Dopo la serrata padronale del 30 agosto alla Romeo di Milano, nel giro di cinque giorni la Fiom guida l’occupazione di oltre trecento stabilimenti. Il movimento si estende a tutto il nord Italia, compresi i piccoli centri, raggiungendo quasi la totalità delle fabbriche. A Torino, Milano e Genova il fenomeno non è più relegato al solo settore metallurgico ma investe tutta l’industria, in particolar modo il comparto chimico e tessile. La direzione delle officine è sotto la guida dei Consigli di fabbrica formatisi dalle vecchie Commissioni Interne e da delegati eletti per l’occasione. Gli operai non sono disposti a cedere senza un risultato economico e nelle assemblee si registra una volontà a proseguire e radicalizzare ulteriormente il conflitto. Inizia un primo censimento dei magazzini e la vendita di qualche prodotto. Attorno alle fabbriche si crea una rete di solidarietà. Il governo rimane immobile perché teme la guerra civile.

A questa forza si contrappongono alcune debolezze: nonostante l’impegno e il rendimento profuso dagli occupanti, il mancato coinvolgimento di tecnici e impiegati pesa sull’efficienza produttiva degli stabilimenti sotto controllo operaio. La formazione dei Consigli di fabbrica è ancora ad uno stadio embrionale, manca di un vero e proprio coordinamento nazionale e, soprattutto, di una piattaforma politica.

Gli operai si rendono conto della propria vulnerabilità e comprendono che per difendere l’occupazione devono essere disposti anche a fronteggiare uno scontro con l’esercito. In quest’ottica organizzano servizi armati di vigilanza, che assumono il nome di Guardie Rosse. A sostegno degli operai si schierano anche i ferrovieri, che attraverso la costruzione di picchetti armati presso i principali snodi ferroviari, impediscono l’intervento delle guardie regie.

L’unica città in cui l’attività dei Consigli è ben organizzata è Torino, la prima che ha visto nascere il fenomeno. All’interno delle officine della Società Piemontese Automobili si comincia addirittura a produrre bombe a mano, per prepararsi alla lotta armata. Nelle altre città, però, pesano disorganizzazione e debolezza militare. Persino a Milano, grande centro di produzione bellica e seconda città in ordine di importanza nel processo di occupazione, la strutturazione dei Consigli è ancora all’inizio. Gli ordinovisti temono l’isolamento e lo espongono chiaramente nelle riunioni del PSI.

Questa è la fotografia del movimento di occupazione prima dell’assise nazionale CGL del 10-11 settembre 1920. La direzione del sindacato, in mano all’ala moderata del PSI, sta già provando a contenere le lotte nelle campagne dell’Italia settentrionale, dove oltre 500mila braccianti sono pronti a spingersi oltre. E’ il turno di smorzare la combattività nelle fabbriche. Non è un caso che durante i primi dieci giorni di occupazione la direzione CGL non si pronunci, mentre il PSI massimalista non faccia seguire l’organizzazione dell’insurrezione ai propri proclami rivoluzionari. Lo sciopero generale non viene convocato e i dirigenti operai si limitano a fare da spettatori, come scriverà amareggiato Gramsci.

Il 10 settembre 1920, in una riunione congiunta fra direzione CGL e PSI, i massimi dirigenti del sindacato minacciano le dimissioni qualora il partito intenda promuovere l’insurrezione. La segreteria del PSI, rivoluzionaria solo a parole, prende la palla al balzo e lascia subito cadere la proposta, rimandando la decisione al Consiglio nazionale della CGL il giorno seguente. Questo scarica barile è il preludio al tradimento.

Il boicottaggio della lotta viene ufficializzato proprio l’11 settembre a Milano. Il Consiglio nazionale della CGL è chiamato a deliberare su due mozioni contrapposte: una demanda alla direzione del PSI l’incarico di dirigere il movimento verso l’ipotesi rivoluzionaria; l’altra mozione, sostenuta dalla segreteria CGL, propone come unico obiettivo il riconoscimento di un ruolo maggiore del sindacato nelle aziende. Purtroppo, sarà quest’ultima a prevalere. La rivoluzione viene dunque messa ai voti e respinta a maggioranza.

Quando è chiaro che i massimi organi dirigenti del movimento operaio italiano rinunciano di fatto ad ogni ipotesi rivoluzionaria, Giovanni Giolitti ha il campo libero per intervenire, giungendo così all’accordo siglato a Roma il 19 settembre 1920, che si traduce in uno sgombero pilotato delle fabbriche tra il 25 e il 30 settembre.

In questa situazione l’Ordine Nuovo non può certo farsi carico da solo, in un’unica città, sebbene la più preparata, di condurre un processo rivoluzionario. L’aspetto più deprimente della vicenda è che la sconfitta non avviene nella lotta, ma dentro le stanze delle organizzazioni della classe operaia, causando un’ondata di sfiducia e disorientamento senza precedenti. In un attimo si passa dall’apice del movimento ad un abbandono del campo di battaglia.

Una tragedia del genere non sarebbe potuta accadere se l’Ordine Nuovo avesse avuto radici salde a livello nazionale, nel PSI e dentro la CGL, attraverso una strutturazione organizzata che potesse fornire una prospettiva rivoluzionaria agli operai non solo di Torino, ma in tutta Italia. I compagni ordinovisti giungono troppo tardi a questa conclusione: ormai il tradimento è stato perpretrato e il movimento sconfitto.

Dopo quattro mesi, il 21 gennaio del 1921, si scindono dal PSI per fondare il Partito Comunista d’Italia, ma la situazione in cui si trovano a militare è completamente diversa. Il clima tra gli operai è remissivo e si fa strada nella società una forza che si nutre di questa sconfitta: il fascismo.

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Paolo Spriano | L’occupazione delle fabbriche