“E’ bastato che l’opportunismo parlasse per dimostrare che non ha niente da dire.” [1]

Rosa Luxemburg

Pesava sulla mentalità del funzionario socialdemocratico medio un fattore ancora più importante della routine. Da 20 anni il capitalismo viveva uno sviluppo apparentemente ininterrotto e spettacolare. In un breve lasso di tempo la Germania era stata industrializzata. Si registrava un graduale aumento dei salari e un relativo miglioramento delle condizioni di vita. Le diverse potenze capitaliste avevano iniziato a spartirsi il mondo. L’imperialismo europeo piantava stabilmente i propri artigli su tutta l’Africa e l’Asia.  Oltre al profitto realizzato sfruttando direttamente i propri lavoratori, le borghesie dei paesi capitalisticamente avanzati potevano quindi avvalersi di quello estratto dallo sfruttamento delle colonie. Questo super-profitto permetteva loro di addolcire lo scontro con il proprio proletariato. In Germania il clima che si respirava era quello della pace sociale, del miglioramento graduale, della conquista passo dopo passo. In questo contesto era soltanto questione di tempo perché l’opportunismo che covava nel ventre molle dell’Spd osasse mettere fuori il proprio naso, perché qualcuno osasse dire e scrivere quello che molti funzionari in fondo pensavano.

Così tra il 1897 ed il 1898, apparvero sulla rivista teorica del partito, Neue Zeit, una serie di articoli di Bernstein che, con la scusa di attualizzare Marx e svilupparne le idee,  finivano per negarlo:

E’ certamente ridicolo argomentare cinquant’anni più tardi ricorrendo a frasi tratte dal Manifesto del partito comunista che corrispondono a condizioni politiche e sociali completamente diverse da quelle che abbiamo di fronte oggi. (…) un riesame, una revisione delle nostre posizione si è fatta conseguentemente necessaria. [2]

Eppure nessun dirigente dell’Spd si decise a rispondergli. Ai loro occhi Bernstein si limitava in fondo a sviluppare alcune innocue riflessioni teoriche attorno a quella che era già una pratica consolidata per il partito. Così Rosa descrisse la situazione:

Kautsky trovò [gli articoli di Bernstein] “estremamente simpatici”, in fin dei conti li aveva accolti nel suo giornale. Quando a Dresda si sollevarono le prime voci critiche, (…) Kautsky accompagnò [la risposta di Bernstein] pubblicata su “Neue Zeit” con una nota redazionale in cui commentava di aver ricevuto “diversi commenti polemici agli articoli di Bernstein che riteniamo opportuno non pubblicare in quanto si basano su un fraintendimento delle intenzioni dell’autore”. (…) Anche il “Vorwarts”  (…) sottolineava che l’articolo di Bernstein “può dar adito a qualche malinteso solo nella forma”. E la stessa “Leipziger Volkszeitung”, solitamente propensa alle critiche si limitò a dire che si trattava di “osservazioni interessanti anche se terminano con una conclusione sbagliata; cosa che può sempre accadere, in particolare a gente vivace e acuta. Ma non c’è altro da osservare!”[3]

I dirigenti dell’Spd incitarono addirittura Bernstein a riunire le proprie considerazioni in un unico testo organico. Ne nacque “Presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”. Tutto si poteva rimproverare a Bernstein fuorché la chiarezza:

L’acutizzazione dei rapporti sociali non si è compiuta nel modo raffigurato nel Manifesto. Nascondersi questo non solo è inutile, ma una vera e propria follia. Il numero dei possidenti non è diminuito, bensì aumentato. L’enorme aumento della ricchezza sociale non è accompagnato dalla progressiva diminuzione numerica dei magnati del capitale, ma da un aumento numerico dei capitalisti di ogni grado. (…) [Si sono verificate] importanti modificazioni nella struttura interna delle aziende e nelle loro relazioni reciproche. (…) [Per questo il compito del partito è] mantenere ininterrotto il ritmo d’aumento dei suoi voti. (…) In questo senso a suo tempo io ho scritto la frase: per me il movimento è tutto, e ciò che comunemente è chiamato obiettivo finale del socialismo è nulla (…). Quello che mi sta a cuore (…) è di rafforzare l’elemento realistico (…), dando battaglia ai residui di mentalità utopistica che si trovano nella teoria socialista. Si vuol chiamare “revisionismo” questa concezione? Sia pure. Ma in tal caso non bisogna dimenticare che anche Marx e Engels furono a suo tempo revisionisti, che essi furono i più grandi revisionisti che la storia del socialismo conosca. [4]

Non si poteva permettere che simili idee rimanessero senza risposta. Nella misura in cui la direzione tentennava, il compito ricadde su alcuni giovani penne del partito. Tra queste vi era Rosa Luxemburg, che fu così spinta rapidamente alla ribalta delle cronache del partito. Alle soglie dei trent’anni si trovò quindi al centro della polemica teorica più importante che aveva fino a quel momento attraversato il marxismo. E non solo non sfigurò, ma produsse il libro che siede di diritto tra i capolavori del socialismo scientifico. Il testo con cui rispose a Bernstein, Riforma sociale o rivoluzione, è senza dubbio il suo scritto migliore. In un centinaio di pagine, con una chiarezza impressionante, vengono sbaragliati tutti i luoghi comuni del riformismo.

Il movimento è tutto e l’obiettivo finale è nulla: questo era il concetto centrale del ragionamento di Bernstein. Con questa idea egli non rinunciava a parole alla lotta, agli scioperi e alla necessità di strappare conquiste al sistema. Al contrario, veniva teorizzata la necessità di imbarcarsi ancora più energicamente in tutte queste attività. Cambiava semplicemente l’approccio alla meta finale. Essa spariva dall’orizzonte. La rivoluzione era solo un abbaglio ed il socialismo sarebbe giunto attraverso un lavoro continuo di riforma del sistema. Di riforma in riforma fino alla vittoria: questo doveva essere il destino della socialdemocrazia. Per Rosa Luxemburg si trattava quindi di chiarire il reale rapporto esistente tra riforma e rivoluzione, tra la conquista immediata e il socialismo. Si trattava in fondo di uscire dalla falsa divisione tra programma minimo e programma massimo:

Il titolo del presente scritto può di primo acchito sorprendere. Riforma sociale o rivoluzione? Dunque la socialdemocrazia può essere contro la riforma sociale? O essa può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente che costituisce la sua meta finale, alla riforma sociale? Certamente no. Per la socialdemocrazia, la lotta pratica quotidiana per riforme sociali (…) costituisce l’unica via per guidare la lotta di classe proletaria e per cercare di raggiungere lo scopo finale, la presa del potere politico e la soppressione del sistema salariale. (…) Tra la riforma sociale e la rivoluzione esiste un nesso, inscindibile, giacché [per la socialdemocrazia] la lotta per la riforma sociale è il mezzo ma la rivoluzione sociale è lo scopo. Una contrapposizione di questi due momenti del movimento dei lavoratori la troviamo solo nella teoria di Ed. Bernstein. (…) Bernstein stesso con il massimo di precisione e rigorosità ha formulato le sue opinioni, scrivendo: “La meta finale, qualunque cosa essa sia, per me non è nulla, il movimento è tutto”. [5]

La rivoluzione non è quindi per i marxisti un’idea romantica da contrapporre a quella realistica delle riforme. La necessità della rivoluzione nasce proprio dall’impossibilità di ottenere riforme durature sotto il capitalismo. Anche quando si riescono a strappare cambiamenti significativi, questi entrano ben presto in contraddizione con le basi del sistema stesso. Il movimento operaio è prima o poi posto di fronte al dilemma: rinuncia alla riforma o  rivoluzione, rinuncia ad ogni misera rivendicazione o lotta contro le basi stesse del capitalismo. Nei momenti di crisi economica questo nesso è ancora più evidente: l’assenza totale di margini economici per la riforma determina che ogni richiesta di cambiamento entri in collisione immediata con il meccanismo capitalista. Da questo non deriva la rinuncia alla lotta per le riforme. Al contrario: i marxisti sono gli unici veri difensori della lotta per il miglioramento quotidiano delle condizioni dei lavoratori. Tanto più è energica questa lotta, tanto più è destinata a far maturare la coscienza della necessità oggettiva della rivoluzione. Per Bernstein le conquiste graduali sarebbero state invece ottenute attraverso una nuova legislazione di riforme. Anche in questo caso, Rosa Luxemburg replicava spiegando il reale nesso tra riforme legislative e rivoluzione:

La legislazione e la rivoluzione non sono dunque metodi diversi del progresso storico che si possono scegliere al buffet della storia a piacimento come salsicce calde o salsicce fredde, ma momenti diversi nello sviluppo della società di classe che si condizionano e si completano a vicenda ma nello stesso tempo si escludono (…). E in verità la costituzione giuridica è di volta in volta solo un prodotto della rivoluzione. Mentre la rivoluzione è l’atto politico creativo della storia di classe, la legislazione è il continuare del vegetare politico della società. (…) E’ fondamentalmente falso e del tutto antistorico rappresentare il lavoro di riforma delle leggi semplicemente come la rivoluzione tirata per le lunghe e la rivoluzione come una riforma condensata. Una rivoluzione sociale e una riforma legislativa sono momenti diversi non per la durata ma per la sostanza. Tutto il segreto delle rivoluzioni storiche ottenute attraverso l’uso del potere politico sta anzi proprio nella trasformazione di mutamenti puramente quantitativi in una qualità nuova.  (…) Chi si esprime quindi per la via della riforma legale invece e in contrapposizione alla conquista del potere politico e alla trasformazione della società, sceglie di fatto non una via più tranquilla, più sicura e più lunga in direzione dello stesso obiettivo, ma sceglie anche un obiettivo diverso, cioè invece dell’instaurazione di un nuovo ordinamento sociale sceglie i mutamenti solo quantitativi nell’ambito del vecchio ordinamento. [6]

In verità la costituzione giuridica è di volta in volta solo un prodotto della rivoluzione: quanti anni sono passati da questa frase e quanti esempi l’hanno confermata. Se si prende in considerazione qualsiasi riforma significativa si vedrà che nella quasi totalità dei casi essa è il prodotto legittimo o il sottoprodotto illegittimo di una rivoluzione. I cambiamenti legislativi più significativi a cui abbiamo assistito fino ad oggi sono stati il risultato di una rivoluzione vittoriosa o di una rivoluzione abortita, ma in ogni caso sempre e comunque dei rapporti di forza creati dalla lotta di classe. Rosa Luxemburg però non si limitava a questo. Spingeva correttamente il ragionamento di Bernstein alle sue ultime conseguenze: se il capitalismo ha trovato dei metodi di adattamento con cui risolvere le proprie contraddizioni, che senso ha continuare a definirsi socialisti?

Nella disputa con Bernstein e i suoi seguaci, su questa questione, ognuno deve chiarirsi che si tratta non di questa o quella maniera di lottare, di questa o quella tattica, ma dell’esistenza intera del movimento socialdemocratico. Ad un’osservazione superficiale (…) ciò può apparire un’esagerazione. Non parla infatti Bernstein a ogni piè sospinto, di socialdemocrazia e dei suoi scopi? Non ripete egli stesso più volte ed espressamente che anch’egli persegue lo scopo finale socialista, soltanto in forma diversa? (…) Tutto ciò è certamente vero. Ma è altrettanto vero che da tempo, nello sviluppo della teoria e nella politica, ogni nuova corrente si appoggia, all’inizio, alla vecchia, anche se nel suo nucleo interno le si oppone direttamente; che essa si adatta da principio alle forme che trova, parla il linguaggio che si parlava prima di lei. Solo col tempo il nuovo nucleo fuoriesce dal vecchio involucro e la nuova corrente trova proprie forme, linguaggio proprio. Aspettare da un’opposizione al socialismo scientifico che essa dall’inizio, esprima la sua essenza interiore (…) fino all’estrema conseguenza, significherebbe sottovalutare il potere del socialismo scientifico. (…) Chi oggi voglia essere considerato socialista, ma, nello stesso tempo, dichiarare guerra alla teoria marxiana, (…) deve cominciare da essa, dichiarandosi innanzitutto seguace di questa dottrina e cercandovi anche punti di appoggio per la sua lotta, presentando quest’ultima solo come un suo ulteriore sviluppo. (…) Se tuttavia si ammette con Bernstein che lo sviluppo capitalistico non segue la direzione della propria rovina, allora il socialismo cessa di essere obiettivamente necessario. (…) La teoria bernsteiniana si trova davanti a un dilemma. O la trasformazione continua ad essere una conseguenza delle contraddizioni obiettive del sistema capitalistico, allora insieme a questo sistema si sviluppano anche le sue contraddizioni (…). Oppure i “mezzi di adattamento” (…) sopprimono le sue contraddizioni; ma allora il socialismo cessa di essere una necessità storica . [7]

Ma quali erano i mezzi di adattamento individuati da Bernstein con cui il capitalismo avrebbe risolto le proprie contraddizioni? Essi erano di natura politica ed economica: innanzitutto il credito e la Borsa. Era innegabile che il credito potesse alleviare momentaneamente il problema della sovrapproduzione, ma il punto era che la medicina si sarebbe trasformata ad un certo punto nella malattia. Dopo aver espanso artificialmente i consumi, all’apice della crisi il credito si sarebbe trasformato in un potente fattore di depressione economica. Non solo, tanto più il credito era sviluppato tanto più i capitalisti sarebbero stati portati a impiegare capitali altrui in imprese speculative:

Partiamo dal credito (…) la sua funzione più importante consiste notoriamente nell’estensione della capacità di espansione delle forze produttive (…). Là dove la tendenza immanente della produzione capitalistica ad un’espansione infinita urta contro i limiti della proprietà privata, contro le dimensioni limitate del capitale privato, lì il credito si presenta come mezzo per superare questi limiti (…). Ma esso agisce in due sensi. (…) colpisce tanto più a fondo le forze produttive che esso stesso ha risvegliato. Ai primi segni di ristagno il credito diminuisce, abbandona lo scambio là dove sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora, e riduce così al minimo, durante la crisi, la capacità di consumo. (…) Esso offre non soltanto il mezzo tecnico di mettere a disposizione di un capitalista capitale altrui, ma costituisce pari tempo per lui l’incentivo all’impiego audace e senza scrupoli della proprietà altrui. Non soltanto acuisce la crisi, in quanto mezzo di circolazione infido, (…) [ma] trasforma tutta la circolazione in un meccanismo artificioso

Berstein rispose a queste affermazioni sostenendo che la speculazione borsistica era solo un segno di immaturità del capitalismo da risolvere attraverso le “regole”:

Che il sistema creditizio favorisca la speculazione è un’esperienza ormai secolare; (…) ma la speculazione è da parte sua condizionata dal rapporto tra circostanze prevedibili e circostanze imprevedibili. Più queste ultime prevalgono, e più la speculazione fiorisce. (…) E’ questa la ragione per cui le più folli esplosioni di speculazione commerciale si hanno agli albori dell’era capitalistica, ed è questa anche la ragione per cui di solito la speculazione celebra le sue orge dissolute nei paesi di più recente sviluppo capitalistico. Quanto più vecchio è un ramo di produzione di un’industria moderna tanto più (…) il momento speculativo cessa di svolgere un ruolo determinante, giacché più preciso si fa il controllo. [8]

Questa polemica avveniva a 30 anni dalla crisi del 1929. Noi invece scriviamo nel pieno di una crisi finanziaria epocale. Ci scuserà chi legge se non prenderemo ulteriore spazio per dimostrare da che parte stava la ragione, né quali delle due idee si mantenga attuale.

Bernstein passava quindi al problema della dimensione delle aziende. Ecco il cruccio, il punto nodale, che da anni accomuna qualsiasi corrente riformista. Come risultato di qualche trauma infantile dal sapore vagamente fallico, ogni riformista non può fare a meno di guardare le dimensioni delle aziende del proprio paese. Esse sono sempre troppo piccole o troppo grandi per la rivoluzione. Per Bernstein, da buon capostipite, erano tutte e due le cose contemporaneamente. Da un lato teorizzava che la creazione dei nuovi cartelli capitalisti internazionali, le multinazionali, avrebbe diminuito l’anarchia del capitale. Le nuove dimensioni d’azienda avrebbero permesso infatti di pianificare il mercato e ridurre la sovrapproduzione. L’espropriazione dei grandi capitali per introdurre l’economia pianificata cessava quindi di essere una necessità. Dall’altra spiegava come la tendenza prevista da Marx verso un accentramento del capitale in poche grandi aziende non si fosse verificato. Per Bernstein esisteva al contrario un fiorire di piccole aziende e conseguentemente del cosiddetto ceto medio. A questo punto la rivoluzione diventava impossibile perché le aziende erano ancora troppo piccole per essere espropriate. Delle due, almeno, sarebbe stato il caso di sceglierne una. E comunque entrambe erano sbagliate.

Riguardo alla comparsa dei grandi cartelli capitalistici, Rosa Luxemburg spiegò come essi non solo non limitassero l’anarchia del mercato ma la rendessero ancora più drammatica. Le grandi multinazionali non abolivano la concorrenza ma la portavano su un piano ancora più devastante. I grandi trust capitalistici segnavano il punto massimo della contraddizione tra una produzione sempre più socializzata e una proprietà sempre più accentrata in poche mani. Se alle sue origini il capitalista poteva influire con le proprie scelte sui propri dipendenti e forse qualche migliaio di individui, i grandi cartelli capitalistici diventavano padroni del destino di intere nazioni. Non era la pianificazione, ma l’anarchia del mercato all’ennesima potenza. Notiamo en passant che questa analisi sarà svolta praticamente negli stessi termini ne L’imperialismo di Lenin. Contemporaneamente era assurdo addossare al marxismo la teorizzazione della scomparsa definitiva della piccola borghesia. Quest’ultima non cessa mai di esistere, semplicemente perde d’importanza. Muove ogni volta una fetta minore del capitale totale ed è destinata ad essere periodicamente falcidiata dalle grandi imprese:

E’ completamente falsa la concezione secondo la quale lo sviluppo della media impresa capitalistica procede in linea retta verso il suo graduale tramonto. (…) La lotta della media impresa con il grande capitale non la si deve immaginare come una regolare battaglia in cui la truppa della parte più debole si riduce sempre di più, in modo diretto e quantitativo, ma piuttosto come una falciatura periodica dei piccoli capitali che poi sempre rapidamente ricompaiono per essere di nuovo mietuti dalla falce della grande industria. [9]

Infine per Bernstein la rivoluzione non era più all’ordine del giorno perchè “la rivoluzione dei mezzi di comunicazione, che frattanto si è compiuta [dai tempi di Marx], ha sotto questo aspetto più che compensato gli effetti delle distanze spaziali.”Al proletariato non rimaneva che dedicarsi alla costruzione di cooperative con cui creare isole di socialismo. Un’assurdità a cui Rosa Luxemburg replicò prospettando un fallimento delle cooperative o una loro trasformazione in aziende capitaliste a tutti gli effetti:

Per quanto riguarda le cooperative (…) esse rappresentano, per la loro natura interiore, qualcosa di ibrido in mezzo all’economia capitalistica: una produzione socializzata in piccolo nell’ambito dello scambio capitalistico. Ma nell’economia capitalistica lo scambio domina la produzione e, in considerazione della concorrenza, fa dello sfruttamento spietato, cioè del predominio degli interessi del capitale sul processo produttivo, la condizione per l’esistenza dell’impresa. Ciò si manifesta in pratica nella necessità di rendere il lavoro il più possibile intensivo, di abbreviarlo o allungarlo a seconda della situazione di mercato, di ingaggiare la forza-lavoro o licenziarla e metterla sul lastrico a seconda delle richieste del mercato dello smercio, in una parola nel mettere in pratica tutti i metodi conosciuti che rendono un’impresa capitalistica capace di essere concorrenziale. (…) Ne deriva la necessità contraddittoria per i lavoratori (…) di svolgere con sé stessi il ruolo dell’imprenditore capitalistico. Per questa contraddizione la cooperativa produttiva va in rovina, riconvertendosi in impresa capitalistica, oppure, nel caso che gli interessi dei lavoratori siano più forti, sciogliendosi. [10]

Ma anche ammesso che le premesse oggettive individuate da Marx fossero corrette che ne era di quelle soggettive, che ne era della classe? Bernstein inaugurava così la disciplina preferita dai riformisti di ogni ordine e grado: misurare col millimetro la coscienza dei lavoratori e partorire contemporaneamente teorie lontane mille miglia da qualsiasi reale coscienza. Così scriveva:

Il proletariato moderno (…) subì in loro [in Marx ed Engels]  un vero e proprio processo di idealizzazione teorica. (…) [ Mai tale mentalità] si è espressa in maniera così netta e priva di remore come nella circolare della Lega dei comunisti del marzo 1850, con le sue precise istruzioni sul modo in cui in occasione dell’imminente ripresa rivoluzionaria, i comunisti dovevano concentrare tutte le proprie forze sull’obiettivo della rivoluzione “permanente”. (…) Già in altra occasione ho avuto modo di osservare che il salariato moderno non è quella massa omogenea e uniformemente priva di legami con la proprietà, la famiglia ecc., che il Manifesto comunista prevede, e che proprio nelle industrie di fabbrica più avanzate è possibile trovare tutta una gerarchia di operai differenziati, tra i cui gruppi sussiste soltanto un modesto sentimento di solidarietà. [11]

Gli stessi luoghi comuni, da sempre. In fin dei conti, a cosa si riduce il riformismo se non a fotografare la realtà e poi cogliere all’interno dell’immagine statica ogni particolare che non giustifichi di per sé la rivoluzione. In verità Marx non idealizzò mai il proletariato. Al contrario spiegò scientificamente le condizioni che normalmente lo dividono:

Mentre il capitale è violenza sociale concentrata, il lavoratore può disporre soltanto della sua capacità lavorativa individuale. Il contratto tra lavoro e capitale non può quindi mai essere fondato su condizioni facili (…). L’unica forza sociale a disposizione dei lavoratori è il loro numero. La forza della quantità viene però spezzata dalla mancanza di unità. La divisione dei lavoratori viene prodotta e mantenuta conl’inevitabile concorrenza tra loro stessi[12]

La divisione che normalmente sussiste tra i lavoratori viene superata solo in condizioni determinate dagli interessi di classe che li accomunano. Quante volte da allora la classe è riuscita infatti ad infrangere con il proprio movimento reale i mille ostacoli oggettivi creati dal capitalismo. Il punto è che a tali ostacoli si sono aggiunti quelli soggettivi creati dalle stesse idee riformiste. E Bernstein ne fu il primo folgorante esempio. Mentre si lamentava dell’immobilismo dei lavoratori creava le teorie politiche con cui favorirlo, consigliando di non spaventare i capitalisti con richieste eccessive:

Se in una determinata branca industriale il saggio di profitto scende al di sotto del minimo generale, ciò può significare per il paese interessato la perdita di questa industria e il suo espatrio in quei paesi in cui i salari sono molto più bassi e le condizioni di lavoro molto peggiori. (…) Per fortuna questi casi estremi sono molto rari. In genere gli operai sanno benissimo fino a che punto possono spingere le loro rivendicazioni.

La genialità di Rosa Luxemburg non stava solo nel controbattere punto su punto gli errori del riformismo, ma nel coglierne l’inevitabile sviluppo. Tutto il ragionamento di Bernstein era permeato dall’idea di adattare il programma a ciò che è compatibile con il capitalismo. Questa logica stringente lo faceva arretrare su tutta la linea. La rinuncia alla rivoluzione in nome del movimento portava alla rinuncia stessa al movimento. La teorizzazione degli scioperi senza la necessità di rompere con le compatibilità del sistema portava direttamente alla necessità di non scioperare. Dietro alla parola d’ordine avanti piano si nascondeva  in realtà il piano di una ritirata senza fine. Così, prevedeva la Luxemburg, il riformismo sarebbe diventato ad un certo punto controriformismo:

Dunque anche da questo aspetto arriviamo conseguentemente, allo stesso modo che tutte le strade portano a Roma, al risultato che l’indicazione bernsteiniana di abbandonare lo scopo finale sfocia nell’altra: di rinunziare a tutto il movimento (…), che il suo consiglio alla socialdemocrazia di “mettersi a dormire” nel caso della conquista del potere, è identico ad un altro consiglio: di mettersi a dormire ora e in genere, ossia di abbandonare la lotta di classe. [13]


[1]  ROSA LUXEMBURG, Riforma sociale o rivoluzione, Newton Compton, Roma, 1978, p. 78.

[2]  PETER NETTL, Op. Cit., p. 128.

[3]  Ivi, p. 127.

[4]  EDUARD BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari, 1974, pp. 6-8.

[5]  ROSA LUXEMBURG, Riforma sociale o rivoluzione, Newton Compton, Roma, 1978, p. 3.

[6]  Ivi, pp. 62-63.

[7]  Ivi, pp. 4-12.

[8]  EDUARD BERNSTEIN, Op. Cit..

[9]  ROSA LUXEMBURG, Riforma sociale o rivoluzione, Newton Compton, Roma, 1978, p.21.

[10]  Ivi, p. 52.

[11]  EDUARD BERNSTEIN, Op. Cit..

[12]  KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, I sindacati dei lavoratori, Savelli, Roma, 1972, p.116.

[13]  ROSA LUXEMBURG, Riforma sociale o rivoluzione, Newton Compton, Roma, 1978, p.69.