente inquadrati nei sindacati reazionari creati addirittura dal capo della polizia segreta zarista Zubatov. Dal 1904 l’unica reale organizzazione operaia di massa presente a San Pietroburgo era l’ “Assemblea dei lavoratori”, una struttura mutualistica a sfondo religioso creata dal pope ortodosso Gapon. I marxisti furono gli unici a prevedere la rivoluzione perché la cercarono non in quello che la classe pensava, ma in quello che sarebbe stata costretta a pensare sotto il peso di enormi contraddizioni materiali. Nelle parole di Rosa Luxemburg, solo il metodo marxista “fece sì che la socialdemocrazia russa difendesse fermamente contro tutto e tutti la missione di classe e la politica di classe autonome del proletariato russo, allorché l’esistenza fisica dei lavoratori russi poteva essere indovinata soltanto attraverso l’arido linguaggio delle statistiche industriali ufficiali.”[2]
Ciononostante la rivoluzione colse di sorpresa anche coloro che l’avevano prevista. Non sarebbe potuto essere altrimenti. I processi accumulatisi in decenni, per non dire secoli, diedero il proprio salto qualitativo in qualche giorno. La coscienza venne dopo la rivoluzione e non viceversa. I lavoratori russi si mossero portandosi dietro i propri pregiudizi secolari e lo fecero attraverso gli unici canali che conoscevano: gli stessi sindacati reazionari e l’associazione di Gapon. Il 5 gennaio 26mila lavoratori a San Pietroburgo scesero in sciopero in risposta a dei licenziamenti alle acciaierie Putilov. Due giorni dopo gli scioperanti erano oltre 100mila. Con l’idea di incanalare il movimento, su iniziativa dello stesso Gapon, iniziò allora a circolare nelle assemblee di sciopero una petizione da consegnare allo zar. La prima grande rivoluzione del ‘900 iniziava così, con un’umile supplica:
Sovrano, noi, lavoratori, i nostri figli, le nostre donne, i nostri vecchi genitori infermi, siamo venuti da te sovrano a cercare giustizia e protezione. Siamo ridotti in miseria, siamo oppressi ed aggravati da fatiche insostenibili, siamo insultati. (…) Ecco Sovrano i nostri più importanti bisogni con cui siamo venuti da te. Ordina e giura di soddisfarli e tu farai la Russia più forte e gloriosa, scolpirai il tuo nome nei cuori nostri e dei nostri posteri in eterno. Se non lo farai, se non ascolterai la nostra supplica noi moriremo qui, in questa piazza. [3]
Parafrasando Trockij, dietro alla supplica dei sudditi, c’era in realtà la minaccia dei proletari. La Luxemburg descrisse così questo particolare scherzo della coscienza:
La storia reale come la natura è molto più bizzarra e ricca nelle sue trovate dell’intelletto classificante e sistematizzante…L’umile “preghiera” delle masse popolari allo zar consisteva solamente nella richiesta che la sua sacra maestà volesse benignamente e con le sue proprie mani decapitare il despota di tutte le Russie. Era la preghiera, rivolta all’autocrate, di farla finita con l’autocrazia. Era l’istinto di classe di un proletariato assolutamente serio e maturo trasposto nella trovata fantastica di una fiaba per bambini….Basta che la massa popolare risvegliatasi arrivi all’idea, formalmente infantile ma in realtà terribile, di guardare faccia a faccia il padre del popolo e di voler realizzare il mito della sovranità sociale, perché il movimento si trasformi in modo ineluttabile nel cozzo di due nemici mortali, nello scontro di due mondi, nella lotta di due epoche. [4]
Il 9 gennaio una marcia pacifica di 150mila persone, con icone inneggianti allo zar, si diresse al Palazzo d’Inverno. Ignare del reale significato del loro gesto, andarono incontro al massacro. Le truppe spararono tutto il giorno, lasciando a terra circa 4600 vittime. Fu la cosiddetta “domenica di sangue”, l’inizio della rivoluzione.
Soltanto due giorni prima il liberale borghese Struve, anche lui passato dalle fila del marxismo legale, aveva scritto:“In Russia non esiste una classe rivoluzionaria”. [5]
Lo sciopero generale divampò immediatamente in tutta la Russia. Esso coinvolse due milioni di persone; “senza piani, non di rado senza rivendicazioni, interrompendosi e riprendendo, obbedendo soltanto allo spirito di solidarietà, esso regnò nel paese per circa due mesi”. [6] Niente fu più lontano dai marxisti che deprecare simile dinamica o stupirsi dell’iniziale arretratezza della coscienza degli scioperanti. Rosa Luxemburg scrisse a caldo:
Senza dubbio il primo manifestarsi della massa operaia di Pietroburgo ha portato alla superficie ancora diverse magagne – illusioni filozariste, casuale direzione da parte di ignoti capi del giorno innanzi. Come in tutte le grandi esplosioni rivoluzionarie, in un primo tempo la lava ardente solleva con sé dalla profondità alla bocca del cratere ogni genere di melma. (…) Indubbiamente anche per la stessa socialdemocrazia russa questo primo sollevamento in massa dei lavoratori di Pietroburgo è stata una sorpresa. (…) [Ma] di rivoluzioni suscitate, organizzate e ben guidate, in breve “fatte” in base a piani, ne esistono soltanto nell’accesa fantasia di anime poliziesche (…) o di procuratori di stato prussiani e russi.[7]
Siamo di fronte all’ennesimo manifestarsi dello spontaneismo luxemburghiano? No, siamo semplicemente di fronte ad una marxista che descrive il legame dialettico esistente tra spontaneità e organizzazione. Del resto tutti i suoi successivi sforzi sarebbero stati indirizzati ad aumentare il grado di organizzazione della lotta e non viceversa. Essa stesso spiegò come il carattere spontaneo del movimento si sarebbe trasformato ad un certo punto in un ostacolo: “la spontaneità gioca, come abbiamo visto, un ruolo determinante in tutti gli scioperi di massa russi senza eccezione, come elemento di avanzamento, e nello stesso tempo, di freno”. [8] Come disse Trockij, la rivoluzione doveva superare la forza della propria disorganizzazione.
In compenso gli avvenimenti confermarono a pieno l’analisi della Luxemburg sulla questione polacca. Lo scacco allo zarismo era arrivato non dal nazionalismo polacco, ma dagli sforzi congiunti del proletariato delle diverse nazionalità. L’ondata di scioperi giunse fino a Varsavia. Nella capitale polacca si elevarono le barricate. Ad aprile si verificarono scontri particolarmente violenti con la polizia. Il 15 maggio nel centro tessile polacco di Lodz, i funerali di un lavoratore ucciso dal fuoco dei cosacchi si trasformarono in una vera e propria insurrezione.
Lo scontento operaio si collegava a doppio filo a quello generale creato dalla disastrosa guerra contro il Giappone. Quando la flotta russa fu annientata da quella giapponese a Tsushima nel maggio del 1905, la rivoluzione contagiò parte dell’esercito. Un mese dopo si ammutinarono i marinai della corazzata Potemkin. Ad agosto il ministro zarista Bulygin si vide costretto ad alcune parziali concessioni, convocando le elezioni della Duma (il parlamento) accompagnate però da una legge elettorale censitaria che escludeva dal voto la maggioranza dei lavoratori e dei contadini. Oltre tutto la Duma avrebbe avuto una funzione solo consultiva. I bolscevichi decisero immediatamente di boicottarla. La Luxemburg fu della stessa opinione.
Un potere di ben altra natura stava tra l’altro iniziando ad animare i centri operai. A San Pietroburgo era nato il Comitato dei lavoratori, il Soviet: si trattava di un’assemblea composta dai delegati eletti e revocabili delle fabbriche della città. Anche in questo caso l’inconscio aveva preceduto il conscio. I Soviet non erano stati l’invenzione di un qualche pensatore illuminato, ma il risultato stesso del movimento della classe. Nati dall’esigenza di coordinare democraticamente la lotta, essi avevano finito per trasformarsi in veri e propri organi di controllo operaio sulla produzione. Erano il nuovo potere operaio in forma embrionale. Così ne diede notizia la Luxemburg:
Ed ecco un risultato interessante della rivoluzione: in tutte le fabbriche si sono formati “da sé” comitati eletti dagli operai, che decidono su tutte le questioni del lavoro, sull’assunzione e sul licenziamento degli operai ecc. L’imprenditore ha realmente cessato di “essere padrone in casa sua”. (…) Dopo la rivoluzione probabilmente tutto questo cambierà, col ritorno alle condizioni normali. Ma tutti questi fatti non saranno avvenuti senza lasciar tracce. E contemporaneamente l’organizzazione procede instancabilmente. [9]
Dopo un periodo di breve calma, nell’autunno del 1905 gli scioperi ripresero impetuosi. Tra il 9 e il 17 ottobre solo nelle ferrovie scioperarono 750mila lavoratori. L’assolutismo fu costretto a quel punto a ulteriori concessioni: il 17 ottobre fu promulgato un manifesto che introduceva i diritti costituzionali e l’amnistia per i prigionieri politici. Dietro ai proclami cartacei, però, non si nascondeva nessun vero cambiamento. Non era una Costituzione che rimuoveva lo zar, ma era uno zar che concedeva gentilmente una Costituzione. Il liberalismo borghese prese in ogni caso la palla al balzo per sfilarsi dalla lotta con la coscienza tranquilla. In novembre la controrivoluzione rialzò la testa. Furono organizzate squadracce di sottoproletari con cui fomentare i pogrom, veri e propri linciaggi a sfondo razzista e religioso. Nello stesso mese i grandi industriali dichiararono la serrata per schiacciare il movimento: la grande borghesia pugnalava così alle spalle la stessa rivoluzione borghese. Il soviet di San Pietroburgo rispose con lo sciopero. Rosa Luxemburg descrisse alcuni mesi dopo lo spirito eroico con cui gli operai di San Pietroburgo provarono a far fronte ai licenziamenti di massa:
si è avuta l’occasione di vedere come stanno le cose a Pietroburgo. (…) Un caos indescrivibile nell’organizzazione, frazionamenti del partito, nonostante tutte le unificazioni e depressione generale. (…) Ora a Pietroburgo, come da noi, il punto debole del movimento sta nella colossale disoccupazione (…) e non c’è nessun mezzo per porvi rimedio. Con ciò però si sviluppa nelle masse un eroismo silenzioso ed un sentimento di classe, che porterei volentieri ad esempio ai cari tedeschi. I lavoratori trovano dei rimedi da sé, per esempio, quelli occupati dedicano sistematicamente una giornata di paga alla settimana per i disoccupati. (…) Infatti il senso della solidarietà, ed anche della fratellanza con i lavoratori russi è così sviluppato, che ne rimaniamo involontariamente meravigliati, anche se per arrivare a questo abbiamo tanto lavorato noi stessi. [10]
Ciononostante lo sciopero di San Pietroburgo si infranse contro l’ostinata resistenza della serrata. L’attenzione ricadde su Mosca dove fu tentato un ultimo disperato assalto al cielo. Il 9 dicembre lo sciopero si trasformò in insurrezione, con barricate e combattimenti di strada. Il 17 però l’ultimo quartiere insorto si arrese: era la sconfitta non solo dell’insurrezione di Mosca, ma della stessa rivoluzione. Questo però non poteva apparire altrettanto chiaro a coloro che ne erano i protagonisti. Rosa Luxemburg, per altro, riuscì a rientrare in Polonia soltanto lo stesso giorno della sconfitta di Mosca. Appena arrivata a Varsavia, si affrettò a scrivere a Kautsky:“Ieri sono felicemente arrivata (…). La città è come morta, sciopero generale, soldati ad ogni passo. Il lavoro va bene, oggi comincio”. [11]
Qual’era stato fino a quel momento e quale fu il lavoro di una “spontaneista sanguinaria” come lei nel bel mezzo di una rivoluzione? Lo possiamo riassumere in alcune semplici parole: teoria, propaganda e agitazione. Dall’inizio si propose di “diffondere una vera e propria fiumana di pubblicazioni” [12] e di scrivere finché gli occhi non le fossero uscite dalle orbite. Da maggio era stato creato su sua iniziativa il giornale marxista polacco Z Pola Walki (Dal campo di battaglia). Il punto che considerò prioritario fu chiarire la natura di classe della rivoluzione russa. Dietro l’entusiasmo di circostanza mostrato dalla stampa socialdemocratica tedesca, esisteva a riguardo una profonda incomprensione. La rivoluzione era considerata non un anello della lotta di classe internazionale, ma un fatto a sé stante: il prodotto peculiare di un paese arretrato e barbaro. Il fenomeno russo veniva quasi ridotto a folklore. Nelle testate socialdemocratiche si sprecavano, come ironizzò la Luxemburg, “frasi sui lastroni di ghiaccio che si spaccano, le steppe sconfinate, le anime affrante stordite dal pianto e simili altisonanti espressioni da letterati nello spirito dei giornalisti borghesi le cui conoscenze sulla Russia provengono dall’ultima rappresentazione dell’Asilo notturno di Gorkij o da un paio di romanzi di Tolstoj e che sorvolano con ignoranza parimenti benevola sui problemi sociali dell’uno e dell’altro emisfero”[13] .
Al contrario Rosa chiarì sin dal primo articolo la natura proletaria del movimento in corso. Nonostante la rivoluzione russa si ponesse formalmente gli obiettivi delle vecchie rivoluzioni borghesi – costituzione democratica e riforma agraria – era giunta nell’epoca dell’imperialismo, quando sia la borghesia internazionale e tanto più quella russa avevano cessato di giocare qualsiasi ruolo progressista:
sarebbe assolutamente errato che la socialdemocrazia dell’Europa occidentale (…) volesse vedere nel sovvertimento russo soltanto uno scimmiottamento storico di quanto già da lungo tempo “accaduto” in Germania e in Francia [le rivoluzioni borghesi del 1848 – Ndr]. (…) La Russia si presenta sulla scena mondiale rivoluzionaria come un paese politicamente arretrato. (…) Solo che proprio per questo l’attuale rivoluzione russa contro tutte le opinioni correnti porta il carattere di classe più espressamente proletario di tutte le rivoluzioni sino ad oggi avvenute. Certamente, le mete immediate dell’odierna sollevazione in Russia non vanno oltre una costituzione statale democratico-borghese (…). E pure la rivoluzione, che storicamente è condannata a generare questo aborto borghese, è schiettamente proletaria quale nessun’altra innanzi. (…) In Russia non esiste una piccola borghesia nel senso moderno europeo. C’è invece una borghesia provinciale, che è tuttavia proprio la roccaforte della maggiore reazione politica e barbarie spirituale. (…) La borghesia in quanto classe non è in Russia portabandiera del liberalismo, ma del conservatorismo reazionario (…). Dal canto suo il liberalismo nel magico calderone sociale russo, non proviene da una tendenza modernamente borghese (…) ma piuttosto dalla nobiltà agraria. [14]
Nonostante i compiti “borghesi” della rivoluzione, la borghesia non ne era quindi la forza motrice. Questo ruolo ricadeva interamente sul proletariato e sui contadini poveri. Ne conseguiva la necessità di un’assoluta indipendenza dai partiti liberali borghesi. Su questo punto fondamentale l’analisi della Luxemburg si distanziava dai menscevichi e si avvicinava, pur con accenti diversi, a Trockij e ai bolscevichi. Come ricordò Trockij, essa stessa contribuì a influenzare in quel periodo l’analisi di Kautsky:
A quell’epoca Kautsky – non senza subire l’influenza benefica di Rosa Luxemburg – capiva e riconosceva pienamente che la rivoluzione russa non poteva concludersi con l’instaurazione di una repubblica democratico-borghese, ma doveva inevitabilmente portare alla dittatura del proletariato, a causa del livello raggiunto dalla lotta di classe nel Paese e della situazione internazionale. [15]
Nel vivo della rivoluzione, le differenze politiche tra la tendenza menscevica e bolscevica apparvero quindi alla Luxemburg estremamente più chiare. In diverse occasioni espresse ammirazione verso il lavoro dei bolscevichi a Mosca e si scagliò contro la viltà dei menscevichi.[16]
Che ne era stato infine del Pps, il Partito socialista polacco? Quella che nel 1893 appariva solo una differenza di accento sulla questione dell’autodeterminazione polacca, nel pieno della rivoluzione si era trasformata in un abisso. Il Pps era ormai avvitato in una profonda degenerazione nazionalista. Già nel 1904, aveva stretto un patto d’azione anti-russo con i partiti borghesi polacchi. Contemporaneamente era andato accentuando i propri tratti militareschi. Ispirandosi al modello dell’insurrezione polacca del 1863, considerava la lotta contro lo zarismo un fatto puramente militare. La ricerca di armi ad ogni costo era diventata l’attività centrale del partito. Pilsduski aveva creato la cosiddetta “frazione rivoluzionaria” del partito, nient’altro che una vera e propria formazione paramilitare. Quando scoppiò la guerra russo-giapponese, partì alla volta del Giappone per offrire un fronte unico ai nipponici in cambio di armi. Questo fu l’approccio disastroso con cui il Pps intervenne nel magnifico movimento di scioperi del 1905, sviluppando addirittura metodi terroristici. La condanna di Rosa Luxemburg fu frontale:
Buttare una bomba, per il governo rappresenta un pericolo all’incirca come uccidere una zanzara (…). Solo quelli che non sanno pensare credono che gli atti terroristici con impiego di bombe possano fare un’impressione più che momentanea. Soltanto (…) le azioni di massa costituiscono un pericolo per l’assolutismo. Esse infatti non solo disorganizzano il sistema di potere ma al tempo stesso organizzano la forza politica che abbatterà l’assolutismo.[17]
E ancora:
Nelle rivoluzioni popolari il capo onnipotente e geniale non è il comitato di partito, e neppure il piccolo circolo che si chiama organizzazione di lotta, ma solo la grande massa che versa il suo sangue. Contro i “socialisti”[del Pps – Ndr] che si immaginano che la massa della popolazione operaia debba essere educata ai suoi ordini per la lotta armata, in ogni rivoluzione la massa stessa trova gli strumenti di lotta che meglio corrispondono ai rapporti esistenti. [18]
Ancora una volta, gli stalinisti estrapolarono dal contesto queste righe per accusare Rosa Luxemburg di un approccio “pacifista” e di sottovalutazione del ruolo della direzione nella preparazione dell’insurrezione. Se così fosse stato, essa avrebbe condiviso questa colpa con Lenin che nello stesso periodo scrisse: “Il proletariato ha compreso prima dei suoi dirigenti il cambiamento delle condizioni oggettive della lotta che rendevano necessaria una transizione dallo sciopero all’insurrezione”[19] . La verità è che, mentre polemizzava con i metodi terroristici e cospirativi del Pps, Rosa chiarì a più riprese quale dovesse essere lo stadio successivo della lotta:
La fase della lotta aperta cominciata adesso impone alla socialdemocrazia il dovere di armare nel modo migliore possibile i militanti più avanzati, di preparare i piani e le condizioni per la lotta sulle barricate (…). La preparazione tecnica per la lotta armata è di un’importanza e di un’urgenza enorme ma non è la principale garanzia della vittoria. Il peso decisivo non sarà in ultima analisi rappresentato dalle truppe di assalto di una minoranza organizzata a cui nella lotta rivoluzionaria spetta un compito particolare, ma delle grandi masse del proletariato. [20]
Tutto questo però rimase un’ipotesi teorica. La sconfitta di Mosca fece infine sentire i suoi effetti e nel giro di qualche mese la rivoluzione tornò a inabissarsi nel riflusso. La socialdemocrazia polacca, che in poco tempo aveva raggiunto i 30mila iscritti, fu costretta nuovamente alla clandestinità. Il 4 marzo del 1906 Rosa Luxemburg fu catturata e imprigionata. A luglio riuscì a fuggire. Per la seconda volta, e questa volta per sempre, si lasciava alle spalle la sua terra natale. Tornava in Germania con in mente un solo concetto: “La rivoluzione è magnifica e ogni altra cosa è priva di importanza”. [21]
[1] LEV TROCKIJ, 1905, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 200.
[2] ROSA LUXEMBURG, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano, 1963.
[3] LEV TROCKIJ, 1905, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 79.
[4] PAUL FROLICH, Op. Cit., p. 98.
[5] LEV TROCKIJ, 1905, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 83.
[6] LEV TROCKIJ, Op. Cit., p. 87.
[7] ROSA LUXEMBURG, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano, 1963. p.274.
[8] PETER NETTL, Op. Cit., p- 198.
[9] ROSA LUXEMBURG, Lettere ai Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971. p.153.
[10] Ibidem.
[11] ROSA LUXEMBURG, Lettere ai Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971. p.141.
[12] PETER NETTL, Op. Cit., p. 269.
[13] PAUL FROLICH, Op. Cit., p. 119.
[14] ROSA LUXEMBURG, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano, 1963. pp. 268-272.
[15] LEV TROCKIJ, Classi sociali e rivoluzione, Edizione ottaviano, Milano, 1976. p.45.
[16] Quando i menscevichi ruppero il boicottaggio nei confronti della Duma, Rosa Luxemburg prese apertamente posizione a favore dei bolscevichi i n una lettera a Kautsky: “Per il momento c’è solo che in Mosca è da registrare piuttosto una vittoria che una sconfitta. (…) D’altro lato c’è sul tappeto la Duma e le elezioni. Tu conosci l’infame legge elettorale. Sembrerebbe che in tali circostanze la partecipazione avrebbe dovuto essere proibita ancora più che per la Duma di Bulygin. Ora, ecco qua: la social democrazia di Pietroburgo ha deciso la partecipazione elettorale e di nuovo davvero con un piano follemente artificioso: si devono fare le elezioni a tutti i gradi (vi sono addirittura in provincia elezioni a quattro gradi!). Ma sulla base del suffragio universale (che non esiste). Inoltre si devono eleggere i deputati alla Duma ma…impadronirsi del potere statale in provincia. Lo sa il diavolo, non sono nemmeno capace di ripetere queste sciocchezze. Questa è la “vittoria” della gente dell’Iskra [controllata dai menscevichi – Ndr] sulla gente di Lenin, di cui sono molto orgogliosi. Purtroppo io non ho potuto recarmi in tempo utile a Pietroburgo, altrimenti avrei messo dell’amaro in questa loro “vittoria”. (…) Beh noi ce ne rimaniamo senza dubbio all’aperto e semplice rifiuto delle elezioni sulla base di un suffragio a quattro classi e in pendenza dello stato di guerra.” ROSA LUXEMBURG, Lettere ai Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971.
[17] PAUL FROLICH, Op. Cit., p. 130.
[18] Ivi, p. 124.
[19] PETER NETTL, Op. Cit., p. 279.
[20] PAUL FROLICH, Op. Cit., p. 130.
[21] PETER NETTL, Op. Cit., p. 299.