Guida alla lettura

Questo articolo è pubblicato senza firma sull’Ordine Nuovo l’8 novembre 1919.

Qui il discorso teorico di “Sindacati e consigli” si arricchisce di un’ulteriore distinzione: quella tra sindacalismo e movimento dei consigli. Gramsci spiega perché il movimento dei consigli nato a Torino e le sue rivendicazioni siano fondamentalmente differenti dal cosiddetto sindacalismo rivoluzionario. Mentre quest’ultimo, infatti, non è che un sottoprodotto della società capitalista, i consigli di fabbrica proiettano i lavoratori verso un superamento di questa società in quanto li costringono e li abituano ad assumere un’ottica collettiva e globale, che promuove una visione d’insieme, e quindi sociale, della fabbrica e della produzione. Tutto questo permette al lavoratore di fare un salto in avanti qualitativo e di vedere chiaramente la propria funzione attiva nel processo produttivo e di concepirla come indipendente da quella di un privato proprietario. In questo modo, slegando la funzione propria produttività dall’accumulo di capitale, il lavoratore diventa comunista e rivoluzionario.

L’articolo è attraversato da una feroce polemica contro le diverse tendenze sindacaliste italiane. Tale polemica permette a Gramsci di mettere bene in evidenza, per contrasto, come il movimento dei consigli non vada interpretato e quali siano i suoi insegnamenti in positivo.


Siamo noi sindacalisti? Il movimento, iniziatosi a Torino, dei commissari di reparto, è nient’altro che l’ennesima incarnazione localistica della teoria sindacalista? È davvero esso il piccolo turbo che preannunzia le devastazioni del ciclone sindacalista marca indigena, di quel conglomerato di demagogia, di enfatico verbalismo pseudorivoluzionario, di spirito indisciplinato e irresponsabile, di maniaco esagitarsi di pochi individui dall’intelligenza limitata (poco cervello e molta gola) che sono finora riusciti, qualche volta, a saccheggiare la volontà delle masse, il quale rimarrà negli annali del movimento operaio italiano contrassegnato dalla etichetta: sindacalismo italiano?

La teoria sindacalista[1] ha completamente fallito nell’esperienza concreta delle rivoluzioni proletarie. I sindacati hanno dimostrato la loro organica incapacità a incarnare la dittatura proletaria. Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo, la pratica «del pane e del burro». L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, da piccola e media borghesia. Eppure compito elementare del sindacato è quello di reclutare «tutta» la massa, è quello di assorbire nei suoi quadri tutti i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura. Il mezzo non è dunque idoneo al fine, e poiché il mezzo non è che un momento del fine che si realizza, che si fa, si deve concludere che il sindacalismo non è mezzo alla rivoluzione, non è un momento della rivoluzione proletaria, non è la rivoluzione che si realizza, che si fa: il sindacalismo non è rivoluzionario che per la possibilità grammaticale di accoppiare le due espressioni.

Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai secondo lo strumento di lavoro o secondo la materia da trasformare, cioè il sindacalismo unisce gli operai a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico. Il servirsi di uno strumento di lavoro piuttosto che di un altro, il modificare una determinata materia piuttosto che un’altra, rivela capacità e attitudini disparate alla fatica e al guadagno; l’operaio si fissa in questa sua capacità e in questa sua attitudine e la concepisce non come un momento della produzione, ma come un puro mezzo di guadagno.

Il sindacato di mestiere o di industria, unendolo con i suoi compagni di quel mestiere o di quell’industria, con quelli che nel lavoro usano il suo stesso strumento o che trasformano la stessa materia che egli trasforma, contribuisce a rinsaldare questa psicologia, contribuisce ad allontanarlo sempre più da un suo possibile concepirsi come produttore, e lo porta a considerarsi «merce» di un mercato nazionale e internazionale che stabilisce, col gioco della concorrenza, il proprio prezzo, il proprio valore.[2]

L’operaio può concepire se stesso come produttore, solo se concepisce se stesso come parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell’oggetto fabbricato, solo se vive l’unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato, dell’impiegato di amministrazione, dell’ingegnere, del direttore tecnico. L’operaio può concepire se stesso come produttore se, dopo essersi inserito psicologicamente nel particolare processo produttivo di una determinata officina (per es. a Torino, di una officina automobilistica) e dopo essersi pensato come un momento necessario e insopprimibile dell’attività di un complesso sociale che produce l’automobile, supera questa fase e vede tutta l’attività torinese dell’industria produttrice di automobili, e concepisce Torino come una unità di produzione che è caratterizzata dall’automobile e concepisce una grande parte dell’attività generale del lavoro torinese come esistente e sviluppantesi solo perché esiste e si sviluppa l’industria dell’automobile, e quindi concepisce i lavoratori di queste molteplici attività generali come anch’essi produttori della industria dell’automobile, perché creatori delle condizioni necessarie e sufficienti per la esistenza di questa industria. Muovendo da questa cellula, la fabbrica, vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre più vaste unità, fino alla nazione, che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione, caratterizzato dalle sue esportazioni, dalla somma di ricchezza che scambia con una equivalente somma di ricchezza confluente da ogni parte del mondo, dai molteplici altri giganteschi apparati di produzione in cui si distingue il mondo. Allora l’operaio è produttore, perché ha acquistato coscienza della sua funzione nel processo produttivo, in tutti i suoi gradi, dalla fabbrica alla nazione, al mondo; allora egli sente la classe, e diventa comunista, perché la proprietà privata non è funzione della produttività, e diventa rivoluzionario perché concepisce il capitalista, il privato proprietario, come un punto morto, come un ingombro, che bisogna eliminare. Allora concepisce lo «Stato», concepisce una organizzazione complessa della società, una forma concreta della società, perché essa non è che la forma del gigantesco apparato di produzione che riflette, con tutti i rapporti e le relazioni e le funzioni nuove e superiori domandate dalla sua immane grandezza, la vita dell’officina, che rappresenta il complesso, armonizzato e gerarchizzato, delle condizioni necessarie perché la sua industria, perché la sua officina, perché la sua personalità di produttore viva e si sviluppi.[3]

La pratica italiana del sindacalismo pseudorivoluzionario[4] è negata dal movimento torinese dei commissari di reparto così come la pratica del sindacalismo riformista: è negata in doppio grado, poiché il sindacalismo riformista rappresenta il superamento del sindacalismo pseudorivoluzionario. Infatti, se il sindacato può solo dare agli operai «pane e burro», se il sindacato può solo, in regime borghese, assicurare uno stabile mercato dei salari e può eliminare alcune delle alee più pericolose per l’integrità fisica e morale dell’operaio, è evidente che la pratica riformista meglio di quella pseudo-rivoluzionaria ha ottenuto questi risultati. Se a uno strumento si domanda più di quanto può dare, se si fa credere che uno strumento possa dare di più di quanto la sua natura consente, si commettono solo spropositi, si esplica un’azione puramente demagogica. I sindacalisti pseudo-rivoluzionari d’Italia sono condotti spesso a discutere se non convenga fare del sindacato (per esempio, del sindacato ferroviario) un cerchio chiuso, comprendente solo i «rivoluzionari», la minoranza audace che trascini le masse fredde e indifferenti; essi cioè sono condotti a rinnegare il principio elementare del sindacalismo, l’organizzazione di tutta la massa. Perché intimamente e inconsapevolmente intuiscono l’inanità della «loro» propaganda, l’incapacità del sindacato a dare una forma concretamente rivoluzionaria alla coscienza dell’operaio. Perché non si sono mai prospettati con chiarezza e precisione il problema della rivoluzione proletaria, perché, essi, i seguaci della teoria dei «produttori» non hanno mai avuto coscienza di produttori; essi sono dei demagoghi, non dei rivoluzionari, degli agitatori di… sangue messo in tumulto dal fuoco fatuo dei discorsi, non degli educatori, non dei formatori di coscienze.

Il movimento dei commissari sarebbe nato e si svilupperebbe solo per sostituire Borghi[5] a Buozzi[6] o a D’Aragona?[7] Il movimento dei commissari è la negazione di ogni forma di individualismi e di personalismi. Esso è l’inizio di un grande processo storico, nel quale la massa lavoratrice acquista coscienza della sua inscindibile unità basata sulla produzione, basata sull’atto concreto del lavoro, e dà una forma organica a questa sua coscienza, costruendosi una gerarchia, esprimendo questa gerarchia dalla sua intimità più profonda, perché essa sia se stessa come volontà consapevole di un preciso fine da raggiungere, di un grande processo storico che irresistibilmente, nonostante gli errori che individui possono commettere, nonostante le crisi che le condizioni nazionali e internazionali possono determinare, irresistibilmente culminerà nella dittatura proletaria, nell’Internazionale comunista.

La teoria sindacalista non ha mai espresso una simile concezione del produttore e del processo di sviluppo storico della società dei produttori; non ha mai indicato che all’organizzazione dei lavoratori si dovesse imprimere questa direzione e questo senso. Ha teorizzato una particolare forma dell’organizzazione, il sindacato di mestiere e di industria, e ha costruito, sí, su una realtà, ma su una realtà che aveva una forma impressa dal regime capitalistico di libera concorrenza della proprietà privata della forza-lavoro; ha costruito quindi solo una utopia, un gran castello di astrazioni.

La concezione del sistema dei Consigli, fondato sulla potenza della massa lavoratrice organizzata per sede di lavoro, per unità di produzione, trae le sue origini dalle esperienze storiche concrete del proletariato russo, è il risultato dello sforzo teorico dei compagni comunisti russi, non sindacalisti, ma socialisti rivoluzionari.

 

 

Note:

[1] Sindacalismo è da intendere come una specifica teoria (o tendenza) politica presente nel movimento operaio dai primi del Novecento in avanti, secondo la quale il movimento sindacale e il sindacato sono e devono essere indipendente sia dallo Stato sia dai partiti politici. Tra i padri di questa visione vi sono, fra gli altri, Antonio Labriola, Enrico Leone e George Sorel, Secondo questa teoria, la classe operaia deve agire in maniera autonoma avendo come strumento principale della propria azione lo sciopero generale. Il fine ultimo non deve essere la conquista e la gestione del potere, ma la costruzione di una società nuova organizzata e articolata sulla base dei sindacati di settore, i quali dunque incarnano il processo di trasformazione sociale rivoluzionario e hanno come fine quello di inglobare tutta la classe e di coincidere con essa. Sviluppi di questa tendenza sono possibili sia in direzione riformista sia in direzione anarchica.

[2] L’organizzare gli operai non come produttori ma come venditori di forza lavoro, e quindi come prodotti della società capitalista, è ciò che distingue il sindacato dai consigli di fabbrica, secondo Gramsci (vedi “Sindacato e consigli” pubblicato in questo percorso di lettura).

[3] Questa coscienza è sviluppata nell’operaio dai consigli di fabbrica.

[4] Il riferimento è al sindacalismo di matrice anarchica (o anarco-sindacalismo), che Gramsci individua come l’altra grande tendenza scorretta del movimento sindacale italiano in aggiunta a quella riformista.

[5] Armando Borghi (1882 – 1968), sindacalista anarchico, il suo pensiero era fortemente anti-individualista e anti-stirneriano e fu principalmente ispirato da Malatesta e Kropotkin: si inseriva dunque nel solco del cosiddetto ‘comunismo anarchico’, secondo il quale l’azione individuale deve coordinarsi a quella collettiva, senza dogmi o restrizioni. Borghi, già segretario dell’USI, fu durante il Biennio rosso una delle figure di riferimento del sindacalismo anarchico, partecipando alla fondazione della rivista Umanità Nova e dell’Unione Anarchica Italiana, per questo viene citato qui da Gramsci.

[6] Bruno Buozzi (1881 – 1944), esponenente dell’ala riformista del sindacato e del Partito Socialista, fu prima segretario della FIOM, a partire del 1911, e poi deputato per il PSI dal 1920 al 1926. Fu inoltre segretario della CGL dal 1925. Gramsci lo cita qui in quanto eminente figura dei sindacalisti riformisti durante il Biennio rosso.

[7] Ludovico D’Aragona (1876 – 1961), esponente dell’ala riformista del sindacato e del PSI, fu segretario della CGL dal 1918 al 1925 e deputato dal 1919 al 1924. Successivamente, è stato membro dell’Assemblea Costituente e poi senatore di diritto, nonché tre volte ministro, prima del lavoro (1946-47), e poi delle poste (1947-48) e dei trasporti (1950-51). Viene citato in quanto figura principale dei sindacalisti riformisti durante il Biennio rosso.