Non ho intenzione di trasformare Ita Airways nella Croce rossa dei dipendenti della vecchia Alitalia”, dice Alfredo Altavilla, presidente della compagnia pubblica Ita Airways, creata sulle ceneri della vecchia Alitalia durante l’audizione in parlamento del 12 gennaio. Come ogni nazionalizzazione borghese è ora in processo di privatizzazione. Come una canzone parlava di 7mila caffè, Altavilla muove 8mila ceffoni, tante sono le richieste di 8mila lavoratori ex Alitalia in cassa integrazione che chiedono il riassorbimento.

 

Quanta arroganza e quanto potere, verrebbe da pensare. E se non fosse stato per la tenace resistenza degli operai GKN, avremmo potuto dire lo stesso dei licenziamenti via email inferti dal fondo d’investimento Melrose lo scorso giugno. La lotta operaia ha salvato i posti di lavoro. Il fiume delle sconfitte ha parzialmente invertito la sua corrente. Oggi lo stabilimento di Campi Bisenzio sta attraversando un processo di acquisizione. Nuovi proprietari, nuovi macchinari, nuova produzione. Probabilmente a Campi non si produrranno più componenti per auto.

 

Le bocche dei padroni non sono fatte per l’umiltà. Ancora fresco della tragedia del crollo del Viadotto Polcevera il 14 agosto 2018, quando una voragine di 200 metri si portò via cemento armato, piloni e 43 innocenti, Luciano Benetton poteva dichiarare alla stampa di non aver mai gestito Autostrade, salvo essere smentito 3 anni dopo dal fratello Alessandro, pentito per non aver chiesto subito scusa alle famiglie delle vittime. La stampa borghese sollevò un nuvola di polvere sull’ipotesi di una nazionalizzazione borghese della rete autostradale, un processo che avrebbe regalato allo stato il peso della manutenzione e della messa a norma per preparare una futura rivendita ai privati.

 

Potremmo continuare molto a lungo, citando piccole e grandi vertenze operaie del nostro paese, per ogni specifico settore produttivo e distributivo. Non farebbero eccezione le vicende della grande Ilva di Taranto come della più piccola Gianetti Ruote lombarda, fino alle lotte nella distribuzione portate eroicamente avanti dal SiCobas.

 

Assistiamo a una offensiva padronale senza precedenti, scatenata dalla crisi post-pandemica e dal via libera ai licenziamenti. Bocconiani d’assalto ci hanno educato che il 2021 sarebbe stato l’anno della crescita sullo zero percento del 2020 pandemico, tacendo del via libera ai licenziamenti come raffiche di mitra. Anni di docilità sindacale, di veri e propri arretramenti generali, hanno dipinto un quadro che i nostri lettori conoscono fin troppo bene.

 

Come la pandemia ha messo a nudo le responsabilità dei padroni sulle ondate di contagi nei luoghi di lavoro, così ha mostrato platealmente la loro inutilità produttiva. Gli scioperi spontanei del marzo 2020 in molte fabbriche – costrette alla produzione per non fermare gli ordinativi nonostante le infezioni e i ricoveri, con lavoratori lasciati a produrre gomito a gomito senza protezioni e protocolli, mentre corrieri si ammalavano in massa per tenere in piedi l’approvvigionamento merci di tutto il paese – non hanno mostrato solo che ai datori di lavoro non frega nulla della nostra salute. Hanno anche mostrato che i lavoratori non hanno bisogno di loro per tenere i luoghi di lavoro.

 

Ancora la vertenza GKN di Campi Bisenzio ha acceso un fiammifero sulle potenzialità implicite del controllo produttivo senza padroni, pur non avendo fatto ripartire lo stabilimento. Il presidio operaio si è organizzato per la manutenzione quotidiana dello stabilimento e delle macchine, potenzialmente sempre pronte ad essere rimesse in linea. Eppure GKN non è un capannone, è uno stabilimento grande e complesso, formato da molti reparti e magazzini differenti.

 

Ogni movimento ha il suo arsenale. Quello operaio è fatto di scioperi e picchetti, quello comunista di programmi. Ogni programma è una ricetta per resistere o avanzare, per ricostruire la società sui bisogni di chi lotta. Oggi non è semplicemente concepibile un dibattito sulle nazionalizzazioni senza toccare approfonditamente il tema del controllo pubblico e di chi deve portarlo avanti. È il tema che traccia un solco tra le potenzialità di una società senza padroni ed una al loro servizio.

 

Potenzialità implicite

 

La società in cui viviamo concepisce come una bestemmia l’assenza di investimento privato. L’investimento privato è sacro, si insegna a tutti i livelli della scuola e in generale nel dibattito pubblico, ma i rami nevralgici della produzione, del credito e della distribuzione del nostro paese sono gestiti da consigli di amministrazione a malapena consapevoli dei poli produttivi, degli uffici o dei magazzini che detengono.

 

Viceversa, nessuno come i lavoratori conosce gli aspetti centrali di gestione di ogni singolo polo produttivo. Dalla grande azienda al più piccolo ufficio, qualunque lavoratore dipendente sperimenta ogni giorno l’inutilità della proprietà. Gli affari correnti, contabili, produttivi e di previsione vengono gestiti dai lavoratori dipendenti. Alla proprietà e ai suoi dirigenti non spettano più che le firme per autorizzare i pagamenti. Nessuno si stupisce che ai dipendenti venga precluso qualsiasi accesso alla reale contabilità aziendale.

 

La concorrenza tra grandi multinazionali mostra il proprio volto più vero con le crisi di sovrapproduzione. Viviamo in un mondo economicamente cieco, dove contano solo la domanda e l’offerta. Si produce una quantità sterminata di merci fino a saturare il mercato. Dalla crisi che ne consegue aziende vengono chiuse, famiglie rovinate, e tutto ciò solo perché la produzione e la distribuzione mondiale non seguono i bisogni razionali della popolazione, ma il comandamento del profitto.

 

Ancora nel 1848 Karl Marx e Friedrich Engels lo avevano sintetizzato con attenzione nel Manifesto:

 

“Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio.

 

Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta.”

 

Vivessimo in una federazione socialista mondiale, crisi economica e pandemia sarebbero già un lontano ricordo. Potremmo attingere alle risorse tecniche e produttive del pianeta, assoggettandole a un piano razionale, democraticamente discusso a più livelli attraverso un sistema consiliare. Non mancherebbero i caschi respiratori negli ospedali e vi sarebbe una sola ricerca pubblica mondiale senza segreti commerciali, brevetti e ricatti contrattuali. L’asimmetria vaccinale tra paesi ricchi e poveri sarebbe semplicemente inconcepibile.

 

I principali gangli dell’economia sarebbero nazionalizzati senza alcun indennizzo, cioè espropriati. Noi comunisti non possiamo concepire altra forma di nazionalizzazione che non sia quella che priva la vecchia la proprietà di alcuna forma di risarcimento. Le piccole aziende, così frequenti nel tessuto produttivo italiano, sarebbero state conquistate al nuovo corso senza alcuna forma di requisizione violenta: il controllo operaio all’interno delle aziende e degli uffici sarebbe stato sufficiente, con una politica di supporto da parte delle banche centralizzate e nazionalizzate, a farle convergere in cooperative di stato.

 

Una mossa istintiva, un regime transitorio

 

Rispetto a inizio ‘900 l’educazione media e tecnica della classe operaia è fortemente cresciuta. La divisione mondiale del lavoro, che frammenta la produzione e impedisce alla maggior parte delle aziende di gestire il ciclo produttivo dalla materia prima al prodotto finito in un unico stabilimento, da un lato rende difficile riconoscere una controparte, ma dall’altro rende più facile fermare l’intera catena produttiva mondiale con pochi scioperi coordinati.

 

La lunga catena della distribuzione era pressoché inesistente all’inizio del secolo scorso, oggi è centrale per la distribuzione mondiale delle merci. La stessa classe operaia è stata sfrattata dalle città nel mondo occidentale, dove invece nuovi settori piccolo borghesi corrono al galoppo verso la proletarizzazione. Viceversa, nei cosiddetti paesi del terzo mondo la classe lavoratrice si ammassa in centrali produttive legate tra loro come lo erano gli stabilimenti nell’Italia degli anni ‘60.

 

Il regime di controllo operaio è una tendenza istintiva del movimento dei lavoratori a un certo grado di sviluppo della lotta di classe. Quando lo scontro con i padroni prende il volo, quel braccio di ferro su chi comanda davvero – che ogni sciopero sussurra implicitamente – diventa realtà effettiva. Nella fabbrica esistono due poteri quando vi è spazio per uno soltanto.

 

Come tale, il regime duale è transitorio per definizione:

 

I lavoratori hanno il controllo. Ciò significa che la proprietà e il diritto di comando restano nelle mani dei capitalisti. Così questo regime ha un aspetto contraddittorio, essendo caratterizzato a suo modo come un interregno economico.

 

Il controllo è necessario agli operai non per scopi platonici, ma per influire praticamente sulla produzione e sulle operazioni commerciali delle aziende. Non si può giungere a questo se il controllo non si trasforma in un modo o nell’altro, in questa o quella misura, in una gestione diretta. Così, nella sua forma più ampia, il controllo implica una specie di dualità di poteri nella fabbrica, nelle banche, nelle imprese commerciali.

 

La costituzione di un consiglio di fabbrica, aziendale o di un collettivo che permetta ai lavoratori di esprimere cosa, come e quanto produrre è un passaggio decisivo, che può essere catalizzato dalla presenza di quadri politici nei luoghi di lavoro. È intuitivo immaginare che, laddove siano presenti in azienda delegati sindacali combattivi o quadri politici esperti, sia più facile che un nucleo di lavoratori raggiunga prima conclusioni avanzate. Ma è la dinamica dello scontro di classe a spingere i lavoratori a fare cose che normalmente non farebbero. Il fattore soggettivo gioca da catalizzatore, ma la materia prima non sgorga dalle sue mani.

 

Un processo complessivo

 

Si può definire controllo operaio il controllo dei lavoratori in azienda. Può essere il controllo dei lavoratori pur permanendo il padrone. Questo regime è ancora più transitorio perché deve condurre alla cacciata del padrone o rifluire.

 

Oppure può essere la rimessa in produzione dell’azienda dopo la fuga o la cacciata del padrone. Tuttavia, è implicito che il controllo operaio di una singola azienda in un mare capitalista è destinato a capitolare. Dal credito alla vendita del prodotto finito, la resistenza del sistema sarebbe troppo forte. Sarebbe come una singola particella virale contro un intero sistema immunitario: finirebbe strangolato dal boicottaggio, fino alla repressione finale.

 

Certamente per controllare un’azienda grande come GKN o l’Ilva, così come un hub di DHL, è necessario il coinvolgimento più articolato possibile della forza lavoro. Non si tratta solo di un problema quantitativo, ma anche qualitativo. Per gestire una grande azienda servono tanto i tecnici quanto gli impiegati. Trotskij indicava nella lettura dei libri contabili il primo passo da compiere per monitorare lo stato effettivo dell’azienda:

 

Gli operai non hanno meno diritto dei capitalisti di conoscere i “segreti” dell’azienda, del trust, del settore industriale, di tutta l’economia nazionale. Le banche, l’industria pesante e i trasporti centralizzati devono essere posti sotto controllo prioritariamente. I primi obiettivi del controllo operaio consistono nel chiarire quali siano i redditi e le spese della società, cominciando dalla singola azienda; nel determinare la parte del singolo capitalista e dei capitalisti complessivamente nel reddito nazionale; nello svelare gli intrighi di corridoio e le truffe delle banche e dei trust; nel denunciare, infine, dinnanzi alla società intera lo spaventoso sperpero di lavoro umano che è il risultato dell’anarchia capitalista e della pura caccia al profitto.

 

Ma è indubbio che dal 1939 il padronato ha perfezionato la propria presa sui bilanci e sulle possibilità di occultarli. Condurre l’analisi finanziaria come la gestione delle materie prime e dei pezzi di ricambio ha bisogno dell’intervento di impiegati passati dalla parte della lotta. In questo c’è poca differenza tra impianto, capannone o ufficio di un’azienda commerciale.

 

L’approvvigionamento delle materie prime è ovviamente un aspetto centrale. Di per sé il controllo operaio è completo quando i lavoratori hanno pieno controllo di tutti processi di vita dell’azienda, compresa la distribuzione del prodotto finito. Che il credito sia un tema fondamentale lo dimostra la sua centralità negli scritti principali dei teorici del marxismo.

Così Trotskij può scrivere nel Programma di transizione:

 

Allo scopo di realizzare un sistema unico di investimento e di credito, secondo un piano razionale che corrisponda agli interessi di tutta la nazione, bisogna unificare tutte le banche in un unico istituto nazionale. Solo l’espropriazione delle banche private e la concentrazione di tutto il sistema di credito nelle mani dello Stato assicureranno a quest’ultimo gli strumenti reali, cioè materiali – e non fittizi e burocratici – necessari per una pianificazione economica.

 

Esattamente quanto Marx aveva anticipato 91 anni prima nel Manifesto:

 

5.- Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

 

Nessuna banca privata farà credito a un’azienda sotto controllo operaio per ragioni tanto politiche quanto economiche. L’azienda strappata alla proprietà borghese e passata nelle mani del controllo operaio attraverso la lotta non è certo una cooperativa acquistata col TFR dei dipendenti destinata ad autosfruttarsi sul mercato. L’azienda è espropriata nella lotta e fatta ripartire, magari dopo che la proprietà ne ha dichiarato il fallimento. Dunque la banca privata non ha un capitale privato proprietario da pignorare in caso di mancata restituzione del prestito che non sia lo stabilimento stesso. Può essere convinta al credito, ma solo sulla base di un piano capitalistico. L’illusione che una cooperativa possa competere meglio sul mercato di una azienda tradizionale allude a una verità di fondo: dove c’è democrazia produttiva si lavora meglio.

 

Eppure il funzionamento di un’azienda o di un ufficio ha costantemente bisogno di soldi. Serve denaro per le materie prime, per pagare i corrieri, per i computer, gli strumenti di lavoro, le utenze, il materiale di ricambio fino agli investimenti per nuova produzione. Non si tratta dunque solo di pagare gli stipendi. Per questa precisa ragione è necessario che il sistema bancario sia nazionalizzato e centralizzato.

 

Dunque un processo nato dentro i luoghi di lavoro dialetticamente deve estendersi ai gangli vitali della società per essere sviluppato. Il boicottaggio di proprietari di banca e di aziende di distribuzione deve essere spezzato dai loro stessi lavoratori, che a loro volta avranno bisogno di quel credito e delle aziende produttive da servire. Man mano che questo processo cresce, invoca urgentemente la necessità di un piano economico:

 

Se il borghese non è più il padrone, cioè non comanda più completamente nella sua fabbrica, ne consegue che non comanda più completamente neppure nel suo Stato. Ciò significa che a un regime di dualismo di poteri nelle fabbriche corrisponde un regime di dualismo di poteri nello Stato.

 

Il controllo operaio è l’anticamera del potere operaio, ma i lavoratori possono lottare per controllare la propria azienda senza che abbiano immediatamente maturato la necessità del governo operaio e del socialismo. L’uno è il presupposto dialettico dell’altro, ma l’estensione sul piano politico, cioè la proclamazione di un governo operaio, richiede una strategia e un programma che può essere elaborato e spinto solo da una direzione rivoluzionaria.

 

Un consiglio di fabbrica avrebbe rapidamente bisogno di un coordinamento di consigli di fabbrica. Oggi le possibilità di comunicazione tecnologica sono tali da poter coordinare i delegati di aziende tra loro lontane, vanificando quel tentativo di dislocazione geografica che i padroni hanno messo in atto negli ultimi decenni anche per depotenziare la carica conflittuale del movimento operaio.

 

Infine, oggi il controllo operaio sarebbe inconcepibile senza lo stesso regime nella ricerca tecnica. La corsa al vaccino ha dimostrato le enormi potenzialità della ricerca scientifica nonostante la concorrenza privata. Sottoposta a un piano e liberata dalle catene brevettuali e degli antagonismi tra gli stati nazionali, potrebbe contribuire ad aumentare l’efficienza e la produttività mondiale come mai prima e in modo compatibile con l’ambiente. L’esperienza dell’ILVA di Taranto, con i suoi piani industriali irrealizzabili e incompatibili con le esigenze del territorio, dimostra proprio che solo i lavoratori, supportati da una ricerca aperta e gestita democraticamente, possono trovare un’armonia tra la produzione di acciaio e l’inquinamento. D’altronde loro non hanno alcun interesse ad accumulare profitto.

 

La storia ci dà ragione

 

I processi rivoluzionari sono sempre caratterizzati da un regime duale di controllo operaio che si estende al resto della società. Questa transizione dialettica non è automatica, ma è il tratto distintivo di una rivoluzione. Nuovi strati della classe lavoratrice entrano nella lotta e trascinano con sé il resto della società. Si formano consigli ampi, che organizzano i lavoratori già attivi nei consigli di fabbrica, come elementi delle città, delle campagne e delle forze armate che sono passati dalla parte della rivoluzione. In Russia nel 1917 hanno preso il nome di Soviet, che altro non sono che la maturazione politica di comitati di sciopero nati nelle fabbriche. È peculiare che questa esperienza si sia ripetuta a distanza di 12 anni in due rivoluzioni diverse, nel 1905 e nel 1917.

 

Come sintetizza Trotskij:

 

I soviet possono nascere solo quando il movimento delle masse entra in una fase apertamente rivoluzionaria. Come perno attorno al quale si uniscono decine di milioni di lavoratori nella lotta contro gli sfruttatori, i soviet, dal momento della loro costituzione, diventano i concorrenti e gli antagonisti delle autorità locali e poi dello stesso governo centrale. Se il comitato di fabbrica introduce elementi di dualismo di potere in fabbrica, i soviet aprono un periodo di dualismo di potere nel paese.”

 

Dunque la nascita di consigli di fabbrica allude alla possibilità di una rivoluzione, ma non la esaurisce. I consigli di fabbrica torinesi del Biennio rosso, di cui parliamo approfonditamente in questo percorso, non riuscirono ad affermare il controllo su Torino. Quarant’anni dopo, nel maggio 1968 a Nantes, in Francia, la Renault venne occupata e gestita sotto controllo operaio, controllo che si estese sì al resto della città, ma per troppo poco tempo per sedimentare politicamente.

 

La prima esperienza di controllo operaio della storia del movimento operaio è quella della Comune di Parigi del 1871. Il fatto stesso che la guerra di classe poggiasse su la riapertura dei laboratori di lavoro e sulla ricostruzione della società in modo consiliare spinse Marx ad approfondire ancor di più l’analisi che aveva appena abbozzato nel Manifesto 23 anni prima:

 

“La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di continuare a essere l’agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune, revocabile in qualunque momento.

 

Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell’amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune.”

 

Ma come il controllo operaio non è sostenibile in una sola fabbrica, così il regime di dualismo di poteri non può reggere l’assedio in una sola città. Nelle pagine che precedono la descrizione della sconfitta, è sempre Marx a puntualizzare:

 

La Comune di Parigi doveva naturalmente servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a Parigi e nei centri secondari il regime comunale, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto anche nelle provincie all’autogoverno dei produttori. In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare è detto chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo, e che nei distretti rurali l’esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia nazionale, con un periodo di servizio estremamente breve.

 

Le comuni rurali di ogni distretto avrebbero dovuto amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali avrebbero dovuto loro volta mandare dei rappresentanti alla delegazione nazionale a Parigi, ogni delegato essendo revocabile in qualsiasi momento e legato al mandat impératif (istruzioni formali) dei suoi elettori.” 

 

Nemmeno 50 anni dopo, l’esperienza sovietica avrebbe messo a fuoco questo problema. La Russia del 1917 aveva pochi tecnici, di tradizione zarista. Gli eroici elementi rivoluzionari erano prevalentemente analfabeti. Questo costituiva una barriera notevole alla costruzione di un nuovo ordine politico a partire dal regime di controllo operaio. Prima del 1919 l’economia russa non fu completamente nazionalizzata. Nemmeno il controllo operaio fu completo e questo nonostante i soviet fossero organismi perfettamente funzionanti. Al ritardo tecnico della classe non vennero in aiuto i più avanzati operai tedeschi. “Una fortezza assediata”, così Lenin definisce la sua rivoluzione. La chiamata a raccolta dei riottosi tecnici zaristi a supportare il funzionamento delle fabbriche russe fu un compromesso necessario, per prendere tempo prima della totale autonomia della classe. Quanto più la rivoluzione fosse rimasta isolata, tanto più tempo la classe avrebbe impiegato a diventare autonoma.

 

Ad ogni modo, prima ancora di istituire la figura del commissario, il Partito Bolscevico tenne ben presente l’importanza di questo processo per la buona salute del potere rivoluzionario. Il Comitato esecutivo centrale del Congresso dei soviet proclamò il 16 gennaio 1918 la Dichiarazione dei diritti dei lavoratori e del popolo sfruttato. Ancora prima, nell’aprile del 1917, ossia nel fuoco della rivoluzione, la Conferenza dei comitati di fabbrica dell’industria bellica di Pietrogrado aveva posto spontaneamente ciò che Lenin stava sintetizzando in quei giorni nelle famose Tesi. Ne riportiamo un passaggio, a dimostrazione della sua importanza:

 

“Il Comitato di fabbrica costituisce l’organo che controlla l’attività della direzione nei settori amministrativi, economici e tecnici. Allo scopo di realizzare questo controllo preliminare, il Comitato di fabbrica disloca uno dei suoi membri presso la direzione per essere rappresentato; fa lo stesso con i Comitati economici e tecnici e in tutte le diverse sezioni della fabbrica; inoltre al rappresentante del Comitato di fabbrica devono essere presentati, per tenerlo al corrente, tutti i documenti ufficiali della direzione, i bilanci di produzione e di spesa e ogni sorta di entrata e di uscita.”

 

Questo articolo non potrà trattare del destino del sistema sovietico alla morte di Lenin. È un fatto che l’Unione Sovietica non fosse sovietica da molti decenni al momento del suo crollo. Il Partito Bolscevico mise sempre al primo posto la lotta per mantenere una genuina democrazia operaia, ma il livello di sabotaggio operato dai padroni cacciati e da tecnici e funzionari zaristi fu tale da reinserire dislivelli nelle retribuzioni e nei privilegi. Compromessi necessari per dare ossigeno a un’economia sotto assedio posero implicitamente la prima pietra sulla fine del regime di controllo operaio in Unione Sovietica. La degenerazione stalinista avrebbe messo la pietra tombale su questo processo, pur mantenendo l’economia nazionalizzata e pianificata. Ma un’economia di questo tipo, privata della democrazia interna, non avrebbe mai potuto coltivare i talenti che l’enorme classe lavoratrice russa avrebbe potuto offrire. L’Unione Sovietica crebbe grazie alla nazionalizzazione e alla pianificazione dell’economia e nonostante il peso della burocrazia e dei suoi sprechi. Alla fine tuttavia prevalsero questi ultimi.

 

In ogni caso, non è casuale che tutti i paesi assorbiti dall’avanzata dell’Armata Rossa avrebbero instaurato regimi economici nazionalizzati dopo avere espropriato l’ombra delle rispettive borghesie, ma senza l’affermarsi di regimi di controllo operaio. In questo senso, l’esperienza della Jugoslavia ha rappresentato per decenni una formale eccezione nel dibattito nel movimento comunista. Figlia della rottura tra Tito e Stalin sfociata nell’espulsione dal Comintern della Jugoslavia nel 1953, di fatto la direzione comunista slava concepì la cosiddetta autogestione per guadagnare punti nel movimento comunista internazionale rispetto all’ossificato sistema sovietico.

 

Quello jugoslavo era un regime che concepiva l’autogestione delle fabbriche per funzionare nel mercato. Il processo di controllo era gestito in ogni caso dall’alto. I lavoratori slavi non prendevano in mano aziende private, occupandole e spingendo il governo all’esproprio. Venivano concessi regimi di autogestione relativi alla singola fabbrica, ma sempre sotto il controllo del governo. L’economia slava era nazionalizzata, ma le fabbriche autogestite competevano nazionalmente e internazionalmente. Questo sistema esercitava una pressione volta ad innalzare il livello di profitto della singola fabbrica.

 

Nel 1950 la Jugoslavia introdusse una nuova legge sull’autogestione operaia. La linea generale del partito era che la deregolamentazione delle fabbriche autogestite avrebbe progressivamente ridotto il peso dello stato. Di fatto gli stalinisti slavi si cacciarono in una contraddizione dialettica insolubile: cercare di mantenere il controllo di un’economia aperta alle pressioni del mercato.

 

Così i dirigenti dei comitati di fabbrica erano controllati da personale ministeriale ma ogni fabbrica poteva settare il proprio livello retributivo e soprattutto una politica di bonus legati ai risultati. Finché l’economia slava cresceva, lo stato reinvestiva il denaro delle tasse drenate da queste aziende per crearne di nuove.

 

La logica conseguenza di questa impostazione fu che i consigli di fabbrica chiesero meno tasse e più libertà di sperimentare nel mercato. L’unico congresso di questi consigli si tenne nel 1957 e rivendicò per l’appunto una tassazione più bassa e libertà di investimenti nel mercato. La burocrazia cominciò a temere che le maggiori libertà richieste dai comitati avrebbero progressivamente portato alla restaurazione del capitalismo.

 

Le riforme alla fine fecero collassare la crescita all’inizio degli anni ‘60. Nel 1962 venne abbandonato il terzo piano economico a un anno dallo scoppio della crisi. Per dare aria al sistema l’apparato spinse ancora di più le aziende statalizzate nel mercato. Venne rimosso il monopolio del commercio estero. Questo accrebbe le differenze economiche a tutti i livelli: di fabbrica, regionali, nazionali. Le aristocrazie operaie, formate prevalentemente da tecnici, crebbero a dismisura. Questo a sua volta impresse una divaricazione nella democrazia nelle fabbriche. Dal 1960 al 1970 i lavoratori coinvolti nell’autogestione calarono dal 76% al 65%. Nella metà degli anni ‘60 i salari sloveni erano 6 volte più grandi di quelli dei lavoratori kosovari. In meno di 10 anni, la percentuale di lavoratori coinvolti nei pro Questo a sua volta alimentò le rivendicazioni di nazionalità diverse della burocrazia comunista slava. I comunisti sloveni volevano mantenere i propri privilegi economici, quelli croati e serbi volevano riaffermare la propria egemonia attaccando demagogicamente le ricchezze slovene e le differenze in tutto il paese.

 

Il punto centrale è che il controllo operaio e l’economia pianificata sono incompatibili con la competizione individuale. Sono invece il prodotto di un piano democraticamente formulato e discusso, senza imposizioni dall’alto, ma senza nemmeno le oscillazioni delle leggi cieche del mercato. Le aziende nazionalizzate devono essere integrate in un piano nazionale. Il controllo operaio deve essere esercitato dai lavoratori, dai rappresentanti sindacali e da quelli del governo.

 

Queste aziende erano a diretto contatto col mercato, perché l’apparato jugoslavo smantellò il monopolio del commercio estero. All’inizio degli anni ‘70 le aziende cominciarono a indebitarsi con le banche occidentali. Nel giro di poco tempo fu lo stato slavo ad assorbire questi debiti. All’inizio degli anni ‘80 il tenore di vita collassò perché dopo la recessione mondiale del 1979 nessuno era in grado di calcolare esattamente il debito estero. Il governo slavo lo assorbì e dovette chiedere prestiti al FMI, una anomalia nell’anomalia per un paese socialista. Alla fine il FMI chiese in cambio dei prestiti la privatizzazione di banche e aziende statalizzate. La porta per la disintegrazione economica e politica era aperta e nel giro di pochi anni avrebbe intrapreso la via più sanguinosa.

 

L’importanza, oggi, di controllare la produzione

 

Pensiamo che oggi sia davvero centrale un dibattito sulla necessità del controllo operaio. Anche l’ultimo processo rivoluzionario sopravvissuto a numerose ondate di repressione, come quello venezuelano, è stato testimone di una stagione di controllo operaio, in prevalenza di fabbriche fallite e chiuse dalla proprietà.

 

La rivoluzione in Venezuela ha dimostrato che i lavoratori possono guidare aziende molto grandi e complesse come la centrale petrolifera PDVSA. Senza di loro Chavez sarebbe caduto anni prima della morte. È un esempio contemporaneo, dove il termine “cogestione” è uscito dal suo significato letterale ed ha assunto quello di controllo operaio. ALCASA, CADAFE, PDVSA, VENEPAL, INVEVAL sono solo alcuni degli esempi più classici di quel fenomeno. L’assenza di una direzione rivoluzionaria che Chaves e il PSUV (Partito socialista del Venezuela) non poterono che improvvisare, impresse un carattere irregolare a queste esperienze. Per ciascuna di essere si ebbero esiti e caratteristiche differenti.

 

Di per sé l’esperienza venezuelana dimostra che oggi è più difficile innescare un movimento che porti al controllo operaio ma che, una volta innescato, questo assume caratteristiche molto più avanzate di quello dei lavoratori russi nel 1917. Il grado di educazione generale e di formazione tecnica della classe lavoratrice oggi, unita alla proletarizzazione di ampi settori impiegatizi, sposta fortemente il pendolo dalla parte del controllo operaio.

 

Ma, come scrivevamo, le barriere da superare sono molte. Le direzioni dei sindacati di massa sono profondamente responsabili del pregiudizio per cui i lavoratori non dovrebbero andare al di là di una cogestione con i padroni. Ancora nel maggio 2020, in piena prima ondata pandemica, Landini rilasciava un’intervista a Repubblica nella quale spiegava:

 

“Una nuova contrattazione collettiva come strumento per disegnare un modello nel quale imprese e lavoratori abbiano pari dignità. Dobbiamo immaginare un modello nel quale chi lavora possa partecipare e dire la sua sulle decisioni che lo riguardano e definiscono le future strategie.”

 

D’altronde la segreteria della CGIL aveva fatto appello al governo a decidere delle misure di sicurezza chiare per la produzione, cosa che rappresentava una delega di responsabilità molto grande per la principale organizzazione operaia del paese. Anche questo è un riflesso dell’idea di cogestione tra lavoratori e proprietà che hanno in testa i vertici sindacali.

 

Il prossimo futuro sarà caratterizzato da una sfida tra lavoratori, padroni e vertici sindacali. L’istinto dei lavoratori a difendere il proprio lavoro e la propria vita puntando al controllo dei luoghi di lavoro si scontrerà con la ferocia del padronato che farà di tutto per comprimere diritti e salari. Nel mezzo verrà triturata la codardia delle direzioni sindacali, che si muoveranno solo se costrette e mendicheranno fino all’ultimo una riconoscibilità da parte dei padroni. Sarà uno scontro che riporterà all’ordine del giorno il tema del controllo prima in vertenze modello e poi su un piano generale. Avremo molto da imparare per preparare la sinistra di classe al futuro che ci attende. Studiamo allora, perché al di là del nostro coraggio servirà anche tutta la nostra intelligenza.