La settimana che culmina nell’assise sindacale socialista del 10-11 settembre potrebbe dirsi la settimana in cui la paura della rivoluzione si rivela dominante: somma di timori, sospetti, impossibilità, recriminazioni, che non meno invadono le dirigenze proletarie di quanto non assillino quelle borghesi. Ciascuno teme che l’altro faccia il primo passo sulla via dell’ineluttabile e nessuno lo compie. Non per nulla il processo alle intenzioni durerà poi per anni ed anni con uno scambio di reciproche accuse all’interno stesso dei due campi contrapposti oltre che tra l’uno e l’altro, e nei confronti del governo.
Prima del Consiglio nazionale della CGL il punctum dolens della vertenza pare condensarsi in questo elemento: le organizzazioni operaie desiderano trattare mantenendo come pegno l’occupazione[i], né potrebbero fare altrimenti perché gli operai non solo non sono disposti ad abbandonare le fabbriche senza una vittoria economica, ma avanzano, un po’ dovunque, la richiesta che vengano loro retribuite le giornate di lavoro delle due settimane di occupazione; gli industriali non sono affatto intenzionati a cedere. Ancora il 10 settembre Ettore Conti annota che prevale nel corso di una riunione la tesi: entrare in trattative con la pregiudiziale dello sgombero delle officine e del ripristino della legalità[ii].
Tutta la evoluzione del fronte imprenditoriale subirà ancora una serie di scosse, di ripensamenti, di aspri ritorni all’intransigenza e Giolitti avrà ragione di questa resistenza soltanto con un atto di forza unito a una nuova pressione politico-finanziaria, che avremo modo di seguire. Ora, alla ribalta vengono piuttosto le contraddizioni del movimento operaio.
Quando a Milano si apre il Consiglio nazionale della CGL, la situazione delle fabbriche si presenta, sommariamente, con queste caratteristiche: il fenomeno dell’occupazione non solo si è mantenuto massiccio, ma si è esteso. In due sensi, ché, d’un lato, l’occupazione operaia giunge a toccare anche i centri minori ancora estranei alla lotta generale e, dall’altro, nelle grandi città del Nord, la tendenza che si manifesta è quella di invadere anche gli stabilimenti di altri settori, in specie chimici e tessili. Tra il 6 e l’8 settembre, per non fare che alcuni esempi, vengono occupate: la fonderia Fratte di Salerno, le miniere di lignite di Castelnuovo Magra, l’officina Oblach di Pontevicordazzere (Padova), la Piaggio di Finalmarina, tutte le officine meccaniche di Reggio Emilia, Oneglia e Rapallo. A Livorno, al cantiere Orlando – l’8 settembre – si vara un piroscafo da carico. Madrina è la moglie di Pietro Mascagni. Il maestro, per l’occasione, pronuncia un discorso inneggiante al ”crollo delle società anonime, piaghe d’Italia”.
A Torino ormai quasi tutta la classe operaia è partecipe dell’occupazione. Non solo le piccole, medie e grandi industrie del metallo (auto, carrozzerie, fonderie, fabbriche di accessori, materiale ferroviario, motori marini, macchine utensili, bullonerie, apparecchi di precisione, macchine tipografiche) bensì stabilimenti della gomma: la Spiga, la Michelin, la Walter Martiny, la Tedeschi, la Saiga, la conceria De Luca, fabbriche di calzature, tessili – da quattro importanti lanifici a quattro calzifici, dal cotonificio Hoffmann al Giordano, dall’industria della seta artificiale Viscosa della Venaria a quella dei pellami – e non solo in città ma in provincia. Si calcola che il numero degli operai torinesi o direttamente o per riflesso interessati all’occupazione raggiunga i 150.000.[iii]
Anche a Milano la novità della seconda settimana d’occupazione è il fenomeno della sua estensione agli stabilimenti non metallurgici. Sono occupate la Pirelli, che conta 20mila operai negli stabilimenti di Milano e della Bicocca, la Erba (a Milano e a Bergamo), le distillerie Campari, le fabbriche di Birra Italia, quelle della gomma Hutchinson. Il Corriere della Sera scrive – il 1° settembre – che “da quanto si diceva alla Camera del lavoro, l’occupazione dei principali stabilimenti chimici sarebbe suggerita dallo scopo di stabilire un controllo operaio sulla produzione nel vantaggio dei metallurgici scioperanti, cioè per assicurare il rifornimento delle materie occorrenti ai metallurgici”.
A Genova la polizia teme che gli operai occupino anche i silos della darsena e i depositi in genere. Il prefetto chiede “l’invio immediato di almeno una nave da guerra che contribuisca efficacemente alla difesa, se del caso”[iv]. Intanto nel porto gli operai occupano tre piroscafi.
L’estendersi dell’agitazione non sfugge alle autorità governative centrali che vengono dai loro fiduciari messe in guardia, in particolare, dal pericolo derivante dalla presa di possesso di altri settori industriali (che era, del resto, la preoccupazione massima di Turati e Treves).
Si tentenna finora – scrive uno di questi fiduciari l’8 settembre – perché la Confederazione e la FIOM non vogliono giungere a tanto; ma queste due organizzazioni, pertanto, vogliono salvarsi ad ogni costo e sanno che tutto andrà arotoli se la massa non potrà vantarsi di avere per lo meno una significante vittoria. La presa di possesso generale porterebbe a tale caos che ne verrebbe di conseguenza una qualsiasi azione di rivolta delle classi operaie anche perché porterebbe alla reazione dei ceti medi e degli elementi nazionalistici e antibolscevichi.
Non sono ipotesi campate in aria: il 9 settembre gli industriali torinesi, in numero di trecento, vanno in prefettura[v] a protestare per l’incuria governativa di fronte ad “altri delitti contro la proprietà”, e a minacciare che ”si vedranno costretti a sopperire di propria iniziativa a quella difesa che viene loro dal governo rifiutata”[vi] Non si segnalano, però, gravi violenze da parte degli operai occupanti. Incidenti sanguinosi avverranno soltanto nelle settimane successive.
L’atmosfera nelle fabbriche è creata da elementi oggettivi e stati d’animo compositi. Si continua a lavorare, e a produrre, in misura assai diversa da luogo a luogo, da officina ad officina. Ufficialmente restano in vigore le disposizioni per l’ostruzionismo ma in molti stabilimenti le Commissioni interne decidono di abbandonarlo per intensificare la produzione. Da più parti si preme per la vendita dei prodotti, data la situazione sempre più pesante delle famiglie dei lavoratori, senza salario dalla fine di agosto[vii] La FIOM consiglia di procedere ad un inventario generale nelle officine e in qualche città, come a Torino e a Milano, le Camere del lavoro intraprendono la vendita di qualche prodotto. Ma è cosa di poco conto, e a sopperire alle più urgenti necessità viene piuttosto una sovvenzione del movimento cooperativistico[viii], e provvede in primo luogo la solidarietà popolare con allestimento di “cucine comuniste”, con mille gesti di fraternità e di aiuto.
La mancanza degli impiegati e più ancora dei tecnici si fa sentire in un modo notevole: la sua misura varia da luogo a luogo ma è più sensibile laddove, come nelle grandi città, la lotta di classe è più acuta. È un elemento importante, codesto, non solo perché limita gravemente l’efficienza produttiva e la sperimentazione della nuova forma di gestione, ma perché mostra come, in questa stretta, la grande maggioranza del personale non operaio sceglie la solidarietà (seppure passiva e determinata spesso da preoccupazioni personali) con l’imprenditorato, il quale si adopera efficacemente a convincere impiegati e tecnici a disertare le officine, garantendo loro lo stipendio. Pesa anche in questo senso la propaganda della stampa non socialista e forse più ancora un atteggiamento generale di attesa. Si sta a vedere, in sostanza, in questi giorni cruciali chi è il più forte e non si vuole “rompere” con i proprietari prima che la partita sia decisa.
Si deve aggiungere, al tempo stesso, che l’assenteismo operaio è scarso, la disciplina nei reparti efficiente e sentita, la combattività largamente diffusa. Non esistono cifre complessive attendibili sulla produzione. Quelle che forniranno in seguito le associazioni industriali sono non meno partigiane (per ovvi motivi) di quelle che, nel corso della lotta, presentano i Comitati operai di gestione. Comunque, le fabbriche non restano inattive e molti quadri operai si sperimentano in nuove funzioni tecniche, direttive, amministrative, con risultati spesso egregi. La forma di direzione è in molte officine quella del Consiglio di fabbrica, ora costituito dai vecchi membri della Commissione interna ora formato sulla base di commissari di reparto, nominati per l’occasione, a volte dalla locale sezione della FIOM, a volte dalle assemblee operaie.
Il movimento dei Consigli di fabbrica non è però qualcosa di omogeneo, tale da costituire uno strumento paragonabile ai “soviet” operai nella rivoluzione russa o a movimenti analoghi in Germania, in Ungheria, in Inghilterra. Manca, pressoché ovunque, un’esperienza del genere, manca una centrale che coordini il movimento; troppo pressanti sono i problemi che giorno per giorno il Consiglio deve affrontare e le Camere del lavoro restano lo sbocco naturale, gerarchico, dell’organizzazione di base, con i loro orientamenti politici diversi, con le loro divisioni interne (particolarmente sensibili a Genova e a Firenze, ma anche a Milano).
In sostanza, il quadro offerto in questa settimana di primo collaudo della vita di fabbrica è tale che il movimento non può improvvisare una strutturazione per lo più inesistente: l’attività di direzione effettiva dei Consigli di fabbrica è robusta e capillare soltanto a Torino perché qui da quasi un anno tali organismi sono stati creati nelle officine metallurgiche (i primi Consigli di fabbrica risalgono proprio all’autunno del 1919). Altrove, essa sorge senza lo stesso criterio “autonomistico”, ed è frutto di una evidente commistione tra la Commissione interna e la sezione aziendale della FIOM[ix]. Ciò spiega di per sé come il movimento non possegga una sua organizzazione nazionale, una propria piattaforma politica. I torinesi fanno qualche tentativo in tale senso ma troppo vago, e ormai insufficiente. Lo si vedrà al convegno milanese della CGL.
Se però un movimento “consiliare” non prende rilievo tale da fare da contraltare rivoluzionario alle organizzazioni sindacali, si può ugualmente tenere per fermo che è ancora prevalente una pressione dalle fabbriche volta ad estendere e intensificare la lotta. Qua e là trapela qualche segno di stanchezza, e lo stato d’animo degli operai è, in molti casi, fatto più di esasperazione che di entusiasmo. “Alcuni di essi, poco educati, troppo utilitaristi forse, già domandavano soprattutto che si fornisse loro il mezzo di vivere giorno per giorno se si voleva che rimanessero nelle fabbriche” – ricorderà A. Baratono, al Congresso socialista del gennaio 1921[x]. A sua volta, D’Aragona ha sintetizzato cosi la situazione esistente alla vigilia del convegno:
Avevamo degli stabilimenti dove gli operai davano una vera dimostrazione di coscienza e di maturità; altri stabilimenti dove gli operai sapevano far funzionare la propria azienda cosi come quando c’era il capitalista a dirigerla e a governarla, ma avevamo altri stabilimenti dove, per una infinità di ragioni che non dipendevano soltanto dalla maturità della massa ma dalla mancanza di materie prime, dalla mancanza dei dirigenti, dei tecnici, ecc., si rendeva impossibile il funzionamento di quegli stabilimenti, e ne avevamo degli altri disertati dagli operai e dovevamo trasferire gli operai da uno stabilimento all’altro per avere un piccolo nucleo il quale desse la sensazione che là dentro c’erano ancora operai a dirigere e a governare[xi].
È vero che ci sono anche testimonianze di tutt’altro segno. Il segretario generale dell’USI, ad esempio, Armando Borghi, ricordando innumerevoli casi di estensione della lotta, da Bologna alla Spezia, da Torino a Firenze, da Genova a Livorno, parla di “una situazione ben rivoluzionaria”, di “ordine, entusiasmo, scambi di merci, fraternizzazione di tutte le categorie, lavoro regolare, volontà d’azione”[xii], e sottolinea il significato sintomatico di un convegno regionale delle organizzazioni sindacaliste liguri tenuto a Sampierdarena il 7 settembre in cui si sarebbe raggiunto l’accordo ”per una decisione ardita: creare il fatto compiuto coll’occupazione del primo porto d’Italia, Genova, e degli altri porti della Liguria, seguita immediatamente dalla occupazione generale di ogni ramo della produzione” [xiii].
L’accordo non si tramuta in realtà solo perché – assicura il Borghi – Maurizio Garino, un autorevole libertario torinese, dirigente della locale sezione FIOM, sostiene che la CGL, a Milano, deciderà essa di procedere alla occupazione generale. Quindi, “per il buon successo del movimento e per non pregiudicarlo con una mossa regionale anticipata, è necessario aspettare: il convegno si uniforma a questa attesa”.
A Torino la maggioranza degli operai appare favorevole ad una estensione e ad una radicalizzazione del movimento. Una grande emozione ha provocato la scoperta di documenti rinvenuti nei locali della direzione della Fiat, da cui risulta la compilazione di “liste nere” di operai sovversivi da licenziare (e che le ditte associate non dovrebbero riassumere), nonché l’esistenza di una organizzazione interna di “spionaggio” nei confronti dei lavoratori[xiv]. Dalla Fiat Centro, il 9 settembre, parte un telegramma per il Comitato d’agitazione a Milano: “Operai Fiat Centro intendono solo trattare al patto che si abolisca la classe dominante e sfruttatrice, altrimenti immediata guerra fino a completa vittoria”[xv].
Forse si è nel vero se si riassume la situazione notando come esista, si, una disparità di gradi nella tensione e nella forza del movimento (che si rifletterà, del resto, nel convegno) ma al contempo tutti siano ormai convinti che uno sbocco politico è necessario. “Una soluzione di carattere economico non è più possibile”[xvi] – afferma per primo D’Aragona al direttivo dei deputati del PSI, riunito a Milano.
Le riunioni si succedono l’una all’altra. Giovedì 9 settembre si riunisce il Consiglio direttivo della CGL, alla presenza di parecchi esponenti di partito per un primo “inventario” della situazione. È qui, nel corso di varie consultazioni dirette, che vengono interpellati i dirigenti socialisti torinesi. Si tratta di un episodio di grande interesse che si può, sulla base delle molteplici testimonianze rese[xvii], sintetizzare a questo modo. Sono presenti, per Torino, Palmiro Togliatti, segretario della locale sezione socialista e Nino Benso, per la Federazione provinciale del partito. Ad essi viene posta, dai dirigenti confederali, la domanda seguente: sareste in grado di attaccare voi per primi, dove attaccare significa appunto dare inizio ad un moto armato insurrezionale? Togliatti risponde di no. E la sua risposta è motivata nei termini seguenti:
Se vi fosse un attacco contro le officine la difesa è pronta e sarebbe efficace, non cosi l’attacco. La città è circondata da una zona non socialista e per trovare delle forze proletarie che aiutassero la città dovrebbero arrivare sino a Vercelli e a Saluzzo. Vogliamo sapere se si arriva ad un attacco violento ed insurrezionale; vogliamo sapere quali sono i fini che si vuole raggiungere. Non dovrete contare su una azione svolta da Torino sola. Noi non attaccheremo da soli: per farlo occorrerebbe un’azione simultanea delle campagne e soprattutto un’azione nazionale”[xviii].
Togliatti è per l’estensione del movimento, come lo saranno i rappresentanti torinesi nel convegno del 10-11 settembre. Benso non si pronuncia in modo sostanzialmente diverso. Aggiunge semplicemente:
Vi sono degli stabilimenti ben armati, altri ben poco. La Fiat Centro, che pare una delle meglio provviste, non ha che cinquemila colpi di mitragliatrice … La rivoluzione, se deve esservi, deve essere italiana, altrimenti le due città più spinte, Torino e Milano, saranno sopraffatte. Manca la preparazione… [xix]
Perché i dirigenti della CGL pongono il problema in quei termini ai compagni torinesi? Sono divenuti favorevoli all’insurrezione? Sanno invece che si risponderà loro, da quella parte, con un rifiuto? Oppure intendono mandare allo sbaraglio l’avanguardia torinese? Comincia con questo episodio il processo alle intenzioni, reciproco. Già nella risposta di Togliatti è evidente la diffidenza degli ordinovisti, e la loro preoccupazione di non essere lasciati soli, come era accaduto nell’aprile. Un anno dopo, “L’Ordine Nuovo”, in una nota redazionale, preciserà, con estrema asprezza, la misura di questa diffidenza e le sue ragioni:
Come era possibile che i torinesi non pensassero che l’offerta fosse un’abile trappola per ottenere che il movimento torinese fosse definitivamente schiacciato dalla polizia che aveva a Torino concentrato un imponente apparato di truppa? … A Torino si poteva nel quadro generale di una lotta nazionale sostenere l’urto delle forze governative e molte probabilità di vittoria esistevano; non si poteva però assumersi la responsabilità di una lotta armata senza avere la certezza che anche nel resto d’Italia si sarebbe lottato ugualmente, senza avere la certezza che la Confederazione, secondo il suo solito, non avesse lasciato addensare a Torino, come nell’aprile, tutte le forze militari del potere di Stato[xx].
D’Aragona ritorcerà quelle accuse.
Abbiamo interrogato i compagni di Torino – dirà al Congresso della CGL – perché ritenevamo che Torino fosse la città più preparata ad un’azione di questo genere e abbiamo chiesto loro: siete voi in condizioni di fare la lotta se la trasferiamo nel campo politico? E ci hanno risposto: se si tratta di difendere gli stabilimenti possiamo anche difenderli; se si tratta di uscire dagli stabilimenti per fare la lotta nelle strade, dopo dieci minuti noi siamo finiti. Ma la lotta che si doveva fare era proprio lotta per le strade…[xxi]
In un documento ufficiale della CGL si può leggere una annotazione più significativa.
Un movimento insurrezionale – afferma il direttivo della Confederazione – in Italia avrebbe dato modo alla borghesia di scatenare una violenta e sanguinosa reazione che avrebbe diminuito le nostre forze ed impedito il successivo svolgersi dell’azione politico-sindacale socialista. Questa nostra convinzione fu anche maggiormente rafforzata perché i rappresentanti della Sezione e della Federazione provinciale di Torino ebbero a dichiarare esplicitamente che anche in quella città, ritenuta la più rivoluzionariamente preparata, lo schiacciamento del proletariato, in caso di insurrezione, era da ritenersi sicuro[xxii].
La polemica acquista cosi un suo punto fermo. Che la CGL sia contro una prospettiva insurrezionale è palese, confermato da quel documento, laddove non bastasse l’azione continua e affannosa che da giorni I’on. D’Aragona, l’on. Bianchi, e altri dirigenti conducono, in contatto con il prefetto di Milano e lo stesso on. Corradini, per trovare una soluzione di compromesso alla vertenza. Soluzione politica e non più soltanto economica? Ecco il nodo che resta da sciogliere, ma che in nessun caso la CGL vorrà tagliare colla spada dell’insurrezione. Si può quindi osservare che una risposta diversa dei torinesi – anche senza voler ammettere l’ipotesi affacciata dall’ “Ordine Nuovo” di un disegno provocatorio nei loro confronti – non avrebbe di certo modificato quell’atteggiamento. Lo si vedrà quando, il giorno dopo, il partito avanza, dinanzi al Consiglio nazionale della CGL, l’idea di una lotta politica estrema.
Non meno sintomatico resta anche il fatto che i dirigenti di Torino avvertano per primi l’impossibilità di una battaglia offensiva, sentano il pericolo di un isolamento esasperato dalla barriera di sospetto che Ii separa dalla centrale sindacale. Una realtà grandeggia, dominante: la totale impreparazione militare del movimento. Se a Torino ci sono “dieci minuti di fuoco” a disposizione degli insorti, se la roccaforte della Fiat Centro ha soltanto cinquemila colpi di mitragliatrice, che dire degli altri centri? Proprio il 9 settembre, la polizia, col consenso degli occupanti, sequestra a Lecco 60mila petardi[xxiii] giacenti in un magazzino della Metalgraf. ”L’Ordine Nuovo”, che citerà l’episodio come sintomatico, ricorda che “a Milano – dove risiedeva lo stato maggiore del movimento – non si erano neppure curati di fare un inventario e una raccolta di armi e munizioni esistenti nelle fabbriche” [xxiv].
Si può forse sperare in un moto di popolo travolgente?
Il 10 mattina la direzione del partito pare muoversi in questo senso. In un suo odg proclama l’intenzione di “avocare a sé la responsabilità e la direzione del movimento estendendolo a tutto il paese e all’intera massa proletaria” [xxv]. Si intendono, col termine, gli operai industriali e quelli agricoli. La proposta è che l’occupazione sia estesa a tutte le fabbriche dandole un carattere permanente di moto espropriatore; che, assecondando i movimenti in atto, ci si spinga all’occupazione delle terre. E come far fronte alla reazione avversaria?
Si doveva prevedere – dirà al XVII Congresso del PSI la direzione – e si prevedeva con ciò che la borghesia non si sarebbe lasciata definitivamente espropriare senza tentare le estreme difese, pur conservando in suo pugno il potere politico e tutti i poteri difensivi dello Stato, e che conseguentemente il governo sarebbe uscito dalla sua neutralità. Si affermava anche da parte nostra la necessità di una rapida ed immediata preparazione per sostenere l’urto e muovere all’attacco per la presa del potere politico. La espropriazione sarebbe divenuta definitiva e la ricostruzione in senso comunista sarebbe stata possibile solo nel caso di vittoria del proletariato nel campo politico; ma nello stesso tempo il pegno tenuto in sua mano sarebbe stato tale che tutte le sue forze, tutte le sue audacie rivoluzionarie sarebbero state tentate dai lavoratori, i quali avrebbero avuto la prova che si trattava della battaglia finale e decisiva che esige senza risparmio, ogni sacrificio.[xxvi]
Non si può non essere sorpresi commisurando l’ampiezza e l’assoluta perentorietà di questa posizione alle vicende che, in poche ore, provocano il suo abbandono totale. La direzione del partito, unanime su quel programma, si riunisce prima da sola. È anche presente a Milano il direttivo del gruppo parlamentare ma non ha voce in capitolo. Manca il Consiglio nazionale del partito, che non si è potuto convocare a tempo. Quindi, ci si avvia a una situazione che può parere assurda a chi non tenga conto della complicata, bizantina, dicotomia del movimento; ci si avvia a fare del Consiglio nazionale della CGL (composto dei rappresentanti delle Camere del lavoro e delle federazioni di mestiere, di un collegio quindi nel quale prevalgono funzionari e rappresentanti sindacali spesso i più periferici nei confronti della responsabilità politica della lotta e dei suoi punti focali) il giudice supremo della rivoluzione prospettata dal partito.
Frattanto, sempre il 10 settembre, il Consiglio direttivo della CGL, in separata sede, elabora la propria piattaforma, del tutto antagonistica a quella della direzione socialista. La Confederazione non intende affatto affidare le sorti dell’agitazione al partito; ne rivendica la tutela e l’indirizzo. Essa decide “che obiettivo della lotta sia il riconoscimento da parte del padronato del principio del controllo sindacale delle aziende, intendendo con questo aprire il varco a quelle maggiori conquiste che devono immancabilmente portare alla gestione collettiva e alla socializzazione per risolvere cosi in modo organico il problema della produzione”[xxvii]. Niente rivoluzione, dunque, ma controllo sindacale, niente occupazione generale di tutti gli stabilimenti e delle terre, bensì aumento di solidarietà finanziaria coi metallurgici. Il Consiglio direttivo prenderà, in questo solco, le ulteriori decisioni, farà cioè quei passi presso il governo e presso gli industriali che saranno necessari.
Si è trovata cosi una soluzione politica alternativa al moto insurrezionale? Il “controllo sindacale” è una scappatoia offerta al movimento, è un’escogitazione strumentale, oppure è frutto di un orientamento generale, di una prospettiva di fondo? Su questo punto lunghe e ininterrotte saranno le polemiche. Prospettare un controllo sindacale risponde certamente a un’inclinazione ideologica e a una convinzione politica, se non dell’on. D’Aragona, di altri dirigenti confederali riformisti e viene anche incontro a una richiesta operaia (da qualcuno si è collegata infatti strettamente la richiesta con la scoperta dei “documenti segreti” della Fiat). Non meno vero e riscontrabile, però, è il fatto che tale piattaforma sorge dall’urgenza di attuare quella che Tasca chiamerà “una fuga in avanti”, per sottrarsi appunto a una soluzione estrema. Quando la CGL sarà attaccata, su questo punto, dal rappresentante russo dei sindacati, A. Lozovskij, esprimerà apertamente le ragioni di fondo che indussero il suo gruppo dirigente ad opporsi all’idea di uno sbocco insurrezionale. Eccole: “Un movimento rivoluzionario che implicasse il perdurare in un tempo non brevissimo della guerra civile porterebbe il proletariato alla più completa e disperata fame”[xxviii]. Lo spettro del “blocco dall’estero” proprio ora è evocato in termini assolutamente preclusivi.
Che cosa replica a tali argomentazioni la direzione del partito? È la sera del 10 settembre che i due organismi dirigenti tengono una drammatica seduta comune confrontando le rispettive, opposte, prese di posizione. D’Aragona, Baldesi, Dugoni, mettono la direzione del partito di fronte a un dilemma preciso: se volete fare la rivoluzione, noi ci tiriamo da parte, noi vi lasciamo la direzione della Confederazione.
Voi credete – dice D’Aragona – che questo sia il momento per far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio, vi diciamo che ci ritiriamo e diamo le nostre dimissioni. Sentiamo che in questo momento è doveroso il sacrificio delle nostre persone; prendete voi la direzione di tutto il movimento[xxix].
È interessante notare come Gennari, segretario del partito, riconoscerà pubblicamente l’onestà di questa dichiarazione aggiungendo che D’Aragona e gli altri si erano detti “pronti ad affrontare ogni rischio e ogni pericolo”[xxx], quando fosse stato chiaro che non più loro era la responsabilità della lotta.
Dinanzi al netto pronunciamento dei capi della Confederazione, la direzione del partito (in cui sono rappresentati anche gli ordinovisti con Terracini, nonché uomini che si schiereranno al congresso di Livorno nelle file comuniste come lo stesso Gennari e altri)[xxxi] replica portando il dissenso dinanzi al Consiglio nazionale della Confederazione! E tutte le testimonianze comprovano che si tratta di un gesto di fedeltà formale alle prese di posizione assunte, ma già carico di rinunzia sostanziale. Tutti i membri della direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della CGL alla testa delle masse quello che uno di essi chiamerà “il gran salto” [xxxii] non si può fare. Lo ammetterà, per primo, in una dichiarazione resa alla tribuna del III Congresso dell’Internazionale comunista (luglio 192 I), Umberto Terracini.
Quando i compagni che dirigevano la CGL dettero le dimissioni – egli ricorderà – la direzione del partito non aveva né con chi sostituirli né la possibilità di sostituirli. Erano Dugoni, D’Aragona, Buozzi che avevano nelle loro mani la direzione della CGL: erano i rappresentanti della massa in tutte le occasioni[xxxiii].
Lo ammetterà anche Gennari in termini ancora più scoperti a Livorno (GENNARI: “la direzione del partito non poteva in nessun modo accettare l’offerta”; VOCI: “Perché avevate paura”; GENNARI: “La Direzione del partito non doveva accettare una simile offerta che implicava una così grave responsabilità”[xxxiv]).
Lo confermerà, a sua volta, con accorata voce, Schiavello, rappresentante dell’opposizione di sinistra nella CGL:
Abbiamo tutti quanti subito una condizione di fatto forse voluta, anzi senza forse, voluta da noi stessi. Mancava un organismo, mancava un partito che avesse l’anima delle folle in mano. Mancava un partito che non vivesse in mezzo a due anime distinte. Mancava una mano di ferro. Forse mancava il Partito comunista, compagni![xxxv].
Sta di fatto che il Consiglio nazionale della CGL, I’11 settembre, si trova dinanzi a due mozioni: l’una è quella di D’Aragona, già ricordata; l’altra, che riflette la posizione del partito, è firmata da Schiavello e da Bucco, di Bologna, e suona cosi: il Consiglio nazionale della Confederazione Generale del Lavoro demanda alla Direzione del Partito l’incarico.
Si è delineata, il giorno prima, una terza posizione intermedia, sostenuta da Bruno Buozzi, a nome del direttivo della FIOM, che sostiene l’estensione del movimento a tutte le categorie con il programma di “attuare tutte le riforme politiche ed economiche più insistentemente reclamate dal proletariato socialista e compatibili con le condizioni del Paese”[xxxvi]. Se nonché, dinanzi alle radicalizzazioni delle due posizioni contrapposte, Buozzi decide di astenersi, in verità assai più preoccupato dei pericoli della soluzione massimalista che di quelli dell’altra.
“Mi scaldai più di tutti – racconterà l’anno appresso – contro Gennari e il suo odg, secondo me ingenuo. Ma come, dicevo, volete andare in un convegno a far votare questo odg e renderlo di pubblica ragione? Avvertire tutta la borghesia d’Italia che domani estendiamo l’agitazione a tutte le aziende per l’immediato abbattimento del regime borghese? E dicevo a Gennari: con questo odg giustificherete la più immediata e spietata delle reazioni”[xxxvii].
Persino da coloro che si apprestano a votare l’odg di Bucco e Schiavello sappiamo che il loro stato d’animo era di scetticismo. Uno di essi, Bensi, di Milano, dirà, a sua volta:
Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluta trasportare nel nostro paese[xxxviii].
Dalla tribuna, tra il 10 e l’11, si mostrano favorevoli all’estensione del movimento Tasca (che voterà l’odg Bucco-Schiavello), Giulietti, Donati, ma la sorte delle urne è segnata dalla maggioranza sicura che può gettare sulla bilancia il direttivo della CGL. Le Camere del lavoro a orientamento riformista, da Genova a molte altre minori, i dirigenti della Federterra, guidati da Mazzoni[xxxix] (mentre il fenomeno dell’occupazione delle terre nel Mezzogiorno avviene del tutto al di fuori della loro influenza) e schierati con D’Aragona e Dugoni perché ostili a impegnare il proletariato agricolo nella lotta, garantiscono questa maggioranza: basti pensare che quasi la metà degli organizzati della CGL sono lavoratori del settore agricolo. Non hanno, del resto, diritto al voto i rappresentanti dei ferrovieri, dei marittimi e dei portuali (il Sindacato ferrovieri italiani, la Federazione lavoratori del mare sono autonomi), né vengono invitati al convegno gli uomini dell’usi, i sindacalisti rivoluzionari.
La votazione dà questo risultato: odg D’Aragona, voti 591.245; odg Bucco, voti 409.569. Astenuti (molte sezioni FIOM) 93.623. La rivoluzione è respinta a maggioranza.
Subito dopo la lettura dell’esito della votazione Gennari fa una dichiarazione che diverrà emblematica del “gran rifiuto” socialista. Egli dice, richiamandosi al patto d’alleanza tra partito e Confederazione, che la direzione del PSI potrebbe assumere su di sé il movimento, in un certo senso “cassare” la decisione presa a maggioranza (una maggioranza notevole anche se non schiacciante: 181 676 voti). Però, “in questo momento, la direzione del partito non intende valersi di tale facoltà che le viene dal patto di alleanza”[xl]. Potrebbe darsi – aggiunge il segretario del PSI – che in seguito, per mutate circostanze, per una nuova situazione politica, la direzione lo facesse. In ogni caso, non lo farà. La rivoluzione accetta democraticamente d’essere procrastinata sine die.
Con spietato sarcasmo Angelo Tasca scriverà:
“La vaga allusione di Gennari al futuro non impegna niente. La realtà è tutt’altra. La direzione del partito ha perduto dei mesi interi a predicare la rivoluzione, non ha previsto niente, niente preparato: quando i voti di Milano danno la maggioranza alle tesi confederali, i dirigenti del partito tirano un sospiro di sollievo. Liberati adesso da ogni responsabilità possono gridare a piena gola al tradimento della CGL: hanno cosi qualche cosa da offrire alle masse che hanno abbandonato al momento decisivo, felici che un tale epilogo permetta loro di salvare la faccia”[xli].
Più laconico ma sostanzialmente con giudizio non diverso, Nenni scriverà che il convegno del 10-11 settembre “liquidò la soluzione politica, complice la stessa direzione del partito la quale aveva voluto perdere”[xlii]. Luigi Einaudi, a sua volta, osserverà che “i capi socialisti volevano solo a parole l’assalto al regime” e “si rassegnarono facilmente alla vittoria dei moderati organizzatori”[xliii].
Si tratti di rassegnazione oppure di volontà deliberata, un punto va però chiarito: che resta, dopo il convegno, stante la tensione tuttora esistente, un margine di incertezza: una certa soluzione politica è ipotizzata dai”vincitori”, mentre i “vinti”, attraverso I’“Avanti!” di Milano commentano: “I fatti rivoluzionari si riproducono ad ondate e dopo uno che si crede fallito ecco che, prima o poi, un altro ne sorge anche più importante e forse decisivo”. L’altalena delle promesse e dei rinvii continua dunque? Questo si dovrà concludere, in un giudizio generale. Ora, nessuno ha la certezza che “l’occasione rivoluzionaria” sia definitivamente perduta. Né a destra né a sinistra. Non l’hanno i riformisti, non l’ha la borghesia, non l’hanno le masse occupanti.
Persino i sindacalisti dell’USI si mantengono ambigui ma speranzosi sul”prima o poi”. Al”convegno interproletario” indetto per il I 2 settembre (cui partecipano anche l’Unione anarchica, rappresentanti dello SFI e della Federazione del mare) l’Unione sindacalista decide che “non si può fare da sé” [xliv], senza il partito socialista e la CGL, protesta contro il “voto controrivoluzionario” di Milano, lo dichiara nullo, arbitrario e minoritario e conclude lanciando nuovi, generici[xlv] quanto ardenti, appelli all’azione.
Su “Umanità Nova” si invitano i contadini a occupare le terre, i marinai a occupare le navi, i ferrovieri a non far marciare i treni, i postini “a sopprimere la corrispondenza della borghesia” [xlvi], i soldati a rivolgere le armi contro gli oppressori. Eppure, proprio in queste assise proletarie, la realtà ha tutt’altro segno: gli stessi rappresentanti delle correnti rivoluzionarie sono i primi a constatare l’isolamento del movimento di classe: rispetto alle campagne, rispetto ai ceti intermedi delle città, rispetto agli ex combattenti.
È un isolamento che la CGL valuta sullo stesso piano internazionale, in termini di blocco economico senza che trovi contraddittori a simile prospettiva catastrofica. Nessuna eco giunge, a questi convegni, del punto di vista della III Internazionale. Neppure si sa se questo venga espresso. Serrati si trova in viaggio, come Borghi, come Bordiga: un lungo viaggio di ritorno da Mosca con molte tappe intermedie. Nonostante che qualche giornale conservatore nei giorni successivi favoleggi di “ordini di Mosca” ricevuti da Gennari, la verità è che nessun collegamento esiste, su questo piano dell’azione, tra l’esecutivo dell’Internazionale e la direzione del PSR. Essa si sente davvero isolata : le notizie degli avvenimenti italiani sono, a loro volta, lente a giungere a Mosca se soltanto il 21 settembre si riunirà l’esecutivo dell’Internazionale comunista per discuterli e affiderà al suo segretario generale, Zinov’ev, la stesura di un appello al proletariato italiano.
Il 21 settembre il movimento sarà ormai esaurito e non potranno non suonare allora anacronistiche – ammesso che siano note ai militanti, poiché l’“Avanti!” non le pubblica – le esortazioni ivi contenute ad una presa del potere, ad una insurrezione armata, all’epurazione del partito, alla formazione di consigli di operai, di contadini, di soldati e di marinai[xlvii].
Questo mancato collegamento non è ultimo dei fattori che provocano la debolezza del PSI, le sue difficoltà politiche, nonché l’incomprensione reciproca che si creerà più forte nei mesi che separano questo periodo dal terzo congresso dell’Internazionale, nel luglio del 1921. Si noti ancora che il fallimento dell’avanzata dell’Armata Rossa in Polonia – evidente ormai alla fine dell’agosto del 1920 – non può che aver rafforzato tra i dirigenti politici e sindacali socialisti riuniti a Milano i consigli di prudenza e la preoccupazione di rimanere isolati e “bloccati” nell’Europa occidentale, in caso di sviluppo rivoluzionario della situazione italiana.
[i] Cfr., su questo punto, la testimonianza interessante di un industriale riferita da una fonte fascista: MARIO FINZI, L’occupazione delle fabbriche, Bologna 1935, p. 23.
[ii] ETTORE CONTI, Dal taccuino di un borghese cit., pp. 236-37.
[iii] Cfr. per un’analisi più ampia della situazione PIETRO BORGHI, La gestione operaia delle officine occupate a Torino, in “L’Ordine Nuovo”, 2 settembre 1921.
[iv] Telegramma delle ore 20:45 del 9 settembre (ACS, Ministero degli Interni [1920], Ufficio cifra).
[v] Informazioni fiduciarie: foglio dattiloscritto anonimo, datato Roma, 8 settembre 1920, in ACS, Ministero degli Interni, Direzione generale di PS, Affari generali e riservati, D. 13, busta 74. Cfr. il testo in Appendice.
[vi] Cfr. i giornali torinesi del 10 settembre 1920, che pubblicano il comunicato degli industriali stilato dopo la visita al prefetto.
[vii] Significativo questo passo dell’“Avanti! “,ed. piemontese, del 10 settembre: “Per ordine della FIOM continua in tutti gli stabilimenti l’ostruzionismo. Ma gli operai avrebbero preferito interromperlo per aumentare ancora maggiormente la produzione che essi vorrebbero porre in commercio”.
[viii] La organizzazione della FIOM stipulò un mutuo con l’Istituto di credito per le cooperative. L’ammontare sarebbe stato di 25 milioni, assicurato dalla Banca commerciale italiana, secondo indiscrezioni di I. Minunni (Storia della capitolazione industriale, in “L’Idea Nazionale”, 19 settembre 1920). Anche Angelo Tasca ha un cenno in tale senso: “I dirigenti della Banca commerciale assicurano la FIOM della loro benevola neutralità ed offrono e chiedono dei pegni in caso di una conclusione rivoluzionaria del movimento”. Non abbiamo però trovato traccia, nelle carte consultate presso l’archivio della Banca commerciale, né di contatti epistolari né di un avallo della Banca per quella operazione finanziaria. L’Istituto nazionale di credito per le cooperative fu fondato nel 19r4 con decreto reale, col concorso di varie Casse di risparmio, della Banca d’Italia, della Cassa per le assicurazioni sociali. Sorse con 8 milioni di capitale. Nel 1925 aveva un patrimonio di oltre 300 milioni. (Cfr. B. RIGUZZI e R. PORCARI, La cooperazione operaia, Gobetti, Torino 1925, pp. 136-47).
[ix] Interessante è una notizia pubblicata dalla “Nazione” del 7 settembre secondo la quale la sezione fiorentina della FIOM dà disposizioni per la formazione dei Consigli di fabbrica nel modo seguente: 1) eleggere un commissario per reparto; 2) il potere disciplinare spetta alla Commissione interna coadiuvata dai commissari di reparto; 3) il Consiglio di fabbrica deve essere composto di un numero eguale di operai, scelti tra i commissari di reparto, e di impiegati. Come si vede, l’applicazione è assai lontana dall’ispirazione che regge i Consigli torinesi: cioè la sostituzione delle vecchie Commissioni interne con i Consigli di fabbrica che ne devono esprimere una nuova.
[x] Cfr. il Resoconto stenografico del XVII Congresso nazionale del PSI, ed. della direzione del PSI, Roma 1921, p. 81.
[xi] Cfr. il Resoconto stenografico del X Congresso della Resistenza, V della CCL cit., intervento di Ludovico D’Aragona, pp. 253-54.
[xii] ARMANDO BORGHI, L’Italia tra due Crisi cit., p, 271. Va notato però che il Borghi è assente dall’Italia in quei giorni: rientrerà il 20 settembre 1920 da un viaggio in Russia.
[xiii] ARMANDO BORGHI, L’Italia tra due Crispi cit., pp. 260-6r.
[xiv] L’“Avanti! “, ed. piemontese, del 6 settembre dà la notizia in modo sensazionale. Gli operai hanno rinvenuto negli uffici della direzione Fiat uno schema di patto proposto dalla Lega industriale di Torino agli industriali dell’AMMA che contempla una serie di misure atte sia a garantire la disciplina sindacale del padronato sia a impedire la riassunzione, da parte di ditte consorziate, di personale già licenziato per ragioni politiche da una di esse. L’ AMMA – risulta dal documento – è in possesso di un vero e proprio schedario con nominativi degli operai qualificati come “sovversivi”. Gramsci dedica all’episodio un articolo (L’organizzazione capitalistica, in “Avanti!“, ed. piemontese, 7 settembre 1920) sottolineando “lo strapotere di un pugno d’individui”, entro lo Stato legale, contro lo Stato di diritto.
[xv] Cfr. “Avanti!“, ed. piemontese, 10 settembre 1920.
[xvi] Dall’“Avanti!“, ed. romana, 11 settembre 1920.
[xvii] A parte i documenti ufficiali e gli scritti del periodo 1920-21 che ricordiamo più avanti, cfr. MASSIMO MASETTI, “L’Umanità” dell’11 e 12 agosto 1949 e M. e M. FERRARA, Conversando con Togliatti, Edizioni di Cultura sociale, Roma, pp. 80-82.
[xviii] La CGL nel sessennio 1914-20 cir., p. 87. L’on. Togliatti ci ha confermato la sostanziale esattezza del resoconto curato dalla CGL, per ciò che lo concerne.
[xix] La CGL nel sessennio I9I4-20 cit., p. 88.
[xx] Aprile e settembre 1920, articolo non fumato, sull’“Ordine Nuovo”, 7 settembre 1921.
[xxi] Resoconto stenografico del X Congresso della Resistenza, V della CGL cit., intervento di Ludovico d’Aragona, p. 253.
[xxii] Da “Battaglie sindacali”, 20 novembre 1920. Il direttivo aveva discusso in questa riunione l’accusa di A. Lozovskij, sindacalista russo, alla CGL di riformismo e di freno all’azione delle masse. (Cfr. La CGL nel sessennio I9I4-20 cit., p. 309).
[xxiii] Ne dà notizia il “Corriere della Sera” del 10 settembre precisando che, dopo una trattativa condotta dal sottoprefetto con la Commissione interna, dodici camion militari provvedono al trasporto dei 60mila petardi, residuo di forniture per l’esercito.
[xxiv] Dal numero citato a p. 104, nota 2.
[xxv] Da La CGL nel sessennio 1914-20 cit., p. 30.
[xxvi] XVII Congresso nazionale del Partito socialista italiano, Livorno 15- 20 gennaio 1921, Relazione politica della direzione del partito, Tip. Luigi Morara, Roma.
[xxvii] La CGL nel sessennio I9I4-20 cit., p. 90
[xxviii] Dalla risposta del Consiglio direttivo della CGL alla lettera di A. Lozovskij, membro della Presidenza del Soviet centrale russo delle Unioni professionali, pubblicata in “Battaglie Sindacali”, 20 novembre 1920, e riportata nel volume citato a p. 68, nota 2.
[xxix] La CGL nel sessennio 1914-20 cit., p. 32.
[xxx] Intervento di Egidio Gennari nella seduta pomeridiana del 19 gennaio 1921. Cfr. Resoconto stenografico del XV II Congresso nazionale del PSI cit., p. 262.
[xxxi] La direzione del PSI eletta al Congresso di Bologna del 1919 era costituita da Giovanni Bacci, Ambrogio Belloni, Nicola Bombacci, Arduino Fora, Egidio Gennari, Gino Giacomini, Anselmo Marabini, Vincenzo Pagella, Giovanni Regent, Luigi Repossi, Edoardo Sangiorgio, Giacinto Me. notti Serrati, Giuseppe Tuntar, Arturo Vella. In seguito alla loro elezione a deputati decaddero da membri della direzione Bacci, Belloni, Bombacci, Fora, Marabini, Pagella, Repossi e Velia e furono sostituiti da A. Baratone, Terracini, G. Bellone, Casimiro Casucci, Emilio Lamerini, Tito Marziale, Cesare Sessa e G. Gimino.
[xxxii] Adelchi Baratone, cfr. il suo intervento al XVII Congresso del PSI, voi. cit., p, 82.
[xxxiii] Il discorso di Terracini venne pubblicato in La questione italiana al III Congresso dell’Internazionale comunista, Libreria Editrice del PCdI, Roma, pp. 51-58. Cenni alla questione dell’occupazione delle fabbriche e dell’atteggiamento dei comunisti italiani in quel frangente vi sono pure nei discorsi di Clara Zetkin, Rakovskij, Lenin, Lazzari, Gennari riprodotti nello stesso volume, come diremo più avanti.
[xxxiv] Dall’intervento di Gennari al XVII Congresso del PSI, nel volume cit., p. 264
[xxxv] Dal discorso di Ernesto Schiavello, seduta pomeridiana del 18 gennaio 1921, XVII Congresso del PSI. Cfr. il vol. cit., p. 19.
[xxxvi] Cfr. L’intervento di Bruno Buozzi al V Congresso della CGL, febbario-marzo 1921, vol. Cit. P. 163, nonché lo scritto dello stesso BUOZZI, L’occupazione delle fabbriche cit. P. 81.
[xxxvii] Dall’intervento di Buozzi citato nella nota precedente.
[xxxviii] Cfr. l’intervento di Bensi a p. 67 del volume cit. Di resoconto del V Congresso della CGL.
[xxxix] Sulla politica e sull’orientamento della Federterra dà un esauriente quadro Renato Zangheri nella sua introduzione a Lotte agrarie in Italia, Feltrinelli, Milano 1960. Su questo preciso momento lo Zangheri scrive: “Isolata dagli altri settori del movimento contadino la Federterra manca altresì di collegamento con le lotte operaie. Nel settembre 1920, quando nelle fabbriche occupate si combatte la battaglia decisiva di questo dopoguerra, la Federterra manifesta in sede confederale la propria avversione ad estendere l’agitazione alle campagne”. Lo stesso Mazzoni ha testimoniato, in uno scritto sul tema. apparso sull’“Umanità” del 30 agosto 1949, di essersi battuto apertamente per scongiurare gesti irreparabili che “sarebbero ricaduti sul più povero e più debole proletariato dei campi”.
[xl] Cfr. il testo della dichiarazione di Serrati in La CGL nel sessennio 1914·20 cit., p. 96.
[xli] ANGELO TASCA, Nascita e avvento del fascismo cit., p. 122. 2 PIETRO NENNI, Storia di quattro anni cìt., p. 122.
[xlii] PIETRO NENNI, Storia di quattro anni cit. P. 103
[xliii] LUIGI EINAUDI, La condotta economica. della guerra cit., p. 332.
[xliv] Cfr. sull’andamento del convegno una cronaca dettagliata di Armando Borghi (op. cit., pp. 283-90).
[xlv] In pratica, in seguito al convegno, si stimola a Verona l’occupazione di opifici tessili e nelle Puglie di terre incolte e abbandonate.
[xlvi] Dal numero dell’11 settembre 1920
[xlvii] Da “L’Internationale communiste”, anno I (1920), n. 14 (novembre), col. 2917-22. Compte-rendu des séances du CE de l’IC, séance du 21 septembre. L’appello di Zinov’ev al proletariato italiano porta la data del 22 settembre 1920. Lo riprodurrà per esteso l’edizione tedesca, “Das Communistische Internationale”, anno II (1921), n. 14, pp. 230-31.